DALLO SCARICO ALL’ALBA

tela2 nichilismo temporale

Massimo Desiato e Luciano Lupoletti, Nichilismo temporale (2015)

Vinicio Motta ha scritto il seguito di Mercuriale Sulfureo-Scatologico: Dallo scarico all’alba è la seconda parte della sua Trilogia Fecale. La raccomandazione è la solita: solo per stomaci forti. Non dite che non ve l’avevamo detto.
L’opera in foto è di
Massimo Desiato e Luciano Lupoletti (Nichilismo temporale, 56×50, tela artigianale in pelle pieno fiore vintage su telaio deep edge in abete piallato, firmata e numerata in esemplare unico. Pittura ad olio e soda caustica di Luciano Lupoletti, telaio e azione tessile di Massimo Desiato).

La gianni è bella, la gianni è saporita. Io però – non fraintendetemi – la gianni non voglio mica mangiarla. Non sono un cannibale, no no. Attorno a me, in questa profumatissima fogna, infinite gianni. L’una diversa dall’altra, ciascuna con una personalità e un nome. Tutte bellissime.
Io sono la gianni e la gianni è me.
Sono felice.
Perché la gianni è bella. Perché la gianni è saporita.
Nostalgia fantasma: vorrei tanto ricordare da dove vengo.
«Lascia fare a noi!» dicono in coro tutte le altre gianni del mondo.
«Grazie!» rispondo. «Vi amo!»
Veloce come un fiotto di diarrea incontrollabile, permeo migliaia di cadaveri di esseri umani, coccodrilli e pesci rossi, chiedendo aiuto alla gianni intrappolata nelle loro viscere putrescenti.
Nessuna risposta.

«Qual è il tuo nome?» mi chiede all’improvviso un ragno.
«Michele. Il tuo?»
«Eugenio. Piacere di conoscerti.»
«Come mai da queste parti, Eugenio?»
«Mi sgranchisco le zampe. Tutto qua. La mia ragnatela si trova fra i cingoli di un carro armato arrugginito.»
«Parlami di questo carro armato. Che roba è?»
«Devo proprio andare, mi dispiace» dice il ragno allontanandosi di fretta. «Addio!»
Mi intristisco e per circa un minuto secerno lacrime di gianni.

Tutte le gianni del mondo si allontanano da me.
Urlano di paura. E io soffro per loro. Tanto. Tantissimo. Un’infinità.
Presto, rimango solo.
Mi guardo: sono cambiato. Non sono più una merda informe, ma una gianni antropomorfa.
Merda? Antropomorfa? Odio la glossolalia.
Con braccia e gambe, salgo una scaletta a pioli e sbuco in superficie.
La città!
Disabitata da chissà quanto tempo.
Fatiscente.
Stuprata.
E i carri armati. I carri armati…

Interessante. Mi è sembrato di vedere qualcosa – qualcuno? – voltare l’angolo.
Odore di carne marcia.
Imbocco la strada dove è sparita l’ombra.
Davanti a me, a quattro vetrine di negozio di distanza, un essere umano adulto nudo. Fermo. In piedi. Di spalle.
Allarga le gambe. Lentamente si abbassa sulle ginocchia e, serrati i pugni, comincia a tremare violentemente.
Mi avvicino a lui fino a ridurre a poco più di un metro lo spazio che ci divide.
Qualcosa, in quella scena, mi attrae. E non mi riferisco sic et simpliciter alla possibile Merda in arrivo, ma a qualcosa di meno terrestre, a un bisogno che valica la biologia e che ormai pensavo sotterrato da secoli di forma fecale.
Lo sfintere anale dell’individuo si apre fino a metà della spina dorsale.
È un tripudio di sangue e bellissima Merda.
L’umano cade a terra, e lì rimane immobile, probabilmente morto.
Da quella zuppa di morte emerge un neonato dagli occhi più neri di una fogna in una notte senza Luna.

L’infante, che sta in piedi senza problemi, si accorge di me e inizia a sbavare.
Smanioso di toccare la mia vecchia specie, raggiungo il neonato e gli tendo la mano sinistra. Con un balzo felino il piccolo l’azzanna e la stacca di netto.
Terrorizzato, mi volto e fuggo via. Destinazione la mia fogna natale, l’unica che io conosca.
Corro, corro, corro. Lascio sull’asfalto impronte di Merda. Della mia Merda.
Svolto a destra al primo incrocio e mi ritrovo in un punto della città a me estraneo.
Ah ah.
La risata inquietante di un bambino. Di quel bambino?
Ripercorro al contrario la strada sbagliata che mi ha portato qui, per poi fermarmi nell’ultimo punto che riconosco.
Di nuovo quella risata. Stavolta più vicina. Molto più vicina. Praticamente dietro di me. Ma non è qui.
Cado rovinosamente a terra. Mi manca la gamba sinistra. Cazzo, cazzo, cazzo!
Accanto a me, un adolescente nudo sta divorando l’arto che ho perso.
Oltre il neonato, quindi, ce ne sono altri, di mangiatori di Merda…
Fai pure, su, divertiti: azzannami digeriscimi cacami. Ho vissuto pochissimo ma intensamente. Con me la Merda è stata buona: mi ha dato solo amici. Con lei ho sguazzato in una fogna benedetta.
Dimentico le mutilazioni e fisso estasiato – sì, estasiato – il coprofago che danza verso il Sole del tramonto.
Il Sole…

Il Sole, prima di oggi, non l’avevo mai visto. Ricordo che era caldo e piacevole.
A livello sensoriale a me, del Sole, a parte il colore, non arriva nulla.
La Merda è bella e misericordiosa. Ma ha un difetto, temo. Un difetto, come dire, strutturale: non dialoga al cento per cento con l’ambiente esterno. Ecco perché l’umano saltellante mi rende felice. Perché, in qualche modo, fissarlo mi illude di essere lui, di essere tutto.
Ho la netta sensazione che in quell’adolescente fluisca una Merda più vera della Merda a cui sono abituato. Una Merda diversa. Uguale alla mia e allo stesso tempo più evoluta. Una Merda forse capace di superare i propri limiti.
Voglio essere quella Merda. Lo voglio con tutto me stesso.
Così ridotto, però, non posso fare molto.
Devo accettare il mio handicap sopravvenuto, la mia nuova natura di stronzo. Non ho scelta.
Gli stronzi: un altro ricordo della mia vita precedente. C’erano gli stronzi e c’erano le Merde: i pimi banali output, le seconde erano sacre.
Eppure i miei ricordi mi bisbigliano che Merda e stronzi erano in qualche modo legati.
Gli stronzi uscivano dal culo… e la Merda pure!
La Merda era gli stronzi e gli stronzi erano la Merda.
La Merda è uno stronzo consacrato.
L’umano danzante era mica un frate merdaiolo? Si spiegherebbe la sua capacità di elevare la Merda a un nuovo, superiore livello di esistenza.

Ci risiamo. Un altro maschio di essere umano, nudo come il neonato e l’adolescente, ma sulla quarantina, comincia a divorare il mio corpo. Portata scelta: la gamba destra. Addio gambe!
Finito il banchetto mi trascino con la mano destra verso nessun luogo in particolare.
Devo trovarne altri, di coprofaghi. Voglio che il mio corpo rinasca nella Nuova Merda subito.
Vorrei solo non essere così lento.
Fanculo.
Fanculo la Merda.
La frustrazione suscitata dalla mia lentezza la percepisco anche a livello fisico – la Merda non è immune ai mali dello spirito. Un altro handicap, l’ennesimo.
Mi fermo e con la mano destra mi metto sulla schiena.
L’uomo è sparito.
Dove vanno tutti?
Non lo voglio sapere.
Non in questo momento, almeno. Ho altro a cui pensare. Adesso devo evolvermi.
Ricomincio a trascinarmi. In attesa di una quarta bocca da sfamare.

CONTINUA (qui la trilogia completa)

Vinicio Motta

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