GATTINI™#33: Un karaoke devastante e altre cose verdi che non farò mai più

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Sergio Caruso, GATTINI™ after deadtamag0tchi

Siamo a settembre, è venerdì sera, sono le dieci e noi siamo molto confusi. Temporeggiamo da un mese ma non ne veniamo a capo: che fare con GATTINI? Quoth the Raven, Nevermore o Baby baby one more time? Abbiamo sfangato luglio, ma adesso basta: il fallimento del contenitore degli orrori indifferenziati di Verde è sotto gli occhi di tutti. Le ragioni sono le stesse che spiegavamo qui (altro che “nemmeno vagamente“, Peter Hook).
Come al solito in circostanze del genere ci affidiamo al nostro Mister Wolf, Francesco Quaranta (che forse ricorderete per questo racconto, la prima parte di una trilogiavanno forte le trilogie da queste parti – che dovrebbe concludersi il mese prossimo). Quando non scrive per Verde, Francesco fa il groupie dei migliori talenti che a quanto pare ogni fine settimana si esibiscono nei locali della Bassa Padana (se siete nostri lettori, ora sapete come nasce Un karaoke devastante e altre cose verdi che non farò mai più). Francesco però è anche Colui che ammazza le rubriche. Non potevamo non unire i puntini.
È tempo di decisioni.

Sarà mai possibile liberarci del fardello della rubrica del venerdì ed evitare di pubblicare i racconti con dodici ore di ritardo? Ci sarà l’ennesima nuova rubrica su Verde? Quale sarà il nome? Che fine fanno le rubriche del venerdì quando arriva settembre? E chi disegnerà la nuova copertina? Quella che vedete quassù l’ha fatta Sergio Caruso, un anno fa. Non l’abbiamo mai usata, ci sembrava giusto farlo oggi.
Miao, buon fine settimana, è stato bello.

Nota: il seguente manoscritto è stato ritrovato qualche settimana fa in una piazzola di sosta della strada statale Paullese. In calce si distinguono due firme stortate dal Cynar: Jonathan Nolan e Michael Crichton. I due, probabilmente in villeggiatura nel ridente cuore della Lombardia, hanno perso nel vento questi appunti per una sceneggiatura.
Il sottoscritto si è soltanto permesso tradurre in italiano, riordinare la frasi e spruzzare il tutto di verde.
Declino perciò ogni altro tipo di responsabilità.

Come nei sabati sera in provincia
Che sembra tutto finito poi ricomincia.
Sabato, sabato, è sempre sabato
Anche di lunedì sera è sempre sabato sera.

Lorenzo Cherubini

La personalità non è altro che un fascio di abitudini legate insieme da una coscienza volubile.
Per esempio, il Gianni è il suo camparino e il camparino è il Gianni, sono un tutt’uno per consuetudine. Il Gianni non partecipa più al karaoke per via delle sigarette che gli hanno fottuto le corde vocali; trascorre ogni sera con il calicetto insanguinato e le infinite Marlboro Gold sul suo sgabello di vedetta, posto fuori dal locale. Saluta quelli che entrano e conosce a memoria nome, cognome, numero di matricola e genealogia degli habitué. Nelle vene gli scorre un quarto di sangue libico, ma non ne è al corrente e perciò non lesina appellativi razzisti e scenate bizzarre agli eventuali stranieri.

È già in allerta quando la Dacia biancastra emerge dalla foschia come un disco volante fuori rotta e si arresta nello spiazzo.

Ne scendono due fighetti incravattati dall’aspetto concitato. La coppia, rasata di fresco, indossa completi antracite che cadono a pennello; il primo ha i capelli leggermente ricci, tirati all’indietro a leccata di vacca, mentre il secondo ha un taglio a sfumatura alta con un bel ciuffone intraprendente. Di loro non sappiamo nulla, se non che indossano degli occhiali scuri all’una di notte e che tengono delle calibro 38 accomodate in fondine ascellari sotto la giacca.
«Che posto di merda».
«Sarà un macello, te lo prometto. Non vedo l’ora di metterti alla prova, vecchio mio».
Sistemano i fazzoletti verde smeraldo nei taschini. Il loro gioco per stasera è fingere personalità che non possiedono.

La bassa padana riposa nel suo banco di nebbia, in secessione dal corso del tempo, ogni giorno è uguale all’altro ma i residenti non se ne rendono conto, accomodati nelle proprie routine programmate da un dio beffardo, eppure non del tutto malevolo, a essere onesti. La pompa di benzina è una copia esatta di milioni di altre: c’è sempre qualcosa di troppo sbiadito dal sole, crogiolato nel suo abbandono, una sfumatura di scolorito che richiama sudore e bestemmie masticate.

Il localetto a fianco, invece, trabocca di luci impazzite e basi MIDI attutite dai muri del prefabbricato. All’interno, il signor Paul dirige il suo quattromilacinquecentoseiesimo karaoke, con quei suoi baffi strappati da un porno anni Settanta e la stratocaster con la quale intrattiene gli astanti.
Dietro il bancone, Martina è troppo bella per essere il genuino frutto di una selezione naturale biologica, di un fenotipo ariano così eugeneticamente raffinato che nessun nuovo venuto, vedendola raggiante e splendida nel compimento delle proprie mansioni, potrebbe immaginarla nuda in una stanza buia, la notte prima, spogliata del suo sorriso, a tentare di rammentare il suo posto nel mondo. Il suo scopo. Resettare cervello e pazienza per una nuova giornata come barista.

I due uomini in giacca e cravatta l’hanno già adocchiata ancor prima di avvicinarsi alla porta, ma ecco che il Gianni interviene e li ferma: non può concedersi vera diffidenza, perché quelli sono ben vestiti e hanno pure il fazzoletto della Lega come amuleto; però non li ha mai visti, non li conosce, qualcosa non gli torna e ciò scatena in lui un circuito di ragionamento secondario. È ora del suo numero.

«Furester», si rivolge ai due nel suo dialetto sciacquato dai fossi, «’n do ‘n dif an doe?», domanda congedando il camparino giù per la gola. I due ragazzi ridono e tentano di rispondere nel parlato locale.
«Mi serve il traduttore», fa il leccata di vacca.
«Me so ‘l padru ‘n de kel posto ke», continua il Gianni.
«Veniamo dal futuro», interviene l’altro con una mano già sulla porta, «siamo in missione per conto di Dio».
Il Gianni allora gli si para davanti e pronuncia quindi la frase che ha reso celebri gli anziani della bassa padana in ogni dove, su tutte le terre emerse e fin su nello spazio: «Sif fiöi de ki voter?», di chi siete figli voi?
La tensione è palpabile e sottolineata da uno stridere di archi sintetici che accompagnano il corrente brano del karaoke.
«Di puttana e dei tempi», risponde l’uomo col ciuffo. Poi rivolto all’amico: «Lo posso menare?»
«È innocuo. Il tuo test è un altro».

Martina compare dall’ingresso semi aperto, consegna un nuovo camparino al Gianni che dopo un sorso meccanico ritrova se stesso e la pace con il mondo. Il rissoso dei due incravattati però colpisce lo sgabello con un calcio, proprio mentre il vecchio si sta sedendo, facendolo rovinare a terra. L’altro rifila una palpata al culetto di Martina e la spinge all’interno; la ragazza si gira sconvolta per poi succhiarsi un labbro, ammiccante. Torna dietro al banco come se tutto l’accaduto fosse il normale corso delle cose.
Si accetta di assottigliare un filino la propria coscienza pur di non disfare le abitudini. Come se la facciata comoda potesse proteggere da tutte le follie.

Il ricciolo ordina Fernet doppio per entrambi, invita il compagno a farsi sotto con la barista visto che dovranno tirare almeno le tre. Quell’altro allora le dice che vorrebbe farle delle cose zozze senza il minimo rispetto per la sua dignità di donna, di creatura vivente e di lavoratrice, in quest’ordine. Martina fa intendere con fermezza di essere una ragazza seria, ma aggiunge anche che deve andare un attimo in magazzino, dove sarà tutta sola e indifesa per dieci minuti buoni. Quando la ragazza sparisce nel retro, l’uomo la segue lasciando sul marmo del bancone un bicchiere vuoto e sbavato.

Nel frattempo, la nottata di karaoke è entrata nel vivo: ci saranno più di cinquanta teste, chi accomodato ai tavoli, chi in piedi a ciondolare, chi al bancone. La musica agita l’alcol nei bicchieri, che vi resta comunque per poco, dato che viene prontamente ingollato.
Nello spazio tra i tavolini, in piedi davanti allo schermo LCD, Charlie (che praticamente risiede nel bar) si esibisce in un classicone di Antonacci: una ballad strappa-mutande e, cosa più ardua, sgancia-reggipetto. La canta collezionando una serie oscena di stecche, ma con passione. Si prende gli applausi con la modestia del contadino e cede il microfono a Franco, il Vasco-Rastaman della bassa bresciana, che offre agli astanti un’ottima interpretazione in chiave vegan dei vari piaceri della carne cantati dal rocker emiliano.

Nel sabato sera perenne della provincia, queste sono le solfe, questi sono i motivi, e davvero un architetto di storie non potrebbe inquadrarle meglio, non so come dirvelo. Nei karaoke di provincia si fa vera aggregazione, altro che social, altro che partiti, altro che naja: è qui che si crea l’identità locale e la si sbandiera alta. I residenti non vedono l’ora di dimostrare ai nuovi arrivati la propria appartenenza, lo fanno con canzoni in dialetto, canzoni distorte, canzoni fuori tempo foraggiate da basi MIDI dalla resa pessima, suoni che strigliano le orecchie, voci che ti penetrano i timpani e ti fottono il cervello con la sabbia. Non che ne capiti uno decente, di cantante, paiono scelti apposta da un talent scout alla rovescia per far fare bella figura ai nuovi arrivati. È una delle regole del gioco e come tale va preservata.
Adesso per esempio sarebbe il turno di Luana, con la sua voce da gatto strozzato, se solo non ci fosse l’incravattato col gel che doma i ricci a intromettersi e strapparle il microfono di mano con un’espressione di estrema serietà. La stanza precipita in un silenzio glaciale. Si sente uno scaracchio, un rutto ringhiato, vuoti di bottiglia che rotolano minacciosi.
L’uomo sfida tutti i presenti con lo sguardo, pregustando ciò che sarà dopo. C’è già passato, sa come comportarsi.

Tuttavia, un piccolo imprevisto: Franco (che ormai è alla terza Ceres e mezza) gli si piazza a due centimetri dalla faccia e attacca a sbraitare aggressivo.
Dopotutto le abitudini donano sicurezza, appena qualcosa esce dagli schemi e dai piani, il controllo comincia a sfuggire, le regole si piegano. Il gioco non appare più come tale.
«Colpiscimi», dice l’uomo, «Cagasotto».
Franco indietreggia e ricade sulla sedia.
«Come pensavo».
L’incravattato pretende di cantare il «Va Pensiero», l’inno del Carroccio. La scelta musicale doma tutti gli animi. Conosce i suoi polli.

Il ciuffo sbuca finalmente dalla porta del magazzino. Ha viso, mani e colletto sporchi di una sostanza verde smeraldo molto densa, tipo sciroppo alla menta. Sorride soddisfatto. Si gratta i coglioni e si richiude la lampo prima di allacciarsi la cintura.
«Non andare in quel magazzino, la ragazza valeva davvero tutti i soldi che ti ho sganciato».
«Il solito sentimentale».
«Adesso avrei voglia di spaccare qualche testa come dio comanda».
«Abbi pazienza. Senza trigger non ci attaccheranno mai».

Perché hanno scelto proprio questo posto? Dopotutto nessuno dei numerosi forestieri frequenta poi molto i karaoke di provincia. Come attrattiva, va detto, è alquanto scadente rispetto a ciò che offre il grande parco giochi della Pianura Padana: locali affollati e ben più alla moda, cover band revival anni ottanta, band tributo in dialetto, dancehall di latinoamericano, party di scambisti, supermercati di puttane, piazze di spaccio, palazzi sorretti da mazzette, gare di appalto estreme. Tutto ciò che due giovani e sani colleghi d’ufficio potrebbero desiderare. E invece il trigger, l’anomalia, il punto debole per sfasciare l’abitudine, sta proprio qui. Nascosto tra le due e le tre di notte.

Si chiama Ahmed (ovviamente), sarebbe nato in Turchia (irrilevante) e vende cazzatine luminescenti di produzione taiwanese (e rose e ombrelli a seconda della stagione). Ha la barba lunga e uno sguardo sconfitto, catatonico, che con malizia potrebbe essere confuso per quello di un fondamentalista risoluto. È un ambulante vecchio modello prossimo all’archiviazione. È una nota di colore in più, una cartina tornasole per meglio delineare le identità culturali degli altri habitué che infatti lo accolgono tra piccole sevizie e contrattazioni al limite della parodia. All’apparenza, solo un altro elemento della routine…

«Il nostro uomo», dice il riccio controllando una fotografia, «ora non dobbiamo far altro che scaldare gli animi».
L’altro perciò comincia a sgranchirsi le gambe e a fare stretching, si avvicina al signor Paul seduto alla consolle, gli chiede di mettere in riproduzione “Bomba” di King Africa, come da istruzioni tecniche per attivare l’easter egg.
Il tutto sembra dozzinalmente architettato da una mente razzista nei confronti del razzismo stesso. Perfetto per un sabato sera.

Si diffondono le prime note del famoso pezzo commerciale e sbarazzino.
La coscienza dei presenti pare sublimare su un piano differente, qualcosa che scardina le abitudini e annulla le singole individualità. Ad attivarsi è una mente collettiva e culturale tarata su valori e priorità differenti. Primordiali.
Gruppetti esagitati prendono a spingere il povero Ahmed, solo contro tutti. Partono veri e propri ceffoni contrappuntati da slogan come PADRONI A CASA NOSTRA, LEGITTIMA DIFESA e quant’altro. Si fa presto a passare ai pugni.

È a questo punto che i due uomini gettano a terra il fazzoletto della Lega e prendono a spogliarsi fino a rivelare due abiti da torero rosso sgargiante.
«Ecco», dice uno dei due, «abbiamo bypassato i circuiti inibitori della violenza».
«Adesso possono farci del male?»
«Adesso possono ammazzarci, caro mio».
«Fantastico».

Armati di sedie e boccali spaccati, i due si fanno strada squarciando zigomi e spappolando mascelle. Sul loro volto, pura gioia. Una coscienza salda che esce volontariamente dalla routine, può sentirsi libera di infrangere qualsiasi limite.
Volano calci nei reni, cazzotti sui denti, colpi di karate sulle tempie. I corpi dei residenti sono fantocci che colano e sprizzano un sangue verde intenso che sa di olio e rame. Nonostante ciò attaccano la coppia con l’intento di uccidere, guidati da un impulso che sovrascrive ogni comportamento pseudo-umano. Portano a segno qualche graffio: il rosso del sangue si mescola al verde e i due uomini si pompano dell’adrenalina più pura. La violenza è un concerto di luci epilettiche, la musica è cruda e soffoca strilli, fendenti e gemiti di morte.
Presto sono circondati da una massa di smorfie identiche, grinfie letali ed epiteti dialettali. Non è più un gioco.

È il momento delle calibro 38: un inferno di esplosioni verdastre sfigura gli androidi anatomicamente perfetti. Bottiglie esplodono, superalcolici inondano il pavimento. Un proiettile esplode una cassa e manda in cortocircuito tutto l’impianto del karaoke che in breve tempo prende fuoco. Alcol, carta, pelle sintetica, tutto s’incendia ammazzando il verde in una luce incandescente.
«Non male come weekend!», esulta il ciuffone.

La Dacia abbandona l’ampio parcheggio mentre il sole albeggia sulla scena del disastro. Il riccio si complimenta con il collega per la bella prova ed entrambi concordano: riempire di soldi la Delos Corporation è sempre meglio che farsi una crociera.

I tecnici del parco arriveranno al più presto a valutare i danni e a rimpiazzare le ingenti perdite. È previsto così. The show must go on.
Nella Bassa Padana® è sempre sabato sera.

Francesco Quaranta

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