I manieristi (1/4): Fascisti de mierda!

Da quando abbiamo dismesso GATTINI, i nostri venerdì sono più vuoti e tristi. D’altra parte “scrivere non è un lavoro, scrivere non è un contagio. Scrivere non è magico. Scrivere non è poetico. Scrivere è un metodo. Scrivere è disciplina. Scrivere è sobrietà.” Parole di Raimondo Maniero, mica Tommaso Madras o Losito Cayetano. Parole che cantano su carta intestata Verde, e no, il titolo non è Il lavoro morbilita l’uomo, ma I manieristi. Perché la scrittura è una cosa seria e soprattutto sobria, la LETTERATURA™ non è un ricovero per narcisisti allo specchio e disadattati di ogni risma (fun fact: lo sapevate che per pubblicare su Verde è necessario scrivere ogni mattino, a stomaco vuoto, per almeno quattro ore filate ed è vietato scrivere su ogni cosa? Istruzioni qui) e alla fine della fiera della piccola e media editoria siamo dei cazzoni impenitenti e anche un po’ Fascisti de mierda (volevamo il fascio font ma lo abbiamo già fatto).
A settembre i nostri racconti sono stati illustrati da Cristiano Baricelli e Giulia Pex. A ottobre avremo il “bravino” Federico Bressani (cominciate ad ammirarlo). DeadTamag0tchi invece ci sarà sempre, in qualsiasi momento, soprattutto il venerdì certo, ma in definitiva sempre.
Siamo su Instagram. Ve lo avevamo già detto? (e su Facebook?) (e su Twitter?)
La situazione ci sta sfuggendo di mano. Lunedì torna Paolo. Ciao, buon fine settimana.

Naturalmente venne fuori che Cayetano si era preso un monolocale al Pigneto. Era il minimo che ci saremmo potuti aspettare, di quei tempi. Sembrava che tutti gli artisti dovessero sperperare la propria vita in quel fazzoletto di cemento abusivo incastrato tra la Casilina e la Prenestina, dove non facevano che bere e fumare e accalorarsi sulla politica e la cultura. Persino Cayetano, le cui poesie dimostravano chiaramente la necessità compulsiva di copulare del proprio autore, si spacciava per un cantore dell’amore rivoluzionario e, in quanto tale, ne rivendicava addirittura la portata etica e politica. Insomma, aveva capito subito come funzionava il Pigneto e probabilmente aveva già trovato nuova carne per la propria ispirazione, buon per lui, ma le canne no, quelle proprio non gliele avremmo mai perdonate. Da tempo avevamo deciso di tirare una riga dritta sugli scrittori dipendenti dai cliché, il peggiore dei quali consisteva proprio nella postura disossata dell’autore avvezzo al rituale del rollare e far girare. Ne avevamo conosciute fin troppe di queste carcasse vuote dedite alla filosofia della mezzanotte, come la chiamavamo noi. Scrittori per un paio d’ore o tre, quando si trattava di usare le parole come esca. Generalmente si sapevano vendere bene, facevano colpo con le loro storie di vita on the road che editavano sul momento. Forse ci facevano anche un po’ d’invidia, proprio come Losito Cayetano, e questo era uno dei motivi che ci spingevano a osteggiarli.

«Ola Chicos, ma state ancora qua?»
Ilary sembrava un po’ brilla. Probabilmente all’ultima presentazione c’erano andati pesantemente di prosecco.
«Mi sa che vi state annoiando qua. Favorite un tiro?»
Cayetano si avvicinò a Louis con il braccio dritto davanti a sé e la canna penzolante tra l’indice e il medio della mano destra.
«Dai chico, ti fa bene».
«Non chiamarmi Chico».
La voce di Louis era salita di una tonalità, ma il poeta argentino sembrò non farci caso e avanzò ancora di un paio di passi.
«Ho detto di no».
Ilary allargò le braccia e sbandò leggermente. Per poco non rovinò a terra sulla sua gonna a palloncino.
«Quante storie ragazzi. Un po’ di leggerezza, no?»
«È buona, Chico. Con questa te passa tutto».
Per un attimo mi venne il terrore che Louis potesse tirargli un pugno o dargli uno spintone. Mi ero immaginato questa scena di violenza dove il cantore dell’amore finiva a terra con il naso spaccato, ma Karl se ne uscì al suo solito con una cosa che ci lasciò sbalorditi a tutti quanti.
«Questa la prendo io» disse afferrando la canna dalle dita del poeta e portandosela alla bocca.

Rimase fermo a guardarla per quanto? Nel mio ricordo non sono che pochi secondi, ma in quel momento sembrò un’eternità (Louis è pronto a giurare che lo aspettammo per un minuto buono). Eravamo tutti e quattro intorno a lui e sembrava che da un momento all’altro potesse rivelarci chissà quale grande verità, e invece non disse proprio niente. Posizionò la canna tra indice e pollice e con una schicchera la gettò lontano sull’asfalto.
«Estas loco!»
Cayetano sbandò paurosamente ed arrancò lungo la strada. La sua dose di fantasia giaceva a terra a non più di due metri da lui, ma proprio in quell’istante venne calpestata dalla scarpa da tennis di un bambino che rincorreva il suo pallone.

Chissà se anche agli altri non sfuggì l’ironia che volle proprio una scarpa da tennis – totem di quella generazione di nuovi scrittori in bandana che evidentemente avevano letto male, o non avevano letto affatto, Nabokov o un Bassani qualunque – asfaltare la penna magica del poeta sudamericano, ora disfatto sulle sue ginocchia nel vano tentativo di recuperare i resti preziosi incollati al terreno.

Il bambino aveva recuperato la palla e adesso correva in direzione dei genitori che trascinavano un passeggino, il padre, e una piccola bicicletta la madre. Indossava una maglietta verde, una felpa con il cappuccio e le scarpe sgargianti ai piedi, senza macchie, probabilmente indossate per la prima volta. I tre tiravano diritti verso il parcheggio e nemmeno per un attimo sembrarono sfiorati dall’idea di fermarsi e proseguire in direzione della cavea. Il bambino camminava e guardava in alto, come se cercasse rassicurazioni sullo svolgimento di un evento che si consumava in un punto del cielo visibile soltanto ai suoi occhi. Fu una illuminazione: quel bambino mi stava portando in dono il racconto per l’antologia di Karl. Era il personaggio che stavo cercando: per me avrebbe studiato l’indecifrabile evoluzione di quelle scie impalpabili nel cielo, in preda a una magnifica ossessione avrebbe seguito il corso del loro disfacimento mentre il padre avrebbe cercato di distoglierlo con argomentazioni fantastiche prima, e dissertazioni filosofiche poi. Inutilmente, perché il bambino era alla ricerca della verità.

Se non ci fossimo trovati in quella situazione avrei chiesto carta e penna per abbozzare una scaletta. La verità poteva essere un buon titolo, e non avrei fatto fatica a ricordarlo. Cayetano era ancora in ginocchio, aveva tirato fuori dalla camicia una tabacchiera d’argento e stava cercando di rollare un’altra canna con le briciole ai suoi piedi. Ilary lo guardava con imbarazzo: dai suoi pantaloni eleganti penzolava ancora la fodera della tasca rivoltata.

«Non vi sembra di esagerare?»
«Non hai ancora visto niente» disse Karl.
«Alle provocazioni rispondiamo così» aggiunse Vinz.
«Provocazioni? Ma siete fuori di testa?»
«Hijos de puta!»
«Che problemi avete?»
«Niente che non si possa risolvere con una bella scazzottata».
«Piantala con queste pose Louis, sei ridicolo!» disse Ilary.
«Non lo sa forse il poeta che ci sono momenti per recitare poesie e momenti per fare a pugni?»
«Questa chi l’ha detta?» chiese Cayetano.
«Per quanto mi riguarda potrebbe averla detta pure Tommaso Madras, il senso è chiaro» disse Louis.
«Io non uso pugni, io uso le parole. Andiamo via Ilary».
«Andiamo via un corno, ci devi delle scuse!» urlai.

Ilary stava per esplodere. Non l’avevamo mai vista così furiosa. Presto tutta la ruggine e i trascorsi sopiti l’avrebbero incendiata, e sul campo sarebbe rimasto ben altro che una canna calpestata. Eppure pensavamo sul serio che Losito ci dovesse delle scuse. Ai nostri occhi sintetizzava il male, non già il peggio, con quell’insopportabile entusiasmo e quella odiosa naiveté, quello sfoggio di sprezzatura offensiva che ci irrigidiva fino a farci sentire sotto assedio. Pensavano poco e agivano tanto e in ogni direzione, i mille Cayetano che nel corso del tempo avevamo incontrato. Il parossismo con cui, sempre pronti, intervenivano su ogni cosa, le idee chiare, la presunzione di incidere, ai nostri occhi apparivano grotteschi, ma oltre le nostre orbite erano invece riconosciuti all’unanimità come qualità da appuntare al petto. Dov’erano il tormento, i ripensamenti, le indecisioni? Che fine avevano fatto i silenzi e i punti interrogativi? Perché non esibire con lo stesso metodo e un rigore simile i dubbi e le oscurità, in luogo di tutta quella eclettica e imbarazzante vanità a pois?

La sobrietà, ecco cosa gli mancava, quella qualità che da militanti manieristi avevamo imparato a mettere sopra ogni cosa e a distinguere dall’umiltà (che non ci apparteneva né interessava).
Sì, Cayetano ci doveva delle scuse, e avrebbe dovuto farsi perdonare anche l’orribile camicia che indossava e l’affronto di essersi presentato come poeta.
La letteratura non poteva essere un ricovero per narcisisti allo specchio e disadattati di ogni risma.
La scrittura doveva essere una cosa seria. E soprattutto sobria.
Scrivere non è un lavoro, aveva sentenziato Maniero. Scrivere non è un contagio. Scrivere non è magico. Scrivere non è poetico.
Scrivere è un metodo. Scrivere è disciplina. Scrivere è sobrietà.

È vietato scrivere in stati di alterazione.
È vietato interrompere, frammentare, dilatare le sedute di scrittura.
È vietato scrivere di notte. Di notte si lurka, si trolla e si beve vino.
È vietato scrivere in compagnia.
È vietato scrivere ascoltando musica.
È vietato scrivere con dispositivi di connessione a Internet sotto mano.
È vietato dare in lettura i propri lavori ad amici, parenti, fidanzate, conoscenti.
È vietato dare in lettura i propri lavori prima che siano finiti.
È vietato scrivere dove capita (per strada, al bar, in metropolitana, in treno, a letto).
È vietato stilare, leggere, seguire decaloghi di consigli sulla scrittura (in special modo se rivolti a aspiranti e/o esordienti).
È fatto obbligo di scrivere al mattino, a stomaco vuoto, per almeno quattro ore filate, ogni giorno.
È fatto obbligo di scrivere una cosa per volta.
È vietato scrivere su ogni cosa.
È vietato disperdere e dilapidare concentrazione e energie. È vietato parlare di scrittu…

«Voi siete matti, anzi siete dei miserabili! E poi proprio tu, Louis, parli di scrittura?»
«Veramente sarebbe vietato anche per me parlare di scrittura in pubblico. È uno dei punti del nostro manifesto sulla scrittura sobria».
«In tutta la tua vita hai scritto quattro racconti incompiuti e due poesie, non hai pubblicato nulla e ancora parli?»
«Veramente ha pubblicato un racconto» intervenne Karl. «E comunque conta il principio Ilary, stiamo cercando di andare oltre l’esperienza personale, non te la prendere».
«Tu per me non esisti Karl. Lo sai. Se c’è qualcuno che deve delle scuse sei proprio tu. Fai ancora in tempo a scusarti e a ringraziarmi».
«La situazione ci sta sfuggendo di mano» disse Vinz.
Era un commento rivolto più a se stesso che a noi altri, ed era la chiosa perfetta a quello che – da anni ormai, mi venne da pensare – stava succedendo.
Cayetano intanto sorrideva. Era riuscito chissà come a recuperare abbastanza erba per far rotolare un’altra cartina tra le dita della sua mano sinistra che erano di nuovo tutte un fremito.

***

Io non lo so cos’è che mi prese in quel momento, davvero. In fondo sono sempre stato un tipo tranquillo, questo chiunque potrebbe confermarvelo. Piuttosto che mettermi a discutere con qualcuno mi giro dall’altra parte, arrivo persino a prendermi colpe che non ho piuttosto che mettermi a discutere.
Non se possa essere considerata un’attenuante, ma il fatto è che ai miei occhi Losito Cayetano condensava in un’unica entità tutte le caratteristiche più miserevoli dell’essere umano. Avrei potuto girarmi dall’altra parte come avevo già fatto tante altre volte nella vita e lasciare che Cayetano, inginocchiato e sporco di polvere, continuasse a grattar via le proprie briciole di fantasia dalla terra per fumarsele con Ilary.
Chi mi credevo, io, per giudicare il comportamento degli altri? Non avevamo forse preso le distanze, tutti noi tre assieme, da quel mondo e dalla malsana idea di doverlo in qualche modo cambiare?
In quel momento, da qualche parte dentro di me, si dischiuse una botola da cui fuoriuscì una rabbia sorda e cieca, la cui natura avevo già assaporato una volta in un remoto passato.

Il fattaccio era accaduto circa quindici anni prima, quando ero ancora uno studente universitario che usava dell’hashish al solo scopo di tramortirsi, soprattutto prima di andare a letto. Mi piaceva ripetere ogni sera quella sensazione di sprofondare lentamente nella tela del ragno come Robert Smith nel video di Lullaby. Una notte, però, commisi lo stesso errore dell’insetto che fa vibrare la ragnatela. Ero lì steso nel letto e le mie gambe cominciarono a essere scosse da tremori che non riuscivo a controllare e più pensavo a questa cosa del controllo e più tutto il mio corpo sembrava andare in frantumi.

Mi ricordo che i due ragazzi con cui condividevo l’appartamento si diedero un gran da fare per tranquillizzarmi. Uno cercava di tenermi ferme le gambe, mentre l’altro mi controllava il polso e mi passava un fazzoletto bagnato sulla fronte. Non facevano che ripetermi di non agitarmi, di lasciarmi travolgere dall’ondata senza opporre resistenza, ma io non riuscivo a pensare che alla vergogna di trovarmi in quelle condizioni. Avevano i visi tirati e facevano un grande sforzo per non ridere ogni volta che aprivano bocca. Era evidente che avessero fumato anche loro, d’altronde non facevano altro dalla mattina alla sera.

Non ero mai stato capace di lasciarmi andare e dirmi che avrei dovuto farlo fu un errore che non fece che peggiorare il mio stato d’animo.
In breve la loro presenza mi fu insopportabile. Nella mia testa scorrevano, come dei sottotitoli nei film, frasi di una cattiveria inaudita che avrei voluto vomitare loro addosso e che cercai di reprimere in tutti i modi perché avevo il terrore di restare da solo a combattere contro quel gigante ragno che aveva fatto il bozzolo dentro al mio stomaco. Lo sforzo che dovetti fare finì con lo stordirmi a tal punto che quando infine mi caricarono in auto per portarmi al pronto soccorso, mi accasciai sul sedile e mi addormentai.

Quella volta intravidi appena il contenuto della botola (il grande ragno peloso pronto a necrotizzare la mia parte razionale per liberare i miei impulsi incontrollabili come tante piccole uova pronte a invadere la realtà), ma tanto mi bastò per decidere dal giorno successivo di non toccare mai più qualsiasi sostanza che avrebbe potuto in qualche modo indebolire le mie difese.

Il male non erano le sostanze, col tempo arrivai a capirlo. Il vero male era la rabbia che mi portavo dentro e che scaricai irrazionalmente sulla mano di Cayetano nel momento in cui colpii con un calcio.
Le briciole che aveva raccolto nel palmo si sparsero nuovamente per terra e se non fosse stato per l’intervento di Louis, che mi afferrò da dietro e mi costrinse a indietreggiare di qualche metro, avrei fatto ben di peggio.

«Hijos de puta!»
La situazione mi era effettivamente sfuggita di mano.
«Voi siete malati, tutti quanti!» inveì Ilary reggendosi a fatica sulle ginocchia e puntandoci il dito contro. «Questo è il vostro rispetto per la poesia, la vostra cultura! Voi non siete che degli invidiosi, degli incapaci pieni di livore!»
Intorno a noi si era formato un capannello di curiosi che Karl cercò in qualche modo di tenere alla larga.
«Circolare, non c’è niente da vedere, circolare» ripeteva imitando la postura di un poliziotto, ma Ilary continuava a sbraitare e a sbracciarsi, a fare di tutto per continuare lo spettacolo.
«Guardate gente, guardate l’orrore. Questo succede quando ci si illude di avere del talento e si pensa che la colpa sia degli altri, del mondo cattivo che non ci comprende. Questo è quello che resta, nient’altro che violenza».
Louis provò inutilmente a soffocare una risata.
«Hai fatto un bel casino, Vinz. Adesso non ci resterà che il print on demand e il crowfounding».
Di lontano, ormai oltre le siepi che dividevano i giardinetti dalla strada, vidi Karl abbassarsi e porgere la mano al poeta, che la rifiutò con sdegno.
«Fascisti!» gli urlò, «Scrittori fascisti de mierda!»
Tutto intorno si alzò un brusio nel quale distinsi la voce di un uomo che chiedeva cosa fosse la roba sparsa a terra che Cayetano stava cercando nuovamente di raccogliere.
«Hijos de puta! Hijos de puta!»
Al poeta non era rimasta che quell’unica strofa.

CONTINUA (qui tutte le puntate)

Raimondo Maniero

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