Cover #11: Chi te l’ha fatto fare

PAINTING2542

Claudio Parentela, Painting 2542

Cover è lo spazio che riscrive le storie che hanno fatto la storia di Verde. Sei anni fa pubblicavamo Lei è cattiva, l’esordio sulle nostre pagine di Valentina Maini, che sarebbe poi diventato La mischia, l’esordio romanzesco di Valentina Maini (ne parlavamo un anno fa allo Sparwasser). Francesca Mattei, Chi te l’ha fatto fare?
Copertina di Claudio Parentela

È come un conto alla rovescia. Solo che non devi mai smettere di parlarti. Ventiquattro, Ventitré, Chiedi un bicchier d’acqua, forse può funzionare, Ventidue, Ventuno, gli schiaffi, le botte e che troia criminale che sono. È così che funziona quando passi la notte in caserma, anche se le notti diventano due o più di due, e fuori non lo sai più se c’è il sole o c’è la luna e tutto quello che loro vogliono sapere tu non lo puoi dire. 

Durante la conferenza al centro sociale, Salvatore Ricciardi ha detto che alcuni gruppi indipendentisti baschi hanno una strategia nel caso in cui alcuni di loro vengano arrestati. In caserma, devono sopportare la tortura per ventiquattro o quarantotto ore, dopo di che possono parlare. Questo serve per lasciare il tempo agli altri compagni e alle altre compagne di riorganizzarsi, partire, cambiare città o identità. Ricciardi ci ha raccontato che in questo modo quasi nessuno parla prima del termine di tempo stabilito.

«Se proietti ciò che ti stanno facendo all’infinito, cedrai dopo due ore e dirai loro tutto quello che vogliono sentirsi dire, che sia vero oppure no. Ma quando sai che la tua sofferenza avrà un termine, allora puoi resistere molto più a lungo di chi pensa che sia per sempre».

Intorno c’era puzza di fumo di sigaretta e così tanto freddo che, quando respiravi, vedevi una nuvoletta di vapore uscirti dalle labbra e tutti quanti tenevamo addosso i nostri cappotti.

Mentre Ricciardi parlava del suo nuovo libro e dell’esperienza in carcere durante gli anni Ottanta, Gaizka stava seduto in un angolo della prima fila, in quella stanza umida che usavamo come sala conferenze. Chino sulla piccola figura di Oihana, intento a tradurre, con parole che lei potesse capire, parole che uscivano dalla bocca di un vecchio e raccontavano la storia di un Paese che non è il loro. Eppure lei era così concentrata. Annuiva con un’espressione seria e gli occhi socchiusi. Immaginavo la lingua italiana mescolarsi al basco nelle sue orecchie e fondersi in un unico e nuovo linguaggio. Ogni tanto faceva delle domande a Gaizka, guardandolo negli occhi, e lui scuoteva la testa, o la piegava da un lato o ripeteva qualcosa vicino al lobo di lei, per non disturbare la presentazione, e quello che stava succedendo tra loro noi non lo avremmo mai saputo.

Le notti possono essere in caserma oppure fuori, con gli striscioni e il megafono e gli slogan per chiedere che tutti vengano rilasciati. Se sei dentro non senti niente. Continui a contate – Tredici, Dodici – sperando che quando uscirai ci sia qualcuno ad aspettarti. Se sei fuori vuol dire che qualcun altro è dentro, e ti sembra che ci sia al posto tuo e anche per causa tua e vorresti che ci fosse un modo per fare una magia e far tornare tutto come prima. Anzi tutto diverso.

A un certo punto Ricciardi ha detto una cosa.

«Dopo una vita di galera sono tornato nelle strade. Ho vissuto in carcere, ma questa sera sono qui e parlo del mio libro. È così che provo a raccontare lo scontro di ieri e a ragionare con altri e altre di voi su quello che può essere lo scontro di oggi».

È caduto uno strano silenzio, come se qualcosa si fosse congelato in un ghiacciaio e fosse rimasto a lungo intrappolato nel suo lento movimento invisibile. Anche Gaizka si è immobilizzato. Come puoi dire tutto questo con parole diverse? Deve esserselo chiesto, Gaizka, e Oihana deve averlo capito, perché non ha fatto altre domande.

Poi l’atmosfera si è distesa. Uno dei moderatori ha chiesto all’autore cosa ne pensasse di chi sostiene di voler riformare le carceri come concetto e come struttura architettonica. Lui ha risposto che l’unico modo per riformare il carcere è con un caterpillar e tutti abbiamo riso e dopo qualche secondo, in differita, la risata è arrivata anche a Oihana. 

C’è un momento in cui cambiano repentinamente strategia.
Chi ti ha convinto a farlo? A volte, da giovani, ci si lascia trascinare. Noi non crediamo che una ragazzina come te possa fare certe cose. Chi te l’ha fatto fare? Ti chiedono, inteneriti.
E per un momento te lo chiedi anche tu. Chi me l’ha fatto fare?
Ma poi respiri, conti – Dieci, Nove – ed è proprio come a Capodanno, ma con molte più esplosioni.

Una volta conclusa la presentazione, i moderatori hanno chiesto se ci fossero osservazioni o domande. La stanza si era un po’ scaldata, grazie al nostro fiato, e dalla sala concerti arrivava già qualche accordo stonato del sound check. È a questo punto che Oihana è intervenuta. Ha raccontato di quando l’hanno presa e l’hanno fatta cantare. Ha descritto il buio e le ombre e le sbarre ed era una storia che aveva a che fare con lei e con una parte di lei che non pensava esistesse e che, in modo, abitava dentro lei. Gesticolava poco ed era bellissimo sentirla parlare con la sua voce e le parole di Gaizka, che le faceva da interprete, come fossero un coro.

Ha detto che c’è un altro modo per sopravvivere alla tortura, e cioè fingere che tutto quello non stia succedendo a te. È come dissociarsi, uscire dal proprio corpo. 

E poi, ha detto, di modi per sopravvivere davvero alla tortura non ce n’è nessuno.
Alla fine esci dalla caserma.
Ne esci sempre, in qualche modo ne esci.

E trovi fuori la ragione per la quale fai quello che fai, la ragione per la quale saresti pronta a tornare dentro, e sai di aver contato e respirato e temuto, e sai di aver fatto la cosa giusta e la cosa sbagliata, di essere stata quella buona e quella cattiva e che tante volte ancora lo sarai.

Francesca Mattei

Lascia un commento