Ultima Semiautomatica prima della pausa estiva: siamo alla sesta puntata, pubblicata per la prima volta nel numero 13 del cartaceo (giugno 2013). Di Simone Lucciola.
Vecchio, la Nazionale schiacciata tra le labbra, al caffè pomeridiano.
Vecchio, la pelle si spacca come un krapfen, le braccia due carrube.
Vecchio, cartografia di un’Italia assente, trent’anni di telegiornale, totocalcio e noia.
Vecchio, indifferente di fronte alla vita e alla morte, che lascia andare deserti i funerali dei suoi vecchi amici.
Vecchio che meglio a lui che a me. Povero vecchio.
A che è servito spingersi tanto in là, se tu che c’eri sempre non ricordi mai?
Tra il tuo mezzo silenzio
e un silenzio completo
solo l’attesa delle mosche.
Quasi ogni anno qualcuno mi telefona o mi ferma per strada o in un locale qualsiasi per dirmi che un mio amico è morto. Un altro, penso io, e invece di provare la commozione che il codice non scritto dei sentimenti umani prevederebbe provo soltanto indignazione e rabbia, indignazione per l’ennesima storia senza happy ending nonostante tutti gli sforzi fatti dal protagonista nell’arco di anni e anni di insensato calvario, rabbia perché il protagonista era un amico mio, un altro della mia squadra che viene espulso dal campo a beneficio della fetta di umanità avversaria. Tutti i miei amici morti erano legalmente abilitati a guidare una macchina, un motorino o altri mezzi di locomozione, tutti rispondevano a uno o più numeri di telefono, tutti sembravano forti e assolutamente certi delle proprie forze. Qualcuno di loro era due volte me. Tutti avrebbero potuto battermi a braccio di ferro in due minuti o meno. Tutti avevano quotidianamente la vitalità di un motore a scoppio, si svegliavano lavandosi la faccia e vestendosi sommariamente e andando a scuola, al lavoro o semplicemente in mezzo alla strada a inaugurare qualcosa da poco come il sole del mattino, una partita a pallone o un barattolo schiacciato di chiacchiere tabacchere al bar. Spesso ripetevano le stesse cose mille volte con un gesticolare chiassoso, rumore di nacchere per nascondere e notificare la disperazione: perché così è la nostra razza, dichiara e nega contemporaneamente. Avrei potuto aiutarli? No, non credo. E loro avrebbero potuto aiutare me? Tutti si erano isolati. Per un’ora, per un mese, per un lustro, per un anno, per due settimane, per dieci minuti. Tutti sono morti soli, orfani di quel distratto amico che io sono e di tutti gli altri amici altrettanto umanamente distratti. Però abbiamo riso e vissuto insieme, ci siamo sganasciati di risate seduti sul ciglio di un marciapiede, ci siamo incazzati con la stessa persona o cosa, abbiamo avuto qualcosa da festeggiare insieme, un viaggio d’andata o un viaggio di ritorno da condividere. Ma è stato ieri, è stato il mese scorso, è stato l’altra settimana, quella volta che, tanti anni fa. I sentimenti non valgono quattro soldi, quando pensi a come cala il sipario. E non ci sono parole per dire alla terra e al vento e al mare che gli hai voluto bene e che li vorresti ricomposti in quella sagoma perduta e irreplicabile.