Ricette #3: Ziti alla Luccone

Pink Lodge

Domani sera saremo allo Sparwasser a dialogare con Valentina Maini, già definita (da noi) la migliore scrittrice coeva d’Italia nonché un’amica. Le due cose non sono consequenziali, ma è impossibile negarlo o ometterlo. Prenotate qui, per via di quello che sta succedendo nel mondo da circa nove mesi, e ve ne sarete accortə, si spera, non potrete decidere all’ultimo di venire a fare vocina alla porta di Via del Pigneto 215, perché non vi facciamo entrare. E per una volta non facciamo che chi scrive sta a casa perché a Roma non usa che le scrittrici, ma più gli scrittori, vadano a presentazioni di altri scrittori ma soprattutto scrittrici. Ma che usanza è, benedettə ragazzə?
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Cambiamo completamente argomento. Gli
Ziti alla Luccone è la terza ricetta che Stefano Felici propone nella rubrica che ha lo scopo di insegnarvi a cucinare ripassando insieme la storia di Verde. Il 2009 fu uno snodo decisivo per la nostra rivista: fu l’anno della prima edizione di 8×8… E abbiamo detto tutto (ciò che Instragram non dice).
Il memicchio è fritto dalla
Pink Lodge. Ciao, noi torniamo a preparare la conversazione di domani (che ansia, benedettə ragazzə).

Federica ha fatto la spesa.

È rientrata in casa con due buste belle piene. Io stavo scrollando Twitter. Aveva il fiatone, faceva degli sbuffi rumorosissimi, come quando fuma. La prima cosa che ha tirato fuori è stato un cartone gigantesco di seitan. Forse da un chilo. Mi sono rimesso a scrollare Twitter.

Nella mente di Leonardo G. Luccone

«Mi prende da dietro all’improvviso con un colpo violentissimo e non respiro più.» Ma che incipit del cazzo. Ma nemmeno in un giallo Mondadori del 2007. È un incipit del cazzo. Stantio e dozzinale. Ho fatto bene ad alzare la paletta del tre. Tre! Treee!! TREEE!!!

Bicchiere di vino, di vino, dove sei, dove?, eccoti qua: giro di frase, bicchiere di vino. E se invece quell’incipit del cazzo fosse una citazione, o nientemeno che una chiave di lettura; il gioco di rimandi postmoderno, il brutto che fa il giro del palazzo e si cambia d’abito, diventa estetica – non è che, forse, quel racconto, vuoi vedere che era da nove? Nove, nove? Nove! Noveee!! NOVEEE!!! Matita, matita, matita… Ho fame…

Ma no: quel ragazzo del pubblico, alto, moro, maglietta dei Turmion Kätilöt, occhiali con montatura d’oro sottile, che ha urlato «Mi chiamo Simone S.!», gli ha tirato una scatoletta di Rio Mare che quasi lo ammazzava – e appunto: dopo aver sentito il solo incipit.

Tre, tre… Tre.

E il macinato… E il battuto… E il giro d’olio, il giro della frase, il bicchiere di vino… E la sfumata alcolica… E se quel D’Antuono…

Ma il racconto era improponibile. Così come la persona che lo ha letto, che lo ha scritto. Pierluca. D’Antuono. Nome del cazzo – giù la passata verace, gira gira gira, fuoco più basso, più basso, più baaass…

Pierluca D’Antuono: questo racconto è scritto male: il periodare – il periodare? Ma se quel D’Antuono poi, un giorno, pubblica un libro?, una raccolta di racconti?, un romanzo, quel che è, e diventa famoso? E se apre una casa editrice? Ma no: è così un coglione… Al massimo apre una rivista. Rivistina. Una rivistaccia su WordPress. Da qui a dieci anni, tutti apriranno una rivista su WordPress. O su Splinder. O entrambi. Ma da qui a dieci anni… Ne dovrà passare di acqua sotto i ponti… Ehehe – manca di sale.

Pierluca D’Antuono apre una rivista. Come può chiamarla, uno così, una rivista? “Peli di fica”. Un compagno di merende. Violento, è violento: a quel Simone gli ha tirato un diretto in faccia appena sceso dal palco. Che energumeno.

Poi? E poi organizzerà pure lui un concorso; un concorso come il mio. Perché è un invidioso. Gliel’ho letto in faccia. La putrida invidia dei mediocri. Farà un concorso e lo chiamerà 4×4, perché vale esattamente la metà di me, la metà di tutto ciò che faccio – e se valesse la metà della metà? Quanto fa… Per dio!, sono laureato in matematica e non mi viene al volo una frazione!

Ma io ti affosso prima che “Peli di fica” veda la luce. Ho fame…

Ziti alla Luccone (per una persona)

  • 50g di sedano, carota e cipolla
  • 250g di passata di pomodoro
  • 80g di macinato di vitella
  • 1 bicchiere di vino rosso
  • 1 mazzetto aromatico obliquo
  • 80g di ziti
  • Olio, sale e pepe q.b.

Matita, carta, matita, temperinooooooPrrrronto Alcide! No, non mi disturbi. Come? Sei all’uni? Ma mica devi chiamare me, devi scrivere! No, tutto bene, tutto bene, sto cucinando. Ma quale voce strana, Al. No, no… Ma senti, un’idea, così, en passant: e se aprissimo una rivista? Io e te, solo io e te; la chiamiamo “Peli di fica” e ci scriviamo solo noi, ci creiamo una costellazione di eteronimi alla Pessoa, che ne so, Marco Branduardi per gli scritti letterari, Gianni Longhi per quelli di prosa giornalistica, Vera Tiepolo per la poesia… Co— Come, scusa? Una tua rivista? Pugni e… Pugni e Lifestyle? Ma che cazzo stai dicendo, Alci’. Ma no! Ma no, ma no, ma no! MA NON TE LA FACCIO FARE MICA UNA RIVISTA CHE SI CHIAMA “L’ALCIDE”!

Tre tre nove, nove tre, nove tre, tre nove nove… Pronto?… Ristorante “Il lanternino”?… Ma lo sa che metto le virgolette al loro posto anche quando parlo? Ahahaha!! !.

Gli ziti. Buoni. E non li mangio da una vita. Buoni, ma sono bislunghi. E che cazzo. Troppo lunghi – come il racconto di Pierluca D’Ant… Basta, Leonardo, Basta. Gli ziti. Lunghi, troppo. Sii il Gordon Lush degli ziti.

Il Gordon… Già! E se…

Casa Sabelli-Felici

«…E se li spezzassi, Fe’?», le chiedo, e lei risponde «Fai il cazzo che ti pare, ma sbrigati, ho fame, tra mezz’ora ho lezione di filosofia antica su Classroom».

Le ho preparato questi ziti al ragù di seitan. Con tutto l’amore che potevo. «Sono meglio quelli che fa Luccone», mi ha detto lei, mentre al computer c’era un vecchio pelato che sembrava una mummia riesumata un quarto d’ora prima. «E grazie al cazzo», le rispondo io, «lui, il ragù, e lo fa con la carne vera!».

«No», dice Federica, qualche secondo dopo. «Non spezza gli ziti.» Ma vai a fare in culo, tu e gli ziti. Anzi, no, aspetta: «E quando li avresti mangiati, tu, gli ziti di Luccone?», le chiedo, proprio col tono inquisitorio dei disperati che si giocano l’ultima carta; e lei, masticando: «Al Corso Principe. Ha portato una vaschetta di alluminio per ognun di noi. Li abbiamo divorati. Buonissimi. Poi ci fa», e qui deglutisce; riprende: «“Avete delle palette sotto al banco: palette coi numeri da uno a dieci. Votate. Votate i miei ziti”.»

«E tu?», chiedo io, tesissimo. Federica: «E io ho votato nove.» E io: «E io?» Federica: «Tre».

Stefano Felici

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