Jurodivye #4: Coltivando giardini di sproloqui (Tomassini)

DALL-E / Luca Marinelli, A symbolist masterpiece named “Harvesting gardens made by unuseful words”

Andrea Zandomeneghi è forse l’unico supporto vitale rimasto a Verde Rivista. La cura somministrata per via intravenosa senza avvisare famigliari né presentare il consenso informato è Jurodivye, la rubrica di racconti che almanacca sulla radicalità eteroclita e di smarginamento: testi mistici, pornografici, aberranti, equivoci, deformi. Indulgendo alla psichedelia, all’irregolarità, al degrado erotico e mentale, alla pneumatologia, all’anfibologia, alla psiconautica, alla teratomorfia. In tre parole: “piangere, riflettere, evolvere” (la citazione è stata editata secondo le pratiche di cui qui).

Potete trovare i primi tre appuntamenti qui, qui e qui.

In questo funereo dicembre abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta su Verde Veronica Tomassini, siciliana di origini umbre, vive a Siracusa. Il suo romanzo d’esordio, Sangue di cane (Laurana 2010) fu un caso letterario. Successivamente ha pubblicato Il polacco Maciej (Feltrinelli Zoom 2012) e Christiane deve morire (Gaffi 2014).

Vale la pena di soffermarsi sull’illustrazione realizzata appositamente dalle buone sinapsi di DALL-E che ha servito un ottimo prompt alla nostra house artificial intelligence Luca Marinelli.

Buona lettura.

Il sud è un biancore cinereo, la fuliggine che scortica i palazzi, informi. Quartieri dormitorio, un vociare sgraziato, agavi acuminate, tese verso la costa, accecate da azzurri e bluette crudeli come totem.

Dovrei indagare la tristezza che mi opprimeva, sin da allora. Un folklore catacombale, ed era precipitare nella morte di un fondaco, nelle memorie avvizzite di una beghina di borgata, intrisa di risentimento e diffidenza. La diffidenza inutile, finanche maleducata. Il tacere scontroso, mortificato. Ogni cosa mi era ostile.

Avrei voluto chiosare con il film di Schreiber, dal romanzo di Foer, ogni cosa non fu illuminata. Le mie tenebre. Sin da allora. Mezzogiorno era l’ora del tremendo. Ma oggi ho capito, Mezzogiorno è l’ora in cui il Figlio dell’Uomo è inchiodato alla Croce.

Oggi ho capito. La Croce come l’esteso mezzogiorno, i palazzi alveare. La musica in lontananza, il refluo di un qualche altoparlante, sintonizzato male, disarmonico. I panni stesi svolazzare al Simun, scolorano nelle facce dell’ambulante, del sensale ruffiano e torvo. Di un piccolo volgarissimo delinquente.

La musica della trascuratezza, di un erebo dove sembravamo sprofondare perché negletti e perché nati nella terra infame.

Trascinavo la mia rabbia, di fatto, sconoscendola. Utilizzai un parametro che dovette cadermi in grembo, la miseria del mondo, concetto vago, la cui genericità non profonde empatia. Nemmeno adesso. In Christiane Felscherinow aveva un suo implicito controvalore deterrente, un che da cultura suburbana, pur sempre emancipata da quel vezzo tedioso che nel sud è solo incapacità. Forme di ignoranza congeniali alla superbia. La superbia è la vestale ridicola, la più ridicola e offensiva che avessi mai incontrato, e la verificai nella molteplicità dei marrani incocciati, butteri, chiamateli come vi pare, pretenziosi nel non sapere, non sapere mai, cianciare nella solennità di una memoria irrigidita, farcita di confuse preminenze, onore, orgoglio, stronzate.

Ero soltanto una bambina, soffocata dall’uggia di un’isola, da cui fuggire, e non poterlo fare, braccata, circondata dal disamore e dall’incomprensione, nella forma dell’ottusità o dello spregio anaffettivo. Sense of doubt è un Requiem. È la morte. Tutto è mortale da allora, lo ammetto. Ma bisognava che compiacessi l’idea inventata, congeniale al consesso di convitati in cui dovevo prestarmi ogni lvolta, indesiderata, senz’altro, estranea, avulsa.

Non è stato altro la mia vita che questo, scontare la morte già inflitta di nascere nell’errore. L’estranea.

La non voluta.

Così lo sono rimasta.

C’era l’eroina politicizzata. Ma era più qualcosa da il Solari, parchetto milanese. Come se ci fossi mai stata. Tossici di una qualche prestanza ideologica che smerciavano stereo o antica chincaglieria di famiglia per recuperare l’equivalente di un quartino, ma al Solari il quartino era “dammi due linee”.

Siringhe da insulina. Un compagno di classe di mio fratello era diabetico, ma si faceva, in gergo voglio dire usava la roba, l’eroina, dormiva in classe, seduto all’ultimo banco, pallido, smorto. Lo vedevo in casa, il pomeriggio, quando mio fratello organizzava il poker con gli amici e io, per un gioco stabilito tra le risate complici delle parti, portavo loro il caffè, in cambio ricevevo qualche spicciolo. Il puledrino faceva sorridere, il mio vivace ciarlare, il caschetto lucido e bruno. Ma ero già adombrata da un sospetto, la noia borghese e un condominio di proletari al più, le fabbriche sull’orizzonte, il cielo stupito malgrado il barbaro riverbero della nafta sbuffante dai silos.

Sul ripiano dei libri di mio fratello, accanto alla lucina, era poggiato il diario di Anaïs Nin. Così lo lessi. E lo leggevo chiusa in bagno, a volte. A volte era eccitante.

L’insopprimibile curiosità mi rendeva triste, lo so. Può darsi sia la ragione della tristezza. O è soltanto uno sguardo che spesso devo giustificare. Sapete gli occhi allungati come la fissità idiota di un pesce morto. Ecco, direi sarebbe questa la traduzione di una tristezza. Cioè il mio sguardo.

Al Solari per essere tossici bisognava leggere un romanzo impegnato, Feltrinelli magari, fumare dal cilum e indossare casacche di iuta, foulard indiani di seta, al collo, le borse di cuoio. Gli eroinomani amici di mio fratello avevano un che di raffinato e colto, anche se non venivano dal Solari.

Gli eroinomani che ho conosciuto io, dopo, da adolescente, erano sgraziati, di una selvatichezza patetica, nemmeno ferina o aitante. Erano tossici senza ideologia. Si facevano come se fossero fiere sdigiunate, con le mani da mezzadri. Una sproletarizzazione di massa, in luogo di ignoranti e basta. Quando essere proletari era già una casacca. Ne facevano un manifesto in ciclostile i compagni di Lotta continua di un cugino di mio padre. Poi se n’è andato in Venezuela a costruire mattoni. I compagni erano semplicemente tizi con le narici consumate dalla polvere. La polvere te la puoi anche fumare. Nessun afflato dotto, accettabile. Sei uno che ti fai, sei un rozzo. Ne volevo restituire una specie di trama equidistante dal pregiudizio. Sociologia del tossico.

La mia precocità presumo sia verificabile, grossolana e portatrice di inciampo. L’inciampo, lo scandalo. Non sapevo cos’altro fare, guardando lo squallido cortile da una finestra del quarto piano. I cespugli di lantana, dai fiorellini rossastri, gialli, colore dell’arancio turgido su un tavolo di legno bruno, dai piccoli petali arrangiati o in brevi corolle, quasi distrattamente, simili a montagnole, concitati, si infilavano nelle ombre di cespugli rinverditi dal timido balenio di un raggio di sole; le fronde dell’oleandro spiovevano stupidamente sopra le panche di marmo smargiato.

Si può nutrire un assillo, una disperazione, persino per l’incompatibilità ad un certo paesaggio o piuttosto alla sua gente. Croci infilzate dentro sentieri tormentati dallo scirocco, illusorie fughe verso la fine di una mulattiera, incontro all’azzurro bollente teso come la corda di un arco verso la cima del vulcano. Aureole che chiamerò nuvolaglia complice. Margherite di campo.

Il gabbiano sulla cima del costone. Solitario al tramonto, un terrazzamento scosceso e appuntito giù verso la baia e le onde ribollire per una furia segreta. I fenicotteri sulla traiettoria bassa.

Eppure mi sorvegliava una specie di mostruosità, il gravamento della sorte tutta intera, l’odiosa suggestione del senso di volgo, il basilico sul piatto, l’estratto di pomodoro esposto sulla seggiola in balcone, ad essiccare. Le lontananze avvertite come un destino diseguale, la voce del ricottaio a cavallo di una motoretta arcaica, la voce sbracata, rauca, sperduta nelle spelonche agli albori di una doglianza, la chiamano sicilianità, una sicilianità colpevole di compassionevole compiacimento.

Solo per questo potevo strozzarmi in anticipo sul destino diseguale, che era un po’ fotterlo.

O coltivare giardini di sproloqui, enormità, abiezioni metafisiche come in fondo lo era guarnita a dovere la speciosa ideologia del tossico. La saga del perdente eroico, a meno di sorprenderlo alla stregua di un ossario. Un cumulo di qualcosa, stoltezza e incontinenza. Era molto spregevole essere precoce, di una precocità grossolana, affezionata allo scandalo.

Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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