Agro Pontino

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Demerzelev– Pasolini intervista Ungaretti: Che cos’è un meme? #1

Questo racconto di Alessio Mosca, ci duole dirlo, è uno dei racconti più belli pubblicati su Verde negli ultimi mesi. Non ci nascondiamo, Verde di solito compie sfavoritismi, chi non gode della nostra simpatia aspetta mesi per vedersi pubblicato (a meno che non paghi il giusto), con Mosca è sempre andata così finora. Ma stavolta il racconto ci è piaciuto talmente tanto che abbiamo derogato alla nostra regola aurea schmittiana dell’amico/nemico e abbiamo deciso di pubblicarlo incredibilmente GRATIS. Per una volta il racconto è valso più dell’autore e del vil danaro (il quale non olet, grazie alla rinite che ci rende cinici e voraci): saranno contente le brigate di Al Barthes, sarà contento Alessione nostro che risparmia du spicci (ma solo stavolta, non ci faccia l’abitudine).
Un grande merito del racconto di Er Fly è quello di ricordare e far conoscere Gian Gaspare Napolitano, soprattutto a quella masnada di barbari, patetici troll pazzi grillini, lumpen, rentier di frustrazioni trentennali, e insel (TM) che dilapidano denari per autopubblicarsi quando potrebbero foraggiare Verde Rivista e a uno dei loro leader: il capitan ventosa delle lettere, giustiziere mascherato che combatte le conventicole umanistiche tutte, in odor di sottosegretariato alla cultura: A. Laurenzi.
L’illustrazione è di
Demerzelev e fa parte della serie “Pasolini intervista Ungaretti: Che cos’è un meme?”
Prima di lasciarvi al racconto, ultima questione molto importante: Verde sta ragionando se metter su un servizio a pagamento. Il lavoro del tutto volontario per noi è sempre più difficile da sostenere, (ricordate che siamo educatori, professionisti, lavoratori con relazioni e affetti da coltivare), per cui vi invitiamo a partecipare alla discussione qui e di votare al sondaggio: status quo o contributo economico (anche buoni pasto?)
Ringraziandovi come sempre per il vostro sostegno vi lasciamo al racconto, buona giornata.

A G.G. Napolitano.

Il ragazzo fu svegliato dal canto. Parole nere che parlavano di lui.

Tam-tam-mayumbe
Tam-tam-mayumbe
Tam-tam-mayumbe

Quando arrivò davanti alla stalla tutte le bestie erano morte. Accasciate in una pozza di melma biancastra giacevano su un fianco come fossero crollate all’improvviso.
Solo un vitello era ancora in piedi. Ruminava una brodaglia perlacea che sembrava fuoriuscirgli dal muso senza sosta, che gli impiastrava i denti e gli intrugliava il pelo, colava dalle labbra come il rigurgito di un bambino, gelatina trasparente rigirata in bocca e spremuta dall’omaso, masticata, sbavata, impastata fino a farne una brodaglia fermentante.
Alla vista di quello spettacolo il ragazzo si tolse la maglietta e in preda al panico cercò di ripulire il muso del bovino, gli ficcò una mano in bocca levando via manciate di sbobba, cercando in qualche modo di arrestarne il flusso.
Poco dopo anche il vitello si accasciò a terra, spirò con lo sguardo sbarrato verso il nulla, poi morì.
Il canto si fece sempre più forte.
Il ragazzo pensò a quello che aveva fatto la notte precedente, poi scappò.
Quale creatura è mai nata senza concepimento, quale bestia può dirsi figlia di nessun dio, incontemplata nel suo sguardo, nei suoi piani onniscienti, nel suo amore infinito, neppure quest’uomo che attraversa i campi di una terra lurida e puzzolente concimata con tappi di latta e vetri di bottiglia, gonfia di profilattici di contadini e sputi, dove rimasugli di cavi elettrici la smuovono come vermi, cavi di telecamere di guardoni che spiano le proprie figlie infrattate alle soglie dei boschi e che lo succhiano in auto a giovani coatti di Latina, Cisterna, Nettuno e che mentre ingoiano sognano di vincere Miss Agro Pontino. Terra di puttane nigeriane e ucraine, di Cotral azzurri come i loro occhi o il mare di Capocotta, di materassi bucati e cassette di legno dove i Sikh raccolgono l’insalata e sfilano coi loro turbanti colorati; se cerchi bene puoi ancora trovare i night club dove per pochi euro i papponi italiani ti servono la cornacchia in umido o i rognoni trifolati, puoi trovare i campi dove giacciono uomini incaprettati e donne fatte a pezzi.
Eccolo che corre attraverso i poderi di Fossignano e Ardea, per le marane di Tor di Bruno e Campo di Carne, corre veloce con le sue gambe storte e il petto nudo incavato come se non avesse un cuore, scappa attraverso i cenciosi bordelli nei casolari abbandonati dove pecorai romeni arrostiscono nutrie e stuprano negre, scappa da quel canto che gli brucia le orecchie e lo fa affogare nelle sue colpe.
Quando arrivò alla roulotte il canto era ancora alto. Non si sarebbe fermato, nessuno poteva azzittire quegli schiavi venuti da terre ancora più crudeli, che avevano attraversato il mare ridendo in faccia a Thalassa e Cariddi, raccoglitori di pomodori che tutto vedevano e tutto sapevano, che cantavano sotto il sole e nella notte, che comunicavano per chilometri e chilometri attraverso i loro cori, da campo in campo, da latifondo a latifondo, rivelando i peccati degli uomini e scommettendo sulle loro sorti.
Il ragazzo si rannicchiò sulla brandina e cominciò a muggire mentre le lacrime colavano trascinando via la polvere e lasciando solchi sugli zigomi. Si mise un cuscino in testa per non sentire altro, poi si addormentò.
Fu svegliato dal lieve scricchiolio della ghiaia increspata. Ormai era di nuovo notte. Notte fragile di caprifoglio e frinii di grilli, illuminata dai fari dei camion e da qualche fuco lontano.
Rumore di passi. Capì cosa stava succedendo. Scivolò dolcemente giù dalla branda e gattonò verso il bagno.
Poco dopo i contadini sfondarono la porta e misero a soqquadro la roulotte. Facce rosse e pelle spessa, occhietti annacquati dal vino fatto in casa con lo zolfo e pollici gagliardi per affettare il formaggio, scarpe infangate e culi appiattiti dai seggiolini dei trattori, rabbia.
Lo ritrovarono immerso fino al busto nel pozzo nero, aveva svitato la tazza del cesso che adesso, fradicio di merda, teneva in mano cercando di ritapparla sopra sé.
Lo tirarono fuori in due, gli altri gli afferrarono le gambe, altri ancora lo prendevano a calci. Lo trascinarono nel campo.
La luna illuminava la scia marrone che imbrattava l’erba e tracciava il percorso dall’uomo alla roulotte. Il ragazzo urlava, si agitava, piangeva e chiedeva pietà, diceva che non lo avrebbe più fatto. Lo ficcarono dentro il portabagagli dell’auto.
Vide avvicinarsi un contadino con due gabbiette da conigli in mano. Con cautela altri due uomini lo aiutarono ad aprire le gabbie tenendo l’apertura vicino al baule, altri attorno cercavano con dei bastoni di contenere le bestie.
La lontra ringhiava incattivita, appena fu libera schizzò fuori insieme al gallo e si fiondarono sul ragazzo rannicchiato nel fondo del bagagliaio. In un attimo il portellone fu chiuso.
Quando lo riaprirono il sole non era ancora sorto ma la luce già schiariva il cielo da dietro l’orizzonte. Il gallo era morto, la lontra respirava ancora. Dal pelo zuppo colavano goccioloni di sangue, così come dalle sue orbite cave. Non ringhiava più. La finirono con un colpo di pala poi afferrarono la carcassa del gallo e la gettarono nell’erba alta.
Poi presero il corpo del ragazzo e lo arrotolarono in un telo. Lo avrebbero dato ai maiali, lo avrebbero fatto sparire prima che una fattucchiera ne piangesse la mancanza, prima che un Dio volubile ne reclamasse l’innocenza, lo avrebbero fatto sparire così che non sarebbe mai esistito, così che presto avrebbero cantato d’altro.

Alessio Mosca