Carissimi,
bentrovati su Verde, l’unica cosa della Internet italiana a non rivendicare natura o finalità letterarie (da tempi non sospetti). E allora, dice, chi siete, che volete, che fate? Di certo non pettiniamo lit-bambole: entriamo nel quarto anno di blog, che con i tre precedenti di cartaceo fanno sette anni di in-vi-dia-bi-le vita editoriale. I numeri del 2017 parlano chiaro (parlano? Chiaro?): 48 autrici e autori hanno esordito su Verde; abbiamo pubblicato 128 contributi tra atti unici, poesie e racconti, di cui solo 20 molto brutti e 5 brutti (la proposta di Pierluca D’Antuono di svelarne i titoli è stata cassata dalla pavidissima redazione, quindi no, non chiedeteci quali sono o scrivete a pierlucadantuono@gmail.com); i racconti più letti dell’anno sono stati questo, questo, questo; i meno letti non sono usciti qui (ma qui, qui e qui). Ricorderemo il 2017 per una quasi scissione, il ritorno a Firenze, l’amara constatazione di avere più pretendenti che lettori, la meritata morte di una rubrica, l’inspiegabile nascita di una nuova, la presa di Bologna, il mancato ritorno al cartaceo, il ridimensionamento della redazione (adesso siamo in sei, dal 2015 ne abbiamo fatti fuori due all’anno, chi saranno i prossimi? Via al televoto), una nuova rivista in città e per una importante lezione: resistere è inutile, leggere subito i racconti che ci inviate pure, perché tanto li avete già mandati ad almeno altre due riviste online e vai di pubblicazione a blog unificati (ma si può?).
Propositi per il 2018: rallentare ulteriormente i tempi di lettura, e non vi lamentate perché questa non è letteratura e noi facciamo quel che possiamo, quel che non possiamo non facciamo (Alberto Manzi, do you know?).
E quel che abbiamo già fatto non rifacciamo: niente Oroscopo dunque, ma una Lista ombelicale dei tredici migliori libri che abbiamo letto nel 2017 (in ordine sparso), scritti – indovinate un po? – da redattori, collaboratori e amici di Verde:
Paolo Gamerro, Sbiadire, Augh! 2017;
Simone Ghelli, Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni 2017;
Sandro Battisti, Giovanni De Matteo (a cura di), Nuove Eterotopie – L’antologia definitiva del Connettivismo, Delos Digital 2017;
Lukha B. Kremo, I Nerogatti di Briganti, Trilogia degli Inframondi vol. 3, Delos Books, 2017;
In Fuga dalla Bocciofila, Fino all’ultimo Haiku, 2017;
Gabriele Merlini (a cura di), ODI. Quindici declinazioni di un sentimento, Effequ 2017;
Stefano Solventi, Nastri, Eretica Edizioni 2017;
Gianluca Garrapa, Un ronzio devastante e altre cose blu, 2017;
Franco Sardo, SuperDio, Blonk 2017;
Luca Piccolino, Antartide, Sacco 2017;
Francesca Fiorletta, Borges non è mai esistito, L’Erudita 2017;
Lorenzo Vargas, Una più del diavolo, Las Vegas Edizioni 2017.
Vita, morte e visioni della monaca Elisabetta lo ha scritto invece Andrea Frau, promosso stabilmente e con merito al lunedì. L’illustrazione è di Federica Consogno. Buon inizio di settimana amici, tornate a trovarci, noi stiamo sempre qua, vi aspettiamo.
1.
Una giovane monaca è incatenata al portone del monastero di Santa Chiara a Oristano. Otto anziane consorelle cercano di dissuaderla ma lei se ne sta lì, con un sorriso serafico, apparentemente immobile proprio come un convento di sette secoli.
«Elisabetta, non serve a niente protestare, ormai è già deciso» gracida una di loro, quella più vecchia, con la faccia da rana placida.
Il monastero chiuderà, forse diventerà un museo, le monache clarisse saranno trasferite a Cagliari. Sono tutte anziane, qualcuna non più autosufficiente. Da un paio d’anni è Elisabetta a occuparsi di tutto: cura l’orto, crea piccole sculture e rosari che vende sul sito internet da lei realizzato. Elisabetta ha trent’anni e quella è la sua unica casa. Ma ora uomini pii travestiti da ostetriche la stanno strappando via dal suo carapace affrescato, un parto che sembra più un aborto. L’hanno acciuffata al collo con un rosario e tirano, tirano, Elisabetta fatica a respirare, con l’ultimo strattone si strappa il lazo, i granelli del rosario schizzano sul carapace che viene tempestato come sotto un bombardamento; gli altri si spargono a terra, rotolano, sembrano centinaia di occhi, di testimoni innocenti, nella retina incisa un’ultima immagine di violenza. È una nascita dolorosa. Costretta a venire alla luce, sradicata dalla confortevole oscurità della cella, la mondanità sta irrompendo con violenza, il tempo della contemplazione e del silenzio è finito. Elisabetta teme d’esser rigettata nel mondo. Con fatica è riuscita a staccare il cordone ombelicale e ora glielo stanno riattaccando, un cordone artificiale d’acciaio, filo spinato elettrificato, corona di spine e sondini artificiali, macchine che la sradicano dalla natura del silenzio.
Attorno a quella monaca incatenata c’è una piccola folla di curiosi, il parroco, addirittura il vescovo, cercano di convincerla con le buone, poi la accusano di gettare discredito, di dar spettacolo, di venir meno all’obbedienza, ma è tutto inutile. Fa freddo, Elisabetta ha intenzione di dormire lì, le consorelle sono anziane, restano finché possono, poi vanno via, dispiaciute. Rimane una sola di loro a farle compagnia:
«Cosa pensi di ottenere con questa messinscena?»
«Voglio che ci lascino qui».
«Domani verrà la televisione, ti rendi conto che inutile gazzarra hai scatenato?»
«Io combatterò come Santa Chiara».
«Non esser blasfema, non vorrai mica paragonarti alla nostra santa. Qua la questione è di natura pratica: noialtre siamo anziane, non riusciamo neanche a…»
«Penserò io a tutto, non dovete preoccuparvi».
«Il monastero di Cagliari è bellissimo, sai? Ci sono decine di monache della tua età. Non sarai sola, vedrai».
Elisabetta nervosamente tormenta il suo rosario. Inizia a piovere.
«No. Questa è casa mia, non posso andarmene e non capisco perché non vi uniate a me, basta col dir sempre di sì e obbedire, non ci hanno neanche consultate».
«Sì invece, gliel’abbiamo fatto presente noi al vescovo…»
«Cosa? Avete chiesto voi il trasferimento?»
«Abbiamo solo raccontato delle difficoltà quotidiane».
«Dopo tutto quello che ho fatto per voi, mi avete tradita!»
«Senti ragazzina, forse sei troppo immatura per la tonaca, non ti permetto di…»
«Noi seguiamo le regole di Santa Chiara, non quelle del prete, del vescovo, o chi per loro! Fosse per loro neanche esisteremmo».
Inizia a grandinare. Il rosario si rompe, i grani si sparpagliano a terra.
«Cos’è questa logica, del noi, loro, noi siamo la Chiesa! Loro, come dici tu, rappresentano l’autorità, rappresentano Cristo, perciò rispetta il tuo voto d’obbedienza, poche storie, bimbetta capricciosa! La tua disobbedienza non può trovar posto qua dentro. Ogni sorella ha rinunciato al proprio legame col mondo prima di unirsi a noi, e anche tu hai fatto lo stesso. Quando si entra qui, si chiede alle novizie di murare personalmente il passato nella propria cella, che sia un feto, che sia la foto di un amante, o qualsiasi altro egoismo. Bisogna spogliarsi dal passato, bisogna esser nudi per potersi scaldare all’abbraccio di Cristo».
«Io vi sono debitrice, lo so. Mi avete accolta quando nessun altro mi voleva, grazie a voi sono rinata, ma ora che ne sarà di me?»
«Il convento non è un ricovero per ragazze difficili, ti abbiamo fin troppo coccolata, la cosa giusta da fare ora è riportarti all’ordine e ricordarti cosa vuol dire essere una monaca clarissa».
«Siete voi che l’avete dimenticato, cara badessa».
«Basta! Non abbiamo la disponibilità del nostro corpo, figuriamoci della casa, una monaca dovrebbe saperlo!» L’anziana monaca si fa rossa in volto, ha un collasso e crolla a terra.
Elisabetta, incatenata com’è, può far ben poco, cerca la chiave convulsamente, le mani tremano, chiama aiuto ma nessuno la sente.
La badessa giace inerte, la faccia sull’asfalto bagnato.
Elisabetta si maledice, piange disperata, poi vede la scena riflessa su una pozzanghera: l’anziana a terra, se stessa incatenata e smette di piangere.
All’alba le consorelle trovano la badessa morta e un paio di manette a terra. Elisabetta è scomparsa.
2.
Sta facendo l’autostop a chilometri di distanza. Una macchina sembra fermarsi, dei giovani, probabilmente ubriachi, urlano qualcosa e le lanciano delle lattine vuote di birra.
Elisabetta pensa: “Certo che questa tonaca non attira proprio le simpatie della gente”.
Altre tre auto sfrecciano senza fermarsi, finché una rallenta. Al volante un ragazzo, avrà più o meno l’età di Elisabetta, sembra gentile, lei si fida e sale a bordo.
«Sei una suora? Sei giovanissima!»
«Una monaca clarissa».
«Posso chiederti quanti anni hai?»
«32».
«Oh, anche io, e pensare che ti stavo per dare del lei e chiamarti madre».
Il ragazzo sorride. Elisabetta ricambia.
«Come mai in giro da sola a quest’ora, hai saputo anche tu del free drink al Marasma?».
«Immagino che sia un locale notturno questo Marasma. Comunque no, sto solo fuggendo».
«Hai fatto la cattiva, non hai detto le preghiere della sera?»
Il ragazzo le posa una mano sulla coscia, Elisabetta ha un sussulto e lo allontana. Il ragazzo ci riprova, senza nemmeno guardarla negli occhi, Elisabetta lo spinge via energicamente, il giovane perde il controllo dell’auto, sbanda, finisce fuori dalla carreggiata e si schianta contro un muretto a secco. Scatta l’airbag, il ragazzo sanguina, è ferito, forse morto. Elisabetta non ha nulla, è solo un po’ stordita, esce dall’auto, barcolla, spinge fuori il ragazzo dall’auto e si rimette in viaggio.
Dopo una cinquantina di chilometri legge un cartello con scritto: Demòli, 300 abitanti, comune denuclearizzato.
Lascia l’auto all’entrata del paese e fa il suo ingresso, ferita, impolverata, con la tonaca strappata, un ciuffo castano di capelli spunta da sotto il velo, con una mano scosta i capelli dall’occhio sinistro, ed eccolo lì, rispuntare, il suo sorriso serafico.
Sembra il villaggio disabitato di un film western: desolazione pre-nucleare. Elisabetta cammina lentamente, passa attraverso nuvole di polvere, come un fantasma attraverso i muri.
3.
Sono passati tre mesi, Elisabetta vive a Demòli. È in una grande casa, graziosa, piena di libri e gatti, sente un rumore, si spaventa, apre il frigo e mette quel che riesce nello zaino, poi scappa dalla finestra. Elisabetta ha finito i soldi.
La ragazza entra in biblioteca ma non c’è nessuno, chiama il bibliotecario senza ricevere risposta. Lo scaffale della sezione Cucina barcolla, Elisabetta intravede, tra i volumi, la faccia della signora D’Onofrio schiacciata su un libro con una melanzana alla parmigiana in copertina. La donna ha i capelli in faccia ed Elisabetta lo percepisce sporco di sugo e unto d’olio. Dietro di lei c’è il bibliotecario, Gaetano, sudato, con la camicia aperta che la vede, e le fa segno, supplicante, di aspettare due minuti. Dopo esattamente due minuti Gaetano, impeccabile, pettinato e abbottonato, raggiunge l’ex monaca al banco dei prestiti.
«La moglie del sindaco» dice Elisabetta, con divertito stupore.
«Eh sì, è uscita dal retro» risponde Gaetano, guardando a terra.
Gaetano ed Elisabetta hanno preso a frequentarsi, in biblioteca soprattutto, fanno lunghe chiacchierate sull’universo mondo, filosofia e religione, persino sulla volgare attualità, si scambiano confidenze e si potrebbe dire che siano diventati amici.
Gaetano dopo la laurea in lettere vinse una borsa di dottorato ma in sei mesi mollò a causa de Lo Schifo, come lo chiama lui. Trovò quest’impiego temporaneo come bibliotecario, che ormai dura sei anni. Vive come un pensionato, senza più rabbia o l’ardore d’un tempo. Se non fosse per le signore con le quali si intrattiene e, da poco, le chiacchierate con Elisabetta, sarebbe dura.
«Devono chiudere il tabacchino, sai?» la informa Gaetano.
«E dove deve andare uno a prendersi le sigarette, ora?»
«Il paese più vicino è a soli venti chilometri».
«Prima il medico che decide di venire qui solo tre volte la settimana, ora il tabacchino».
«Almeno Dio rimane nei paraggi per prendersi le bestemmie. O farà i turni anche lui, come il medico?» domanda con sarcasmo il ragazzo.
«Per bestemmiare dovrai andare al paesino qua vicino, solo venti chilometri» chiosa Elisabetta.
«Troppa fatica, inizierò a bestemmiare signora Gianna, l’ultima bottega aperta del paese, assurta a divinità lei, a tempio la bottega».
I due ridono. Poi il bibliotecario, sardonico, rincara la dose: «Questo posto è talmente isolato che potremmo organizzare combattimenti tra bambini handicappati, raffinare cocaina, far esperimenti eugenetici, ricostituire il partito fascista…»
«O fare una comune» propone seria Elisabetta.
«Potremmo stare nella tenuta abbandonata dei conti Cordaz».
«E chi verrebbe?»
«Io e te, per cominciare».
4.
Oggi, un’operazione di polizia a Dèmoli… Demòli, mi dicono dalla regia… I carabinieri con l’ausilio dell’esercito hanno sgominato una setta satanica che praticava riti orgiastici, sacrifici forse umani, produceva droghe sintetiche:
Elisabetta L., 33 anni, una ex suora, sospettata di due omicidi, latitante;
Gaetano F. 32 anni, ex bibliotecario del paese, un passato violento, noto per intemperanze caratteriali;
Michela D. 54 anni, moglie del sindaco, malata psichica, vittima di plagio;
Cristina S. 19 anni, orfana, precedenti penali per furto, danneggiamento e vandalismo;
Manuel P. 18 anni, scappato di casa, di buona famiglia, plagiato anch’egli.
C’è stata una sparatoria. I santoni, capi della setta, Gaetano F. ed Elisabetta L. avrebbero aperto il fuoco per primi sui carabinieri ferendone due. Dopo due ore di trattative fallite è intervenuto l’esercito. Quando i militari sono entrati hanno rinvenuto cinque cadaveri. I membri della setta si sarebbero suicidati.
I paesani, demòliesi, ci dicono che nella comune si praticavano messe nere, oscuri riti, promiscuità sessuale e sicuramente consumo e produzione di sostanze stupefacenti. Da quando la setta ha occupato abusivamente le tenute dei conti Cordaz in paese si sono verificati danni al raccolto, morie di bestiame, gravidanze isteriche e incendi misteriosi.
5.
Elisabetta cammina lungo il chiostro del monastero di Santa Chiara, come una sposa, con i vestiti logori e impolverati, dei tagli sul viso, nelle braccia. Il giardino è completamente bruciato, una distesa nera, secca, senza vita, sul terreno conficcate cinque croci. In piedi, ai due lati delle colonne, affrescate con colorati motivi floreali, la attendono i ragazzi della comune e le monache, sorridenti. Elisabetta ricambia, felice. La ragazza cammina incontro all’officiante: è il ragazzo dell’autostop, quello della discoteca Marasma, vestito da Papa. Il Papa giovane legge da un foglietto:
Elisabetta, grazie, per ora è tutto. Neanche io so cosa ti aspetta, ma sono sicuro che te la caverai, andrà benissimo, ti aspetta quello che hai sempre desiderato. Ma stai in guardia, ricorda che i Papi sono bugiardi.
I presenti applaudono. Elisabetta si vede riflessa in uno specchio d’acqua fangoso, un rosario a terra. Dietro di lei la badessa con la faccia da rana fa un salto e atterra a piedi uniti sulla pozzanghera schizzandola, tira fuori la lingua e acciuffa il rosario.
6.
Il monastero di Santa Chiara è scomparso, come se non ci fosse mai stato. Un’allucinazione collettiva lunga sette secoli, se non di più.
grazie per le vostre preferenze! buon anno 🙂
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Anche a te Sandro 🙂
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