Piccolo quaderno cicladico

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Claudia D’Angelo, Fuori (2021)

Ogni fine estate la redazione de La Nuova Verde riceve un plico che contiene un diario; il diario contiene le vacanze di Simone Lisi; Simone Lisi contiene le nostre idee; le nostre idee sono adesso in un Piccolo quaderno cicladico, un’anteprima della fine di ogni estate che leggiamo ogni fine estate. È successo anche quando non è successo, e chi ha capito ha capito. E chi non ha capito: ci vediamo questa sera qua, dopo la prima, ore 21, con Simone, il Padre Occidentale, Emanuela Cocco e Luca Carelli. 
Il collage è di Claupatra.

I.
Pensavo agli incontri che si fanno il primo giorno di vacanza, su di un treno per raggiungere Diana che è già a Roma (un signore americano di almeno ottant’anni che parlava italiano perché coi genitori, a Los Angeles, a casa sua, parlavano in italiano, e di come amasse l’alpinismo, le Dolomiti, e di come avesse lavorato per molti anni alla NASA, e dei viaggi che aveva fatto per lavoro in tanti Paesi del mondo, Paesi che ripeteva in un lungo elenco senza accennare a smettere, non credo per il gusto di fare l’elenco, quanto per dimostrarmi che li sapesse pronunciare anche in una lingua che non era la sua) quanto appariranno lontani, domani, o tra qualche giorno o alla fine delle ferie, questi primi giorni di vacanza.


II.
Sugli scogli, cercando di capire come la famiglia disfunzonale che abbiamo di fronte lo sia.
«Il padre è il padre della bambina, ma non del bambino».
«Sembra così anche a te?»
«».
«Forse è per questo motivo che il maschio parla con un tono di voce così alto, per richiamare l’attenzione del genitore assente?»
«E la bambina? Sarà figlia della donna?»
«Comunque ti comunico che sono italiani».
«Ma chi glie l’ha fatto fare?» dice Diana, cambiando rapidamente argomento.
Non tanto riassemblarsi, non è questo a cui allude Diana, parla proprio dell’atto in sé, dell’atto procreativo, o per lo meno io la interpreto così, mentre il bambino passa urlando accanto ai nostri asciugamani, proiettando per un secondo la sua ombra scura su di noi.

III.
La ragazza del kiosko ci guarda sotto le tamerici con aria paziente, senza giudicare. Noi sotto le tamerici, all’imbocco del canalone, sconvolti dal vento incessante che non ci permette di tenere in mano un libro, che ci strappa di mano qualsiasi cosa. La ragazza del kiosko, dal suo angolo riparato, privo di vento, da sotto il suo ombrellone giallo, ombrellone che noi abbiamo scelto di non affittare (eppure costava solo 4 euro), la ragazza del kiosko ci guarda con aria paziente, senza giudizio, con un lievissimo sorriso che sta forse a indicare: vediamo un po’ quanto riuscirete a resistere.

IV.
Il momento che precede una telefonata con Fahrenheit, Radio3, è un momento di verità. Perché non c’è niente di quell’attesa spasmodica, attesa che ti porta dubitare di tutto, del tuo credito residuo, dei giga rimasti, del giorno, dell’ora, del fuso, non c’è niente di quell’attesa che non sveli qualcosa di te, del peggio di te.

V.
Che la spiaggia di Kalimakia fosse così lontana, che avessimo solo due tacche di benzina, che saremmo forse rimasti a secco sulla via di ritorno, che il sole fosse a picco, che la taverna vicina alla spiaggia non accettasse pagamento con il pos, che noi non avessimo contante, che non avessero benzina da venderci, ma che per il caffè e per il pranzo non ci preoccupassimo, ci avrebbero fatto credito e ci saremmo rifatti dopo, al supermarket Astymarket della Chora.
Riuscire a godersi il mare, la spiaggia di Kalimakia, stare bene in modo assoluto, senza pensare alla benzina, al futuro, È così che dovrei provare a vivere, sempre. E così faccio.

VI.
Lasciamo la nostra stanza di questi giorni (studio, li chiamano qui in Grecia) la lasciamo come fosse un giardino.
«Che dici, i piatti della colazione li lavo anche oggi che è l’ultimo giorno?»
«» risponde Diana.
Lavo i piatti dell’ultima colazione ad Astypalea, li lavo per la signora che ci affitta lo studio, per il suo sguardo ipotetico che quando entrerà qui troverà tutto perfetto, come se fossero passati due monaci tibetani. E non li lavo nemmeno per quel suo sguardo attuale, mi rendo conto, ma per il suo ipotetico sguardo del futuro: quando tra uno, cinque o dieci anni lei entrerà di nuovo in questa stanza e troverà davanti un autentico casino e ripenserà a quella mattina del 2021, quando ancora la gente lasciava le stanze come fossero giardini.

VII.
A un certo punto della vacanza inizio sempre a nascondere le mie magliette sporche nel sacchetto della roba sporca di Diana. Basterebbe trovare un sacchetto di plastica e potrei buttare tutto là, poi al ritorno penseremmo alle lavatrici, non è tanto un sobbarcarti le lavatrici, non è quello, è piuttosto come quegli uccelli che nascondono nei nidi altrui il loro uovo così che altri uccelli lo covino al posto loro. Poi si schiuderà enorme e si mangerà tutti i pulcini e pure il genitore. Non so perché nascondo le mia magliette sporche nel sacchetto di Diana.

VIII.
È quel periodo dell’anno in cui la decisione più difficile da prendere è cosa ordinare al ristorante. E come farlo in maniera credibile. Ena dolmadakia. Ena fava. Ena meatball. Parakalò.

IX.
Anche le isole hanno le loro isole. Piccoli isole dentro le isole in cui ricercare, chissà, un’isola ulteriore. Magari ci troverai una fila di ombrelloni, un chiringuito desolato, un piccolo generatore rumoroso, un uomo coi baffi e la pancia che sogna di lasciare tutto e aprire un altro chiringuito ancora più sperduto, su un’isola sempre più isolata. Anche le isole hanno le loro isole.

X.
Non tutti sanno che nelle isole greche non si può buttare la carta igienica nel water. Non mi riferisco alla carta, chessò, di uno scottex, ma proprio alla carta igienica e nello specifico sto pensando alla carta igienica usata. Per chi vuole c’è un cestino accanto al water dove buttare l’immonda carta, oppure si può risolvere in metodi alternativi, decidendo per esempio di farsi direttamente una doccia e provvedendo a, etc. etc. Cosa accadrebbe allora se entrando nel bagno di un ristorante elegante trovaste della carta igienica che galleggia? E se la persona che è appena uscita si fosse evidentemente attestata come italiano, anzi come italianissimo padre di famiglia? Certo non è detto che quella carta igienica l’abbia buttata lui sebbene “il padre” sia il luogo della distrazione per eccellenza, altri pensieri lo agitano, non di certo la carta igienica da buttare o non buttare e dove.
E così mi sono ritrovato stasera in un bagno greco con lo scovolino in mano intento a ripescare quella medusa galleggiante e buttarla nel cestino accanto al cesso, così da farmi carico delle responsabilità del mio Paese e delle colpe dei padri. Va tutto bene.

XI.
Chissà se questi bambini incontrati nei ristoranti o nelle spiagge o sugli scogli, coi loro genitori (chissà se un mio critico potrebbe rilevare che il tema “bambini” o “figli” sia un tema dell’estate 2021) chissà, dicevo, se questi bambini portati in vacanza in Grecia dai loro genitori cresceranno con il mito della Grecia, come raccontava Luisa da Milano scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio o come diceva il tizio di Bologna, ma residente a Milano che odiava Astypalea e la bruttezza ingiustificata del mondo (senza vedere la propria). Anche io sono uno di quei bambini che veniva trascinato in Grecia dai genitori. Anche io sono cresciuto con il mito della Grecia? Non so dire, ma non credo. Per me il passato non è un luogo non dico felice (felice lo è stato), ma non è un luogo sicuro, dato, appurato. Sempre meglio pensare alle panchine di oggi, le panchine sotto le tamerici, dove sedere ad aspettare il traghetto che ci riporta ad Atene.

XII.
Potremmo concentrarci sul fatto che la vacanza sia finita oppure potremmo pensare ai mille e uno modi in cui il viaggio di ritorno potrebbe andare storto: ritardi, maremoti, coincidenze perse, aerei cancellati e chissà cos’altro. Oppure ancora, sopra questo, concentrarci sulla voce roca di questo greco al telefono che parla ininterrottamente, chissà di cosa.

XIII.
E infine, se anche tutto dovesse andare storto, gli aerei persi, i traghetti cancellati per vento, le cose non saranno davvero troppo gravi: se anche lunedì non arriveremo in tempo in ufficio o a lavoro, davvero, in qualche modo faremo.

XIV.
Ho un amico che saprebbe come fare con il tipo sull’aereo che non tiene la mascherina. Lui, a differenza mia che faccio finta di niente (ma il punto non è neanche che io faccio finta di niente, il punto è che non solo faccio finta di niente, ma vorrei, forse per quieto vivere, forse per un’indolenza più generale, vorrei che anche Diana facesse finta di niente, e invece lo so, lei non ignorerà la cosa, perché Diana è fatta così, è fatta bene, in un certo senso.
«Sì, ma senti come parla piano» penso a mia/sua difesa. «T’immagini se non portasse la mascherina e parlasse a volume di voce altissimo?» Diana è fatta così, bene o male non saprei dirlo, forse il suo è solo un riflesso, un’estrema conseguenza della sua educazione di bambina, una netta distinzione tra il giusto e lo sbagliato, mentre io, io chissà, sono più concentrato sul suo fastidio, suo di Diana, sull’odio che sento lei provi in questo momento non solo verso l’uomo senza mascherina, ma anche e soprattutto verso di me e la mia paura, paura di reazioni inusitate, paura che io sia infine chiamato a prendere la parola, a interrompere il futuro diverbio tra loro e dire: adesso basta così.
E poi ci sarebbe quel mio amico, l’amico che saprebbe davvero come fare. Forse gli metterebbe una mano sulla spalla, forse no, e con una voce bassa direbbe: «Scusami». E aspetterebbe che l’altro finisca di dire le sue cose e gli presti attenzione, perché alla fine lui gli dovrebbe prestare attenzione. A quel punto l’amico aggiungerebbe: «Ti puoi mettere la mascherina come tutti?»
Direbbe puoi o userebbe il verbo devi? Non so. Non sarebbe una frase memorabile. Il punto sarebbe il modo in cui lo direbbe: un modo profondo, come se fra loro due ci fosse un accordo, un’intesa. Il mio amico adesso è lontano, non può vedere Diana al mio fianco che riposa dopo aver detto e ottenuto che il tizio rimettesse la mascherina. Chissà l’amico invece di scrivere cosa farebbe.
Dormirebbe anche lui? Avrebbe capito che questa gente che ci sta intorno in aereo sia un gruppo di viaggi avventure, che il tizio senza maschera ha conquistato nel viaggio la donna che ora dorme al suo fianco (o forse lei ha conquistato lui), saprebbe che quei baci e quella mascherina abbassata sono gli ultimi prima del ritorno in due diverse città (lui Arezzo, lei chissà) saprebbe l’amico che quella mascherina abbassata parla di ultimi baci estivi prima del ritorno al lavoro?
Forse no, direbbe l’amico, ma non cambia la sostanza. Con una voce stavolta non bassa, ma con quella sua voce cristallina, felice, lieve, direbbe che tutto questo che ho appena elencato non cambia la sostanza: la mascherina in aereo, è così, te la devi tenere sul naso.

XV.
Quando tornavo dalle mia vacanze di bambino le cene a casa erano fatte di quello che avevamo lasciato settimane prima. Spesso erano spaghetti aglio olio e peperoncino, perché tutti gli ingredienti si conservano a lungo, fuori dal frigorifero (il frigo spento, il freezer a sbrinare). Anche oggi il frigo è spento, ma io uscirò a fare la spesa perché i supermercati del presente a differenza degli anni Novanta sono aperti sempre, anche di domenica, anche di notte. Comprerò comunque, per una specie di imprinting, un sugo al pesto Conad, per cenare con della pastasciutta.

Simone Lisi

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