Carpocapsa

Torna su Verde Francesca Mattei, lo fa con un racconto dai toni smorzati, che reca nel titolo una specie di (spoiler) insetto, proprio come fu per il suo esordio sulle nostre pagine. Qualcuno più scaltro di noi direbbe che Francesca sta ponendo le basi di “una entomopedia dei tipi umani”. Ma questa è una cosa che può dirci solo lei, nel momento in cui ci manderà la sua prossima fatica (wink wink, Fra).

Oggi leggiamo questo racconto che parla di carceri e di alberi da abbattere. A noi è piaciuto molto.

L’illustrazione è di Claudia D’Angelo, altresì detta Claudita Bierde.

Ieri mattina nonna mi ha chiesto di andare a fare la legna, così ho preso l’accetta e la carriola e ho imboccato il sentiero ad est. Dopo pochi secondi, si è affacciata alla finestra e ha urlato di cambiare strada.
Non per di là, ha detto, ché ci sono gli alberi sani, quelli che fanno i frutti. Devi andare alla radura dietro la chiesa abbandonata, dove ci sono gli alberi selvatici, quelli brutti, ecco abbatti quelli.
Nonna mi ha spiegato che gli alberi da frutto belli vanno lasciati crescere e che vanno accuditi e curati se si ammalano. Quelli che danno le arance aspre o le mele marce, invece, sono buoni solo per fare la legna, non c’è molto da fare se l’albero è nato guasto, occupa solo spazio ed è meglio abbatterlo. Io, allora, sono tornato indietro e ho preso la strada giusta, quella che mi ha indicato lei.
Il sole sorgeva lentamente e colorava di giallo i sempreverdi. Il profumo di funghi e di muschio era talmente forte da farmi starnutire. Dopo meno di mezz’ora sono arrivato e mi sono messo al lavoro, ho scelto i tronchi più asciutti e i rami più secchi e li ho caricati sulla carriola con una bella manciata di pigne. Ho fatto avanti, indietro tante volte, fino a che la legna impilata in veranda non è arrivata all’altezza della finestra. Allora sono entrato per il pranzo, sudato e sporco di terra, con una fame come quelle che hai dopo una giornata intera a giocare sotto al sole e invece non era neanche mezzogiorno. Nonna aveva preparato la zuppa di lenticchie e la torta di mele. Mentre me ne serviva una fetta, mi ha fatto i complimenti.
Hai fatto un bel lavoro stamani, ormai sei un ometto. E la torta ti piace?
Mi ha pulito un baffo di zucchero a velo dalla guancia con il suo pollice ruvido e poi si è messa a lavare i piatti.

Oggi è un giorno importante perché torna papà. Nonna mi fa svegliare presto, anche prima del solito, e mi fa mettere la camicia, la stessa che portava papà al ricevimento della prima comunione. Puzza di vecchio e di chiuso e mi prude sulla pancia, ma non la tolgo. Nonna comincia a lavare le scale con uno straccio e un secchio pieno di candeggina e mi mette in mano un cacciavite per aggiustare il cassetto in cucina. Senza rovinarmi la camicia, mi raccomanda.
Io non so cosa devo fare né come farlo.
Papà è entrato in galera quando non avevo ancora iniziato le elementari e ne esce adesso che le ho appena finite e che ho imparato a fare legna come si deve. Il cassetto è tutto rotto e scheggiato, il pomello continua a staccarsi e a cadere per terra e io mi chiedo perché non lo buttiamo nella stufa insieme alla legna degli alberi difettosi.
Nonna mi sente brontolare e grida dalle scale. Ha il fiatone, per tante volte che le ha fatte.
Dai, piccolino, che quando arriva papà trova tutto a posto.
Tutto a posto. Il caffè sul fuoco, gli scalini lucidati, il figlio dentro la sua camicia, la frutta buona sul tavolo e quella marcia nel camino.
Il pomello rotola sul pavimento e fa il rumore di una noce che cade sul sentiero. Lo calcio lontano e non so dove va a finire. Mi siedo con i gomiti appoggiati al tavolo e conto le macchie che ha fatto il legno.

L’ultima volta che l’ho visto, al colloquio familiare, ero con zio. Papà aveva appena saputo che il suo ex compagno di cella, trasferito in un’altra città due mesi prima, era stato trovato morto nella sua brandina. Era tutto grigio e blu sulla faccia. Sapevo come era ridotto perché ne avevano parlato tutti i giornali e avevano messo anche le foto del morto, prima e dopo il fatto. I giornali parlavano di un incidente e accusavano “le solite mele marce” tra le guardie carcerarie. L’amico di papà sembrava proprio un frutto pesto, viola e gonfio. Al colloquio papà e zio parlavano sottovoce e a volte si scordavano di me. Papà ha detto che a marcire, in quei posti, erano solo i carcerati e che non lo sapeva come uno poteva restare sbirro dopo aver visto certe immagini. Quando ce ne siamo andati, lui mi ha dato un bacio. La sera, a casa, zio e nonna hanno parlato a lungo e hanno pensato fosse meglio che io non lo incontrassi per un po’, almeno fino a che si trovava “in quelle condizioni”.

Sono passati due anni e io mi fido e mi sembra giusto quello che nonna sceglie per me, ma non so se papà ha ripreso lo stesso colore di prima e non ricordo bene quali vestiti indossasse.
Papà ha passato tutti questi anni in un carcere dove i detenuti non muoiono, un piccolo istituto con una cinquantina di posti, dove i prigionieri giocano a calcetto con i secondini nel campo che dà sulla strada. In TV lo chiamano “l’oasi verde” della Toscana, “il fiore all’occhiello” della giustizia italiana. So che fanno dei laboratori e degli spettacoli e i carcerati possono scrivere su un giornalino, che stampano in una copisteria del centro e vendono alle fiere. Hanno anche un orto, dove si prendono cura delle piante e imparano a proteggere i frutti dagli insetti che li mangiano dall’interno, come il bruco che attacca le mele o il fungo che rovina i pomodori. A papà è andata bene, dicono.

La nonna appare sulla porta della cucina e la sua ombra mi raggiunge e mi ricopre. Quando mi vede con la guancia sul ripiano del tavolo, mi rimprovera a bassa voce e ride un po’. In una mano tiene il secchio pieno di acqua, mentre nell’altra stringe il pomello.
Come c’è finito in corridoio?
Sollevo la testa per vederla meglio e appoggio tutto il mio corpo allo schienale della sedia. Nonna fa una faccia dura, ma non di quelle arrabbiate, più una di quelle che fa quando mi sbuccio un ginocchio o mi ustiono con la brace.
Lasciamo stare. Il cassetto funziona lo stesso, anche se è un po’ storto. Ce lo facciamo andare bene così, vero, tatino?
Mi bruciano le guance e non me la sento di continuare a guardare gli occhi grandi e cadenti di nonna. Mi alzo per andare a fare pipì e lei è d’accordo. Mentre sono seduto sul water, la sento armeggiare con le pentole e bestemmiare contro il cassetto. Sposta gli sgabelli e apre e chiude le ante della dispensa.
Controlla e ordina, come fa sempre e da sempre.
Mi lavo le mani ed esco dal bagno. In cucina le finestre sono aperte e nonna strofina i vetri con la spugnetta azzurra. C’è odore di alcool e di aria fresca e mi sembra primavera. Quando finisce di smacchiare i fornelli, si sposta al piano di sopra per rassettare la camera da letto.
Guardo fuori e vedo papà arrivare dal sentiero che porta alla statale.
Cammina curvo sotto il peso di una borsa blu da palestra. Viene avanti piano, fissando le sue scarpe da ginnastica grigie. È magro come un fuscello e zoppica leggermente. Si muove a scatti, rigido come un tronco.
Prima di entrare si ferma in veranda e si siede sulla catasta di legna secca. La sua schiena magra, al di là della finestra aperta, è come un ramoscello su tanti altri. Mi concentro per non fare rumore e mi accuccio sul pavimento e davvero non so se sono felice o solo spaventato.
Bussa tre volte e poi spinge il portone, che si apre cigolando.
Nonna si precipita giù dalle scale, mentre io mi alzo e li sbircio da dietro lo stipite della cucina. Papà lascia cadere il borsone all’ingresso e non solleva la testa. Ha la pelle macchiata come il ripiano del tavolo e i capelli lunghi. Nonna lo abbraccia e la sua faccia scompare dentro la spalla di lei. Quando riemerge si avvicina, mi bacia e mi spettina.
Apre il rubinetto della cucina e riempie un bicchiere di acqua fredda. La scola tutta d’un sorso e poi afferra una mela dal portafrutta. La sgranocchia a occhi chiusi, appoggiato contro al frigorifero.
La luce che entra dall’esterno illumina i granelli di polvere e nessuno dice una parola. Papà mastica e riempie le sue guance scavate e bianche e ogni tanto si pulisce la bocca con il dorso della mano.
Quando finisce di mangiare riapre gli occhi, attraversa la stanza e butta il torsolo nel camino.

Francesca Mattei

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