GUERRA OSCURA

42mostri pride

Andrea Sacchetti, 42 mostri

Verde 28, il numero inedito: doveva essere l’ultima uscita del cartaceo, a ottobre scorso, ma poi le cose presero un’altra piega. Il magistrale Guerra Oscura di Vinicio Motta (do you remember l’idillio incrinato?) avrebbe dovuto chiudere quel numero e la prima vita editoriale di Verde. Lo rileggiamo oggi, a quasi un anno di distanza, per inaugurare nel migliore dei modi la quarta settimana del blog.

Ero gli avanzi venefici di un sogno eversivo e le oscure sinapsi di una rete spettro. Spietati e instancabili, i cosmonecrofagi ci divoravano come grafi multidisciplinari colati sul tempo. Urlavamo sdegnati, stanchi e arrabbiati, le cefalee sembravano non finire mai. L’orrore iniziò. La rivoluzione… I meccanodei erano al nostro servizio e io non ero nessuno, se non quando mi ferivo nella cabina di comando e sanguinavo controllo sinaptico.

Volevamo spezzare l’universo, è vero, perché sapevamo che il nostro disagio attinico era un sintomo tridimensionale: noi eravamo, ma per interposta illusione. Finalmente avremmo potuto sognarla davvero, la vita. Desideravamo cantare a squarciagola e non essere ascoltati, partire ed essere dimenticati, amare l’annichilazione e nuotare tra le correnti del mito. Sparai e sparai ancora e colpii il nemico fino a quando una falange di cosmonecrofagi non perse contatto con l’Esercito della Putrefazione. Durò poco. Presto, il tempo di una contrazione muscolare involontaria, i cosmonecrofagi si ricomposero e io ricominciai. Ma non ero l’unico. Un esercito di meccanodei era dietro, intorno e davanti a me. Furioso, pronto a riconvertire per sempre la melodia di carne dell’orrore vestito di bianco.

Il meccanodio che pilotavo non aveva un nome. Una mia scelta. Perché la guerra sarebbe durata per sempre oppure un solo giorno e allora non aveva senso fissare il meccanodio a una parola. Se qualcuno mi avesse ordinato di farlo, avrei plasmato una parola che nessuno – io per primo – sarebbe stato in grado di pensare né pronunciare. Sanguinavo, tagli e perforazioni dappertutto: mi sentivo più forte, lo ero. Il meccanodio beveva il mio sangue, i suoi circuiti si esprimevano al massimo. Alcuni dicevano che un giorno sarebbero diventati autonomi e noi il loro pasto: io ero persuaso che ci avrebbero trattati come alleati e pari e forse come divinità, se avessero vinto la simbiosi metallorganica. Passai alle spalle del fronte rivoluzionario e lasciai che la tuta mi curasse. Non volevo che il sangue cessasse di sgorgare. Interruppi le cure poco prima che l’emorragia diventasse fatale. Sentii un brivido, la cabina tremò, defecai con furia. La tuta riciclò la merda e mi dissetò. Mi sentii meglio. La sete passò, la fame pure. Colpii ripetutamente il bersaglio e vidi centinaia, forse migliaia di cosmonecrofagi implodere in una muta scintilla di giallo epilettico. Lo spazio sembrava esplodere ma non era così: era più vivo, cioè morto, che mai. Stava benissimo, urlava e godeva. Oscillava emozionato, eccitato, mentre l’Esercito della Putrefazione serrava i ranghi.

I cosmonecrofagi erano in difficoltà? Oppure fingevano? I meccanodei che mi erano davanti attaccarono. Indeboliti o meno, i cosmonecrofagi sembravano disuniti e vulnerabili. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo. Persino i meccanodei non lo sapevano. Chiusi gli occhi e attesi gli ordini.
Rispondi, carapace, Dio, ti prego: come mai non parli? È giusto così, forse: fingi che non abbia detto nulla, ignorami. Perdonami. Perché innalzare castelli di sabbia, quando ciò che stavamo combattendo erano le spiagge dell’essere? Non aveva un nome, il mio meccanodio, e nemmeno una lingua. Avevo appena negato ciò in cui credevo e per cui combattevo. Traditore! Per un attimo, vittima di un piacere perverso, ero stato un cosmonecrofago. Quando la tentazione mi aveva sfiorato, la guerra mi era parsa un evento terribile. Lo era, una tragedia, umana, non umana, inumana, che non avrebbe avuto fine nel tramonto di un giorno terrestre, nella catarsi di un’anima nera, nella cenere invisibile, pregna di diapositive ammuffite, di un incendio antico. Era di questo che si alimentavano i meccanodei? Non di sangue, ma di horror vacui? Cosa temevamo? Di essere. La fenomenologia, la vita e la morte erano vere e mi facevano sentire benissimo: uno schifo, un brufolo esploso sulla pelle infetta, cioè viva, del Primo Architetto.

Braccia, teste, torsi e gambe di meccanodei sfrecciavano ai miei lati. Restai concentrato sul nemico e non mi voltai. Guarda! Avrei voluto farlo e cercare volti familiari, odiati, amati, visi ignoti da conoscere e desiderare. Disprezzare. Il sangue dei caduti schizzava sulla plancia di comando e spariva in un lampo, assimilato come ambrosia sintetica dagli interstizi del meccanodio. Il mio sangue e il sangue dei miei fratelli, dei miei compagni, degli amici e degli amanti scorreva nel carapace che mi proteggeva. Un corpo, una guerra, un solo fronte. Piangevo e il meccanodio beveva le mie lacrime attraverso tentacoli espulsi dalla console di comando – nettavano muti, come baci segreti. Gli sfinteri dei cosmonecrofagi si contrassero e iniziarono a eruttare strane creature. Una di quelle aberrazioni aveva un volto amico. Non ricordavo il suo nome, no; non volevo ricordarlo, non dovevo. Mesi prima avevamo fatto sesso nella testa di un meccanodio, durante una riparazione. Il meccanodio era sembrato indifferente al nostro coito e la cosa aveva turbato entrambi. Ricordai e dubitai del Suo essere strumento di carne, metallo e fede. Quella testa sorridente era ora sul corpo di un uomo le cui braccia erano lame rotanti di luce verde. Dovevo vomitare ma ingoiai tutto; strinsi le dita attorno ai braccioli della sedia e avanzai senza che mi ordinassero di farlo.

Il tempo rallentò. Non avevo un cuore, ne avevo miliardi infinitamente piccoli che battevano tra cellule accelerate. Compagni, superiori e amici mi urlavano di tornare indietro. È un ordine, soldato! Avevo visto la fine della guerra – un’intuizione lucida, radicata nell’es ma visibile agli occhi. Il sangue rivoluzionario bollito. Avremmo perso e saremmo stati ricordati da coloro che non sarebbero morti. Nessuno di noi voleva questo; l’oblio era la nostra meta. Non avremmo vinto se avessimo continuato a combattere con le armi, i proiettili e l’energia dei cannoni. Dovevamo fonderci con i cosmonecrofagi e lasciare che il loro sangue alimentasse i meccanodei. Non ero mai stato coraggioso, la storia passata non mi avrebbe ricordato come un eroe: come uno stupido, forse. Le vecchie tattiche erano morte e serviva una scelta tale per sostituirle.
Eccomi, bastardi.

Le comunicazioni dicevano di meccanodei che prendevano il controllo e scioglievano i piloti nella propria coscienza. Anche il mio carapace divino inseguiva il nemico senza che gli dicessi di farlo. Pensavo e la realtà non cambiava – la realtà e il mio non esserci diventarono una cosa sola. Ero il primo e l’ultimo battito del cuore e il ritmo della mente che cercava di razionalizzare. Il male diventò un fiore, il bene un cadavere. Gli uomini, i padri, stavano morendo nei figli del metallo e della fede; rinascita, l’inganno disciolto, oltre il tempo e i giudizi, gli esiti e i misteri. Dei e morte. Uomini e passioni. Un albero. Non ne vedevo uno vero da anni. Incontaminato, bello. Foglie, frutti e rami brillavano di luce solida; l’albero sapeva di rugiada e idiozia. Mi addormentai alla sua ombra.

Vinicio Motta

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