GATTINI™#17: NESSUNO CAMBIA A TORINO

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DeadTamag0tchi after Andy Wahrol, GATTINI

GATTINI è il contenitore degli orrori indifferenziati di Verde, ogni qualche venerdì qui e su Facebook. Guido Zanetti ha già scritto per Verde, ma con Nessuno cambia a Torino lo leggiamo per la prima volta di venerdì, nella settimana in cui vara insieme a Luca Tu Quoque Marinelli un nuovo blog foraggiato dai poteri forti sabaudi (PAKANO LORO1!11!1!). È ufficialmente scissione anche dentro Verde? Sì, ma non finisce qui (ne vedremo delle belle). La copertina di DeadTamag0tchi. È venerdì, e allora? Miao.

Gionata parlava a non finire. Eravamo in un bar della movida torinese, ma la movida raffinata, quella un po’ hipster, per capirci. Eravamo lì e Gionata dava spettacolo, raccontando di un fighissimo cineforum a cui aveva assistito la sera prima. Due ragazze, carine e tutto, ma con l’espressione vuota di un husky, annuivano e sorridevano mentre Gionata, coi suoi baffetti stronzi, ciarlava a non finire su Lars Von Trier, la bellezza del montaggio, l’introspezione psicologica dei suoi film e il suo amore per il manifesto di Dogma ’95. Io sapevo che di montaggio capiva poco e un cazzo, che per lui la psicologia dei personaggi era come quella della Gioconda e che di Dogma ’95 aveva visto solo un film.

Tra una recensione e l’altra, alcune di film che non aveva mai visto, mi dà dei colpetti con il gomito, come a dire che stasera si scopa. Io guardo la bionda delle due, la più carina. Sì, carina sì, ma il contorno di giacchetta finto trasandato, il dread last minute dietro la nuca e in genere la spocchia che trasuda dalla sua figura mi rende moscio come l’impasto di una pizza. Quindi niente, annuisco per fare contento Gionata, che ora si sente il pappone della serata, e torno a sorseggiare la media.

Né io né Gionata siamo di Torino. Veniamo da un posticino inculato, una stellina in una galassia di paeselli lasciati a loro stessi, sulla frontiera tra la Liguria e il Piemonte, due regioni che avrebbero volentieri fatto a meno di noi. Alla fine, siamo toccati al Piemonte.
Insomma, veniamo da là, anche se non è che ci conoscessimo a fondo. Ed è strano, perché a nostro modo eravamo abbastanza degli emarginati e nei posti piccoli gli emarginati tendono a fare gruppo. Siamo anche usciti assieme qualche volta, con la nostra compagnia, ma generalmente non impazzivo all’idea di passare la serata solo con lui: sparava veramente troppe, troppe stronzate. Non che io scherzi, ma ci vuole un senso del limite. E poi aveva una cosa tremenda: si credeva superiore a tutti, pensava che nessuno lo capisse, faceva la parte del genio incompreso. Io provavo anche a consolarlo, gli dicevo che i paeselli dimenticati tra i campi e le fabbriche in chiusura non danno molto spazio all’originalità, ma dopo un po’ mi sono rotto il cazzo. Non che glielo abbia detto, mi sono limitato a defilarmi.

E poi succede che ci incontriamo a Torino: io studio e lui pure, io sceneggiatura e lui ingegneria, ma la sua passione resta l’arte, dice. Non che me ne fregasse molto, ma alla fine becchi uno di casa in trasferta, è logico che finisci per legare, anche se non lo sopporti. O almeno, questa è la logica paesana che non mi toglierò mai di dosso.

Ed eccoci qui, con le due bambolotte che smaniano per Gionata e io in un angolo a pensare a quando finirà lo strazio. Gionata toglie il giubbino, fa vedere le braccia, muscolose e coperte di tatuaggi. Le bambolotte le guardano meravigliate, toccano, seguono le linee dei disegni. Gionata sorride compiaciuto ed elenca gli sgorbi: una carpa koi, in Giappone simbolo di perseveranza, una clessidra per ricordarmi di vivere la mia vita e qua c’è una corona, questa la conservo per la donna che farò regina. Io quasi cado dallo sgabello, un’uscita svenevole, di quelle che al paese lo lasciavano solo come un cane mentre tutti correvamo a casa, imbarazzati per lui. E invece qua a Torino la cosa acchiappa, incredibile, le due bambolotte sghignazzano e lo guardano con gli occhietti strizzati. Lo giuro, sono ancora più moscio di prima. Non per la battuta, o per la reazione delle ragazze, ma perché, conoscendo Gionata, conosco la storia vera: quei tatuaggi non significano un cazzo, sono solo il contorno dei muscoli.

Il bello di beccare gente di casa in trasferta è che sembra di vedere due persone diverse: Gionata, il babbo, lo sfigato frustrato, arriva in città e si copre di tatuaggi, mette su muscoli, si agghinda in stile skater-hipster-punk-cazzonesco, guarda un sacco di film, con il corollario incluso di frasi fatte, legge libri che non capisce veramente e giù a far colpo sulle fighette.
Dove nessuno lo conosceva, poteva fare la parte del duro intellettuale, quando in realtà sapevo benissimo che era uno zotico cagasotto. Ma io non sono crudele, non gli rompo il sogno. Chi sono io per giudicarlo? Che poi, forse, a giocare una parte finisce che si immedesima e diventa davvero come vuole. Come Heath Ledger, no?

E mentre penso a queste cazzate pur di non sentire di nuovo la critica personale e accorata della Sposa Giovane, gentile concessione di Goffredo Fofi, ecco che uno zarretto gli molla una spallata e gli fa cadere la birra. Il vetro si spacca, silenzio. Le bambolotte guardano fisso Gionata, con lo stesso sguardo che avevamo a otto anni di fronte a Dragon Ball: avanti Gionny, vai! E Gionata ci va, eccome, molla uno schiaffone sonoro, di quelli che schioccano, in faccia allo zarretto, che evidentemente non se l’aspettava. Poi rincara la dose, gli prende la birra di mano e gliela versa addosso. Lo zarretto corre fuori, Gionata si bea della gloria. Visto che roba, mi fa, ora sa con chi ha a che fare! Io faccio di sì e sorrido e devo dire che sono davvero impressionato, in paese sarebbe scappato via sicuro e invece qua ha davvero dominato la scena. Sta’ a vedere che Torino lo ha cambiato sul serio.

Solo che poi lo zarretto ritorna e ha appresso uno zarrone. Ma grosso, con la giacca in finta pelle e la testa rasata e un sacco di tatuaggi, non quelli raffinati, no, quelli che stanno a metà strada tra lo stadio e la galera, quelli cattivi, insomma. Lo zarrone gli si pianta davanti e lo spintona, il mento bene in alto. Cos’è che c’hai con mio cugino, chiede mentre le bambolotte sbiancano e si defilano.
Ora crolla, penso, ora chiede scusa e se ne va. E invece no, si fa avanti, gli ho tirato uno schiaffo, perché? Lo zarrone diventa rosso, cazzo, gli vedo le vene gonfiarsi sul cranio, sembrano scolpite come un bassorilievo, sembrano davvero di marmo. E io vorrei prendere Gionata da parte, chiedere scusa per lui, magari prendermi pure uno schiaffo, ma almeno cazzo, portiamo il culo a casa. Intero, s’intende.
Ma niente, non faccio nemmeno in tempo a parlare che Gionata è già lì con il petto in avanti, ne parliamo fuori, gli dice intimidatorio. Sono davvero colpito, non ci posso credere. Non ci credo, nemmeno ora che stanno uscendo insieme, con le bambolotte piccole piccole in un angolo che lo guardano come si guarda un martire, una leggenda, e io sullo sgabello che penso seriamente di chiamare la polizia. Voglio dire, quello lo ammazza sicuro.

Passa un minutino, Gionata e lo zarrone sono spariti in un vicoletto buio e non tornano. Gionata non è mio amico, non per davvero, e ho appena avuto la mia preghiera esaudita: potrei andarmene a casa e, se ho culo, di Gionata non ne sento parlare mai più, forse solo sul giornale di domani. Ma, come dicevo, le logiche paesane sono dure da dimenticare, quindi fanculo, ingoio birra e coraggio e vado a controllare, anche se ho dubbi su quello che potrei fare. Mentre esco, lo zarretto fradicio mi squadra, vai a salvarlo prima che muore, va. Il congiuntivo, gli dico. Zappaterra del cazzo, aggiungo.

Mi inoltro nel vicoletto e niente, per un attimo penso, lo ha già ammazzato e fatto sparire. Invece no, sento la voce di Gionata, venire da dietro un angolo. Mi avvicino, ma appena vedo lo zarrone in piedi, istintivamente mi metto dietro un cassonetto.
Gionata è lì, in piedi anche lui, le mani giunte. Senti, non volevo fare il duro, ero con le ragazze non potevo starmene, volevo solo fare scena, davvero, perdonami.
È una cazzo di litania, di quelle continue e lagnose. Ondeggia pure, proprio come i rabbini. Lo zarrone ha gli occhi iniettati di sangue: non ne posso più io di quella cantilena, figuriamoci lui. Così gli molla una sberla, tanto forte da far fischiare le orecchie pure a me. Se non avessi visto lo schiaffo, avrei pensato a un minicicciolo. E dovreste vederlo, Gionata con la testa bassa e le mani a proteggersi, che implora pietà. Non per dire, ma dice proprio pietà, di continuo. Assurdo.

Lo zarrone si fa più baldanzoso, i soldi, gli fa. Gionata non se lo fa ripetere, tira fuori il portafoglio e lo porge. Non toglie nemmeno i documenti, lo scemo.
Ora dimmi perché non ti devo spaccare il culo, dai dimmelo. Gionata è bianco in faccia, quasi brilla al buio. Balbetta, suda, cazzo, incredibile.
Vorrei saltare fuori a questo punto, ho anche trovato una bottiglia di vetro in terra che se la do in testa allo zarrone lo sistemo. E la raccolgo pure, la bottiglia, pronto a fare il botto, se non fosse che vedo una roba che avrei voluto non vedere, che mi lascia davvero di merda.

Gionata è in ginocchio e porco dio, sta succhiando il cazzo allo zarrone. E mi direte, è una violenza, invece no, ci si mette da solo, lo zarrone sta solo al gioco!

Per un po’ me ne sto zitto, sento solo i respiri dello zarrone, i gorgoglii di Gionata e qualche singhiozzo occasionale. Poi lo zarrone grugnisce, riallaccia i pantaloni e dà un ultima sberla a Gionata, portandosi via il suo portafoglio, la sua dignità e la sua verginità di bocca.
Poi Gionata si alza, asciuga le lacrime e vai col tocco finale: attacca a mollare pugni al muro. Bravo, penso io, almeno ti incazzi. Poi però, molla anche una facciata, si fa un graffio sul collo e si sgualcisce la camicia, per poi andarsene tutto tronfio.
Non posso crederci.

Faccio il giro opposto e torno al bar: Gionata è già lì, le bambolotte pure, esibisce i graffi sulle nocche, il bozzo in faccia. Gliel’ho fatta vedere, a quello stronzo, si vanta a non finire, se sopravvive è miracolato. E le bambolotte giù a ridere e ad allungare le mani, mentre io entro di soppiatto e torno al mio sgabello. Gionata si accorge di me, spalanca gli occhi, oh, ma dov’eri finito?
Ero venuto a cercarti, gli dico, ma non ti ho trovato, aggiungo più piano.

Nulla, la serata continua normale, almeno per Gionata, ma io sto da cani. Sto da cani per quello che ho visto, per il segreto che mi porto dietro, perché nessuno cambia veramente.
Non spiccico parola per il resto della serata e quando viene il momento della buonanotte, guardo Gionata portarsi la bambolotta bruna a braccetto verso casa. Io resto solo con la bionda, che ora, forse per il fatto che non gira più intorno a Gionata, non sembra poi così stupida.
Sì, insomma, sono un po’ sconvolto e su di giri e tento un approccio, ma vengo respinto, malamente.
La bionda quasi ride e fa di no, che i tipi come me non le interessano. Che vuol dire come me, le faccio, ho un’etichetta in fronte?
Quelli come te, continua lei con il tono riservato ai deficienti, quelli né carne né pesce, tutta immagine e niente sostanza. Sospira, fortunata Bea, dice. Bea è la sua amica, lo scopro solo ora, mentre il suo nome non lo scoprirò mai, presumo.
Lei ha Gionata, lui è uno stimolante, ha interessi, cultura e sa come farsi rispettare, non come te.
Capito, le dico, ringrazio e torno per la mia strada.

Sulla via di casa non smetto un secondo di pensare alla scena che ho visto, alla testa di Gionata che fa avanti e indietro sul cazzo di un Minosse urbano, solo per non farsi spaccare il cranio. Ora Gionata sta scopando allegramente, ma mi chiedo se tutte le scopate del mondo gli leveranno mai di bocca il sapore di cappella. Se tutti i film, tatuaggi, libri, mostre d’arte e risse simulate, cancelleranno mai lo zotico cagasotto che, in paese lo sappiamo, è sempre stato.

Guido Zanetti

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