
Massimo Desiato, Tempo dilatato (2015)
Casual Friday è la rubrica di Verde nata per promuovere un nuovo reading code. Ogni settimana un racconto inedito di un autore diverso che cercherà di farvi ridere, divertirvi o semplicemente imbarazzarvi. Oggi Andrea Frau propone Ribes Nero, prima parte della Trilogia del Ribes. È venerdì, rilassati!
L’opera in foto è di Massimo Desiato (Tempo Dilatato, 56×50, tela artigianale in pelle pieno fiore vintage su telaio deep edge in abete piallato, firmata e numerata in esemplare unico).
Nestor Camporese detto Ribes era marchigiano, ma tutti pensavano fosse argentino. Negli anni Ottanta aveva giocato a calcio ad alti livelli, arrivando perfino in serie B. La sua squadra era stata promossa in A, ma la gioia durò poche ore. Avevano fatto un girone d’andata da record, ma a dieci giornate dalla fine, con la promozione in tasca, ecco che cominciano a vendersi le partite. Tutti meno Ribes. Furono squalificati 5 giocatori e la squadra fu costretta a ripartire dalla serie C. Quattro dei compagni più coinvolti avevano fatto il nome di Camporese, per punire la sua intransigenza. «Ti credi migliore di noi?» gli chiesero. «E noi ti fottiamo.» E così pure lui si era trovato immischiato. Cinque anni di squalifica alla sua età (ne aveva 28), nel pieno della maturità: carriera finita. Perché cinque anni, nel calcio, sono tutto.
Nestor aveva una piccola voglia sulla fronte, al lato del sopracciglio destro. A causa di quella macchia un giornalista iniziò a chiamarlo Ribes. Stronzate da giornalisti, se ci pensate. Quella voglia poteva sembrare qualsiasi cosa: ribes nero, certo, ma anche chicchi di caffè, pietroline nere, merda di pecora. A lui appiccicarono quel Ribes. Di Caffè ce n’erano una dozzina, il più famoso lo chiamavano così perché, al rientro in squadra da un prestito biennale, venne scambiato per un cameriere dall’allenatore, che gli chiese di portargli un caffè. C’era anche un Pietrolina che giocava in promozione, in Emilia. La mamma, una squilibrata, grande fan degli Stones, si autodefiniva Little Stone. Andava dicendo che il suo bambino fosse figlio di Mick Jagger, ma in paese rispondevano che al massimo poteva essere il figlio dello Jäger o di Rod Gonzarelli, chitarrista di una cover band degli Stones. Figlio di uno che fa cover, quindi imitazione di figlio, brutta copia di bambino.
Da subito cominciarono tutti a chiamarlo Pietrolina, italianizzando il nomignolo materno. L’avrebbero potuto chiamare pure Ciottolina, come la figlia dei Flintstones, viste le condizioni igienico-sanitarie da preistoria in cui la madre aveva partorito: un tavolaccio da ping pong lurido al cui confronto la stalla di Gesù Cristo era una clinica svizzera.
Il figlio di Ribes, Telemaco Piccoli detto Marco, odiava il padre ed era ampiamente ricambiato. L’unica cosa in cui aveva avuto costanza e dedizione era stato proprio l’odio per il figlio. Il ragazzo aveva preso il cognome della madre. Non si faceva neanche chiamare Telemaco, ma Marco. Ribes non gli perdonava di essere diventato un cazzo di star del calcio patinato. Era riuscito dove lui aveva fallito.
Marco Piccoli giocava per una delle squadre più forti del mondo. Vice campione del mondo con l’Argentina, la nazione della madre. Finalista in Champions e in lizza per il Pallone d’oro. Da buon padre, Ribes aveva puntato tutto quello che aveva sulla sconfitta della squadra del figlio. Se avesse potuto avrebbe scommesso su un suo infortunio, di quelli che ti stroncano la carriera per sempre. E poi avrebbe voluto vederlo cadere in rovina, fare l’opinionista, ingrassare, sperperare i soldi in alcol e donne, morire povero e solo senza neanche un figlio sul quale scatenare le proprie frustrazioni.
Ribes, ufficialmente assicuratore, era uno degli uomini del Catalano, noto boss locale. Il suo partner di mille scorribande era Giulio Pincherle, detto Mora, perché Pincherle era il vero cognome di Moravia. Da lì: Mora. Nell’ambiente si abbrevia tutto, si ha sempre fretta. Con i nomi corti viene più facile chiamare, minacciare, supplicare o maledire. Giravano delle voci sui gusti sessuali di Mora, ma lui ci prestava sempre meno attenzione. Un tempo ci teneva, da qualche mese non più e quando c’era da appartarsi non perdeva tempo a giocare all’amante clandestino. Ormai il Mora sfilava ogni giorno al suo personalissimo, cupo, tetro e solitario gay pride senza paillettes e lucine colorate.
Il Ribes lavorava col Mora da sette o otto anni e mai una parola sul passato, sui figli o su chi scopava chi. Ci sono rapporti che durano solo se si evitano certi tasti. I due erano come una melodia monca, imperfetta, con note mancanti. Tasti dolenti collegati a una carica di esplosivo: appena accarezzati fanno saltare in aria il pianoforte. E a loro andava bene così: imperfetti ma duraturi. Ovviamente giravano molte battute sul Mora e il Ribes; stronzate di cattivo gusto riguardo macedonie viziose e orge tra frutti di bosco. Ma i due non davano importanza alla cosa.
Il Catalano aveva assegnato loro una missione semplice semplice: consegnare una valigetta in via Budapest. Arrivati là avrebbero avuto ulteriori istruzioni. I due erano in macchina, come al solito guidava il Mora. Viaggio silenzioso, loro erano abituati così. Il Ribes ruppe il silenzio e disse: «Sai, ti devo far fuori.»
Il Mora per niente stupito rispose: «Scopa! Pure io.»
Il capo non ne poteva più di entrambi. Si erano rammolliti. Ribes pensava soltanto a ubriacarsi, sveniva nei bar e da sbronzo parlava troppo. Mora correva dietro ai ragazzi e il capo temeva che quella fosse una debolezza troppo grande, anche lui avrebbe potuto parlare, confidarsi con qualcuno nell’intimità. Il Catalano aveva pensato: chi sopravvive è il più forte, chi muore è l’esubero. Si era sentito un cazzo di dio con quell’idea della selezione naturale.
«Ci considera due falliti, due finiti. Se io uccido te o tu uccidi me, chi ci dice che tra un mese, un anno, il capo non mandi uno più giovane a far fuori il sopravvissuto?» disse Ribes.
«Cazzo» rispose il Mora, «facciamolo fuori noi, andiamo via in bellezza, un’uscita di scena coi controcazzi.»
Una macchina li sorpassò. Attaccato al clacson, un tizio spuntava dal tettuccio con una sciarpa bianco e rossa. Ribes accese la radio:
Incredibile, mai visto nulla di simile in una finale europea. Piccoli, dopo lo stupendo gol di tacco nel primo tempo, ha segnato ancora, ma nella propria porta, poi nella seconda frazione di gioco è entrato in campo barcollando, si vedeva che aveva qualcosa di strano, ha commesso un fallaccio sul portiere avversario, sanzionato solo con un giallo, a venti minuti dalla fine, con i supplementari vicini, apparentemente senza motivo ha spintonato l’arbitro che lo ha espulso e non contento ha scagliato una pallonata terrificante contro un fotografo spaccandogli il naso. Le forze dell’ordine lo hanno trascinato via a fatica mentre si toglieva la maglia, ci sputava sopra e inveiva contro i suoi tifosi. Alla fine ha vomitato sulle scarpe del quarto uomo. Probabilmente era ubriaco. La sua squadra in 10, allo sbando, ha subito tre gol in dieci minuti. Il risultato finale è 1 a 4. Una finale ingloriosa: mai un giocatore si era comportato così, mai nessuno aveva tradito i suoi colori, la sua gente, in questo modo. Apriamo le telefonate.
Salve, sono Gennaro, Piccoli è uscito di testa, è un esempio pessimo per i bambini, mio figlio era un suo tifoso, ora sta piangendo mentre stringe la sua maglia. Credete che il rapporto con suo padre, un vecchio calciatore, Fragola, o forse Amarena, era un frutto di bosco mi pare, non ricordo il nome, sia la caus….
Ribes spense la radio. Mora sorrise e disse: «Allora, adesso noi si va a casa del capo e….» Ribes gli sparò in faccia. Lo buttò fuori dalla macchina e pensò: Non si sarà preso il mio cognome, ma qualcosa di buono gliel’ho lasciata. Ci vuole del talento pure per mandare tutto a puttane. E adesso andiamo a ritirare la vincita alla Snai.
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