I manieristi (2/5): Era come vedersi

Primi bilanci dopo tre mesi di polemichetta e di dibattito sulla nostra fine (qui tutto, solo per completisti), in attesa dell’8 giugno e della fase tre: fuga di nostri autori verso Crapula (prima Quaranta, poi Marinelli, adesso Frau), Commissario scomparso, Paolo che forse smette di scrivere e/o lascia Verde, addio Vinicio Motta, un numero imbarazzante di memicchi (link non agevolabili, stiamo provando a raccoglierli ma sono davvero troppi e d’altra parte in redazione non c’è più nessuno), scenicchia parola del 2018 per l’Accademia della Crusca, Zandomeneghi In fuga dalla Bocciofila (e il film più bello della storia del cinema?). A questo punto della storia succede qualcosa: e invece no. Ci rimarrebbe soltanto Raimondo Maniero, ma I manieristi, la cosa migliore successa a Verde negli ultimi mesi, è ormai agli sgoccioli, questa potrebbe essere l’ultima volta (continuerà su Crapula?).
Nelle puntate precedenti: la parte cazzona: tre blogger falliti covano rabbia e rancore nei confronti della scenicchia romana e delle scenicchie in generale, pur non guardando a quella fiorentina. Nelle puntate precedenti: la parte seria: interpolazioni e congegni fantastici (ma non a questi livelli).
L’illustrazione è di E.P VI VI VI, la cosa migliore successa a Verde da sempre.
Stasera saremo al Towel Day (qui evento Fb). Non abbiamo ancora capito come e perché, ma ci fidiamo di Guida Quarantadue (che indovinate un po’ dove potete leggere adesso?).

A questo punto della storia succede qualcosa. Dopo quel sogno che per me acquista subito i contorni di una rilevazione cambia tutto. Sento di non avere più paura, o di averne meno, e capisco che la prospettiva che avevo adottato fino a quel momento era completamente sbagliata. Capite? Era come vedersi, ho detto poco fa, e difatti io vedevo me e perdevo l’insieme. Un dettaglio mi era sfuggito fino ad allora, un dettaglio decisivo che finalmente riuscivo a inquadrare: la casa stava cercando di proteggermi dal paese, è da Castel Sinone che dovevo difendermi. La prima cosa che feci il giorno dopo fu lasciare il lavoro. Non è che scrissi una lettera di dimissioni o telefonai per avvisare, niente del genere, semplicemente non mi presentai più e nessuno mi venne a cercare. Sapevo che prima o poi avrebbero mandato qualcuno e intanto mi misi alla ricerca di un fabbro: dovevo penetrare il mistero che più di tutti mi assillava, il ripostiglio, ma non sapevo a chi rivolgermi; potevo chiedere l’aiuto di Rosaria, è vero, ma non avevo ancora deciso dove collocarla nel nuovo schema che andava componendosi nella mia mente. Faceva parte del paese, probabilmente mi stava controllando per loro e sicuramente mi aveva mentito, ma qualcosa mi impediva di pensare che fosse anche lei una pedina del piano. Oggi posso dire che mettermi nelle mani di un fabbro invece di affidarmi a Rosaria testimonia del mio cagionevole stato di equilibrio mentale di allora (peggio sarebbe stato, ne convengo, se si fosse trattato di un idraulico, sebbene con ogni probabilità non lo avrei trovato e non sarebbe accaduto nulla, ma in ogni caso, cosa volete, ero confuso e andavo avanti un boccone alla volta, come chiunque decida di mangiare un elefante intero).

L’orologio della banca segnava le dieci. Per tutta la notte un forte vento aveva soffiato le foglie sulle automobili e sui cordoli dei marciapiedi. Si erano arrampicate sui tetti bassi dei banchi del mercato, si erano accatastate nelle cabine telefoniche e mutavano i colori dell’estate in tinte più vivide che richiamavano alla mente settembre o l’arrivo di una perturbazione. Il paese, come ogni mattina, si era risvegliato in fretta e a quell’ora la vita già scorreva pulsante nelle strade: il bar era un via vai di avventori che consumavano la colazione chi in piedi al bancone, chi al riparo della tenda che ombreggiava l’ingresso; le torri sbilenche di sedie ammonticchiate davanti alla trattoria svanivano movimentate dai rapidi tocchi dei Carelli, che preparavano i tavoli per il pranzo; sui lecci i grilli sfumavano lunghe intonazioni in brevi silenzi irreali che facevano risaltare ancor di più i loro contrappunti; in piazza un gatto s’arrampicava sulla statua appollaiandosi sulla criniera del cavallo e sollevando le zampe verso il pennacchio del soldato, dove un colombo sonnecchiava nella sottile lamina di ombra che la spada issata al cielo proiettava, le lucertole prendevano il sole lungo le crepe del cemento, sulle panchine vuote.

Era la prima volta che attraversavo a piedi il paese. Non ero mai stato così a lungo su quelle strade ed era come se stessi superando una soglia, un limite che mi ero imposto inutilmente per un eccesso di cautela. Quella mattina Castel Sinone non aveva nulla di speciale: era un posto come un altro, pensavo, non peggiore dei tanti in cui avevo abitato, con le sue peculiarità e i tratti di bellezza che si mostravano alla luce e che avrei ritrovato di notte a patto di memorizzarli. Se mi fossi rilassato avrei potuto fingere di essere un turista in vacanza, o un membro a tutti gli effetti di quella comunità chiusa e sfuggente. La domenica, dal fioraio sempre aperto, avrei comprato fiori freschi per Rosaria prima di fare tappa al forno; in farmacia mi sarei recato di tanto in tanto anche senza ricetta, perché così usa in paese, superando la facciata a capanna della chiesa che probabilmente non avrei frequentato (a meno che Rosaria non avesse insistito), ma che avrei ammirato ogni mattina. Sulla destra c’era la scuola, dove un giorno, con un po’ di ambizione, avrei potuto insegnare (ero pur sempre uno scrittore) e all’angolo in fondo, tra la biblioteca (era lì che lavorava Rosaria?) e lo spaccio, un’insegna verde ruggine, priva della lettera O, segnalava senza possibilità di errore ciò che stavo cercando: era la bottega del fabbro.

Si accedeva per mezzo di una breve rampa in pietra che dava in un ambiente poco illuminato, molto ampio, più largo che lungo. Le pedate dei gradini erano sbrecciate, prive di angoli, tempestate di fori e spaccature che risalivano sulle alzate irregolari. Scesi dabbasso lentamente e mi feci avanti guardandomi attorno. Il ronzio della smerigliatrice s’impennava secondo l’incedere dei miei passi, lungo le curve ridondanti delle parti vive del ferro. La sagoma dell’uomo era illuminata dai potenti zampilli di scintille che scomparivano nell’aria prima di toccare terra. Ero ormai alle sue spalle quando il rumore cessò. Mi presentai con un filo di voce e dissi: «Cercavo lei».
Il fabbro rispose: «Sto lavorando. Aspetti lì» e senza voltarsi riaccese il frullino.

Avevo immaginato un uomo anziano in tuta da lavoro, i baffi folti e la visiera da saldatore e invece mi trovavo di fronte a un uomo alto, muscoloso, non oltre i quaranta, che indossava una maglietta blu a mezze maniche, strizzata sui bicipiti possenti e sulla grossa pancia, e un jeans largo che prendeva il colore dalle macchie che lo ricoprivano ovunque, tranne nei punti in cui il tessuto si scuciva sulla pelle. Mi sedetti in un angolo tra i mozziconi di sigarette, i dischi diamantati abbandonati sul pavimento e i cavi aggrovigliati con un criterio che mi sfuggiva ma credevo di riconoscere; correvano veloci lungo i muri fino ai piedi delle scale di legno che si arrampicavano quasi al soffitto. L’uomo aveva posato una putrella su alcune travi di metallo che componevano il suo piano da lavoro. «Ho un lavoro per lei» urlai, ma il clangore del fuoco copriva le mie parole e l’uomo proseguì con un ritmo estenuante, circondato da aste di acciaio ricurve, cassette colme di attrezzi e lunghe bombole di gas sottili come missili. Non indossava né i guanti né gli occhiali di protezione; una sigaretta accesa pendeva dalle sue labbra.

«Ho un lavoro per lei» ripetei quando tornò il silenzio.
Aveva spento la smerigliatrice, ma ancora una volta sembrò non sentirmi. Studiò la trave deformata e la sistemò sull’incudine. Colpì i due corni con il martello, rimase in attesa, gettò la sigaretta e guardò l’orologio appeso al muro.
«Può aiutarmi a buttare giù una porta chiusa a chiave?» dissi.
«Non adesso» disse lui. E prima di disattivare l’interruttore della corrente aggiunse: «Devo andare in paese. Mi segua».

L’autobus era appena arrivato quando superammo lo svincolo per Castel Sinone. Alla fermata scesero un gruppo di pendolari in tuta da lavoro o di ritorno dal mercato. L’autista lasciò il motore acceso, restò in attesa qualche minuto, mangiò in fretta un panino e lentamente si rimise in viaggio. Gli alberi erano verdissimi, il cielo di un azzurro intenso, il sole splendeva sui cartelli che segnalavano i limiti di velocità e illuminava i sentieri paralleli che conducevano in aperta campagna. In meno di un’ora avevamo riempito il retro del furgone e adesso eravamo di ritorno da Selce, dove il fabbro si riforniva una volta al mese. L’uomo conosceva il mio nome, ma non si era ancora presentato; parlò solo quando si trattò di darmi delle indicazioni – più simili a ordini – per caricare il materiale. Il suo silenzio, più che da timidezza o ombrosità, mi sembrava motivato da una attitudine al risparmio che riguardava anche i movimenti, essenziali, mai dispersi, sempre efficaci.

Avevamo quasi raggiunto la sua bottega quando tornai alla carica con il ripostiglio.
«Si faccia dare la chiave dalla proprietaria» disse l’uomo.
«La chiave è andata perduta, probabilmente il vecchio inquilino l’ha portata con sé».
«La proprietaria deve avere una copia».
«Sostiene di non averla».
«Deve avere un buon motivo per non dargliela».
«Che vuole dire?» chiesi.
«Da quanto tempo è qui in paese?»
«Non più di un mese. Perché me lo chiede?»
«E che lavoro fa?»
Presi qualche secondo prima di rispondere. Avevo appena realizzato di non avere più un lavoro e non ero più sicuro di avere fatto la cosa giusta. «Il custode» dissi infine.
«Quanti anni ha?»
«Che importanza ha?»
«Alla sua età il custode non può essere un lavoro».
«È soltanto un impiego come un altro» dissi.
«Cosa faceva prima di trasferirsi qui?»
«Ho fatto tante cose».
«Me ne dica una».

Fu allora che il motore di una 126 sgasò all’improvviso alle nostre spalle. L’uomo al volante indossava un paio di occhiali scuri e una camicia bianca a maniche lunghe. Sebbene anche l’ultimo bottone fosse allacciato, un ciuffo di peli neri spuntava dal colletto e a causa del caldo si era incollato alla pelle, all’attaccatura della barba. Al suo fianco un ragazzo più giovane parlava al telefono.
L’auto rientrò a destra in anticipo, il furgone indugiò e allungò troppo la frenata, la 126 sbandò ma rombando riuscì a sorpassarci. Il ragazzo si voltò a guardarci. Le sue labbra si muovevano, era ancora al telefono e faceva dei cenni di assenso con la testa.

«Vede quel ragazzo?» chiesi al fabbro.
«Lo conosce?»
«Non è la prima volta che lo vedo».
«È un suo amico?»
«L’ho visto questa mattina. A Selce».
«Selce è vicina, si va e si viene» disse lui.
«Era al deposito e alla fermata dell’autobus».
«Pensa che ci stiano seguendo?»
«Era su quella 126. La stessa».
«Ce ne sono tante come quella qui in paese. E anche a Selce» disse. «Nessuno ci sta seguendo. Badi agli affari suoi».
«Quella macchina ci sta seguendo, ne sono sicuro!»

L’uomo con gli occhiali scuri suonò il clacson due volte, poi rallentò e si fermò davanti alla trattoria, accanto a due volanti dei carabinieri. Il fabbro spense la radio, mise la freccia e posteggiò poco più avanti.
«L’ho convinta?» gli chiesi.
Lui rispose: «Non si muova da qui. Torno subito».

CONTINUA (qui tutte le puntate)

Raimondo Maniero

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