
Demerzelev feat. Frau– Minore di Trex #6
Oggi pubblichiamo il racconto di una delle nostre autrici preferite: Lucia Ghirotti.
Ain’t Got Not, I Got Life è il sesto racconto di Lucia su Verde e noi siamo davvero orgogliosi e contenti di ospitarlo.
Ci permettiamo di dedicarlo a quelle persone che, nonostante si dicano di sinistra, irridono il suffragio universale, con una spocchia degna del signor distruggere, deridendo chi non ha avuto la loro fortuna.
Questa sesta puntata di Minore di Trex è in collaborazione con Andrea Frau, ed è l’ultima della serie. Ringraziamo di cuore Demerzelev– Franco Sardo, che speriamo di ritrovare presto su Verde con uno dei suoi racconti. Buona lettura. (Oggi editoriale breve, eh. Oh, dovremmo respirare ogni tanto! Ma che diavolo ancora volete da noi? Ciao, un abbraccio).
Il camerata Nello Comandini, se adesso qualcuno gli si rivolge chiamandolo camerata, ed è in una buona giornata, gira la schiena e porta altrove senza una parola quei novanta chili di muscoli. Fino a trent’anni fa, per un buon decennio, era stato al servizio della causa e aveva dato tante soddisfazioni ai capi del Movimento che, insieme al caffè della mattina, potevano godersi pure la notizia sul giornale del pestaggio della maledetta zecca indicata come bersaglio.
Che fortuna, che comodità e che benedizione era stata avere tra le proprie fila una specie di uomo-roccia che non aveva finito l’istituto professionale, ma che leggeva tutti i giorni da cima a fondo il giornale del partito, un hulk che non faceva mai domande fastidiose sul perché si dovesse prendere a bastonate sulle gambe proprio quello lì, che sarebbe bastato guardarlo in faccia e magari fargli finire per terra con uno schiaffone gli occhialetti rotondi per farlo pisciare sotto e renderlo innocuo una volta per tutte.
Verso la metà degli Ottanta, quando oramai era chiaro a tutti che non sarebbero più arrivati soldi da nessuna parte del mondo per far vivere le ideologie a suon di morti e feriti, il camerata Nello Comandini era stato preso sotto la protezione dell’onorevole Elio Furlan il quale, dopo aver servito per anni il suo Paese facendo da raccordo tra la grigia aula parlamentare e la gioventù vogliosa di rivoltare il mondo magari anche con le bombe, si era rassegnato alla noia della democrazia e agli agi che questa gli assicurava.
Nello guidava l’auto dell’onorevole che, per via dell’occhio sinistro mancante, portava occhiali scuri in sostituzione dell’amata benda nera, dismessa di malavoglia su consiglio dei nuovi vertici di partito, perché faceva tanto El Alamein. Furlan, classe 1926, si trovava in quella comoda fascia anagrafica che permetteva a quelli come lui di giocare al c’ero-non c’ero di Salò e variare le versioni a seconda dell’uditorio.
Nello si dava da fare quando c’era da attaccare manifesti, organizzare i servizi d’ordine ai comizi e andare a recuperare Francesco Saverio, il figlio adolescente dell’onorevole che, nonostante l’ottima educazione dai Padri Somaschi, poteva capitare di trovare ubriaco alle quattro del mattino, sdraiato su un muretto dei giardini dietro al Campidoglio.
L’onorevole Furlan si disperava per quel giovane avuto in tarda età, gli aveva dato tutto quello che un padre, con tante responsabilità e poco tempo, certo, poteva offrire a un figlio tanto intelligente (forse troppo), e tanto bello (decisamente troppo). Dai dodici anni (io a quell’età già sapevo maneggiare una Beretta), a qualunque ora l’onorevole rientrasse e nonostante le proteste della madre e della domestica, Francesco Saverio veniva convocato nello studio del padre per il rito della buonanotte, una veloce cerimonia a due che prevedeva un abbraccio virile e un breve ripasso tra i cimeli custoditi sotto chiave. Poteva capitare l’albo tedesco, una collezione di articoli e fotografie originali del Reich, ragazzi biondi e sorridenti col fucile in spalla, che posavano con uno stivale sulla faccia di un cadavere di un altro ragazzo in uniforme. Altre volte era il turno dell’albo africano, che l’onorevole squadernava al figlio con atteggiamento un po’ più complice, perché tra le immagini di soldati sudati in tenuta coloniale che si dissetavano da borracce di pelle e operai che costruivano strade in mezzo al deserto, spuntavano fuori ogni tanto le negrette con le tete fòra che abbracciavano contente i nostri uomini.
Più grandicello, Francesco Saverio era stato introdotto all’albo della razza, un bel librone pieno di articoli di giornale che dimostrava come il nemico più subdolo si fosse impossessato delle ricchezze del mondo attraverso una precisa strategia finanziaria e di come un popolo di giusti si fosse posto in prima linea per liberare tutti da quell’immondo cancro.
Vedi come sono brutti e sporchi? Vedi come, pur di sopravvivere, si uccidevano e si mangiavano tra loro? Noi li facevamo lavorare in questi posti, potevano far tutto, mangiare, dormire, lavarsi, divertirsi anche, ma loro niente, volevano vivere da ricchi o morire e lasciare morire i loro figli piuttosto che rieducarsi, guarda, guarda che schifosi, che sporcizia, delle bestie proprio. Che poi, quando sono arrivati i russi e gli americani lo sai che hanno fatto? Hanno preso quelli malati che erano ben curati negli ospedali dei campi di riabilitazione, li hanno spogliati e li hanno filmati per far vedere che erano tutti così. Pure i morti mezzi putrefatti sono andati a disseppellire e li hanno messi in cataste. Guarda, guarda pure…perché non guardi?
A diciassette anni Francesco Saverio non parlava più quasi con nessuno.
Una settimana prima dell’arresto di Nello, i carabinieri, grazie a un ufficiale che all’onorevole doveva qualcosa, avevano riportato a casa Francesco Saverio senza procedere in nessun modo, nonostante il ragazzo fosse stato tirato fuori da una rissa in cui aveva luccicato qualche lama. Il giorno dopo, Nello era arrivato alla solita ora per prelevare l’onorevole e aspettava seduto in cucina, dove di solito la cameriera gli preparava il caffè. Dallo studio dell’onorevole si sentivano le urla del vecchio contro la moglie che singhiozzava.
«È colpa tua che lo proteggi sempre, che lo assecondi in tutte le sue stranezze! Ma lo sai che combina la notte? Lo sai che mi ha detto il Capitano, che per fortuna è amico nostro? Si ubriaca di vino di osteria…e paga, capisci? Paga lui vecchi, negri, tutti i culattoni di Roma per prenderlo in bocca, nel culo…. anche tutte e due le cose insieme…. lui che potrebbe permettersi le migliori bagasse del centro… invece va a cercare i depravati, gli invertiti più sporchi, brutti e vecchi nelle borgate per farsi umiliare e mettere nei guai me e il nostro nome…».
Furlan era uscito come una furia dallo studio, inseguito dalla moglie in lacrime che si teneva la testa tra le mani.
«Elio non farlo….Elio ti prego… è solo un ragazzino…».
«Oggi diventa uomo! O lo ammazzo io con queste mani!»
L’onorevole era uscito dallo studio in pigiama e vestaglia, in mano il frustino di cuoio a tre code ricordo della guerra d’Africa, che teneva attaccato alla parete dello studio e che Francesco Saverio, quando era bambino, aveva il compito di tenere sempre bello guizzante con il grasso di foca.
Nello, seduto in cucina, teneva i gomiti sulle ginocchia e guardava in basso. Non voleva pensare a niente, non voleva sentire niente di quello che invece gli rimbombava nella testa: le imprecazioni di Furlan, le porte che sbattevano, il pianto della signora, le urla del ragazzo che implorava il padre di smettere. Aveva i denti serrati, le mascelle gli facevano male, il rumore di ogni colpo di frusta gli faceva chiudere i pugni così stretti da graffiarsi i palmi delle mani fradice di sudore.
I colpi, il rumore di mobili spostati con violenza, le urla e le imprecazioni nella sua testa prendevano la forma di immagini oramai sepolte che gli risalivano dallo stomaco. Ragazzi che si accanivano su altri ragazzi, i bastoni, le catene, i pugni di ferro, il sangue e il piscio di paura che rimaneva sull’asfalto.
Non era lui che si alzava dalla sedia, lui era rimasto lì al suo posto di soldato scemo, non era lui che irrompeva nella stanza di Francesco Saverio e che intimava al vecchio di fermarsi. Il camerata Comandini non si era mai impicciato. Chiunque fosse, quell’omone che toglieva la frusta dalle mani dell’onorevole era un coglione e si stava cacciando nei guai.
«Vattene tu!…Cosa vuoi… non ti riguarda..stai al tuo posto e non permetterti di…».
Ormai era tardi, il camerata Comandini guardava se stesso mettersi davanti al ragazzo che aveva il naso e le labbra che colavano sangue e offrirgli un riparo.
Sentiva la propria voce.
«Non lo toccare.. Non farlo più o mi scordo che sei un vecchio».
L’onorevole ansimava, la vestaglia scozzese si era aperta e la cinta con le nappe pendeva tutta da una parte. Due bottoni della camicia del pigiama si erano strappati e, sulla canottiera a costine che si vedeva sotto, riluceva un teschio d’oro che pendeva da una catenina.
«Maledetto traditore, pezzente ingrato, ti ho accolto come un fiòl, e questo è il ringraziamento…Ma ti costerà caro…Fòra dai bal, non è affar tuo….Fòra!… Fòra…».
Nello aveva lasciato cadere a terra la frusta e si era girato verso il ragazzo rannicchiato dietro di lui sul pavimento. Gli aveva detto andiamo, lo aveva fatto alzare e facendolo appoggiare a lui si era diretto verso la porta di casa. La signora Furlan li aveva preceduti nel corridoio e aveva aperto in fretta la porta per accelerare l’uscita. Poi aveva chiamato sottovoce la cameriera.
«Caterina…vieni qui, prendi questi soldi, stasera portali a Nello, a casa sua, digli che per ora è tutto quello che ho in casa, lui controlla tutto. Appena posso gliene faccio avere un altro po’».
La ragazza, arrivata a servizio qualche anno prima dai Furlan direttamente dalle Marche, non ci aveva capito niente, ma qualcosa le diceva che in quella casa non sarebbe rimasta molto.
Nel giro di qualche giorno l’onorevole aveva sistemato tutto. Aveva chiamato un amico magistrato, di quelli che a Roma si preoccupavano di far approdare i fascicoli dei camerati nella parte più nebbiosa del porto, e lo aveva pregato di fare in modo che un vecchio dossier su Nello, seppellito da tempo, finisse per caso nelle mani di un collega puntiglioso. Per puro caso poi, un recluso per fatti politici si era improvvisamente ricordato del nome di Comandini come facente parte di un’azione punitiva che anni prima, era costata l’uso delle gambe a uno studente dell’Autonomia.
Francesco Saverio fu recuperato a casa di Nello dai fedeli dell’onorevole. Di lì a poco avrebbe compiuto diciotto anni, ma ai venti non ci arrivò mai: male incurabile per i necrologi, quella nuova malattia dei froci nelle chiacchiere alla bouvette.
Uscito di galera, Nello si arrangiava con un furgone a potare giardini, traslocare mobili e ripulire scantinati da roba vecchia, che in parte buttava e in parte aggiustava e rivendeva. In un giro per discariche aveva incontrato una vecchia conoscenza, nome di battaglia Er Colla, per via della fissazione a non lasciare mai in piedi nessuno (devono fa’ un tutt’uno co’ l’asfarto), divenuto ispettore all’azienda comunale dei rifiuti in una colossale infornata di ex camerati da aiutare, in un momento di giunta favorevole. Nello, sotto il sole di agosto, con un frigorifero sulle spalle e la maglietta fradicia aveva evitato di salutarlo, per non metterlo in imbarazzo, ma quella frazione di secondo era stata sufficiente a ricordare al geometra dell’azienda comunale che Comandini, quando era entrato in galera, non aveva fatto un fiato e tantomeno aveva pronunciato il nome che mancava al magistrato per completare il commando che aveva rotto la schiena al ragazzo, il nome più pesante, quello dell’ultima bastonata alla vittima già a terra.
Nel giro di qualche giorno, Nello si era ritrovato in un ufficio a stampare moduli. Ogni tanto incontrava per i corridoi facce conosciute tanto tempo prima, che faceva di tutto per evitare, cercando come sempre di fare bene e in silenzio il suo lavoro, per quanto non ne capisse l’utilità. Un venerdì pomeriggio, mentre era curvo sulla stampante e si sforzava di capire come si cambia il toner, gli si era avvicinato da dietro un altro beneficiato della stessa cordata der Colla, che aveva sbattuto i tacchi e, col braccio teso nel saluto romano e un sorriso ebete sulla faccia, si era rivolto a Nello:
«Camerata Comandini…Presente!»
Siccome quella per il camerata Nello Comandini non era una buona giornata, il responsabile della compilazione del registro infortuni aveva dovuto faticare un po’ a descrivere il sinistro occorso allo spiritoso che, inavvertitamente, era caduto con la faccia sul toner rompendosi due denti e l’osso nasale.
Chiusa per sempre la stagione ufficio, Nello si è rimesso sul furgone e, insieme al suo ex compagno di cella dell’Autonomia si è creato un giro piuttosto stabile di attacchinaggio pubblicitario.
Dopo il lavoro vanno a bere birra nel dehors di un locale al Pigneto, anche d’inverno, se ne stanno in disparte fumando in silenzio. Più che altro guardano le ragazze, che con gli amici parlano di università, progetti editoriali, musica e vacanze. Possono ascoltare tutti i loro discorsi, tanto nessuno si accorge mai della loro presenza.
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