
Giulfin, Sparire
Ascenseur pour l’échafaud è la nuova rubrica mensile di Sergio Gilles Lacavalla. La seconda puntata è il lungo e appassionante racconto del 25 novembre 1970, il giorno in cui Yukio Mishima si tolse la vita.
L’illustrazione è di Giulfin. Buon inizio di settimana.
Nota dell’autore. Il termine Jieitai, che sta per Forze di Autodifesa Giapponesi, a cui si riferisce Mishima, è per la precisione Rikujō Jieitai, che vuol dire Forze di Autodifesa Terrestre Giapponesi, ma io ho usato solo la parola Jieitai così come la usava lui nel suo proclama per riferirsi all’esercito. Dunque ho scelto il singolare maschile. Le frasi del “Proclama del 25 Novembre 1970” sono tratte dal proclama originale scritto da Mishima.
Sono urla di scherno. Qualcuno osserva in silenzio. L’espressione addolorata. Altri sono interdetti e non capiscono bene cosa stia avvenendo. Ma i più lo deridono e urlano insulti. Mishima sta facendo il suo proclama e loro lo deridono. Non si capisce niente. Non afferrano quello che dice. Il rumore delle eliche e del motore degli elicotteri della polizia è un frastuono che cancella tutto, si sovrappone a tutto. Ci sono anche gli elicotteri della televisione nazionale e dei fotografi dei più importanti quotidiani del Giappone che riprendono la scena cercando l’angolazione migliore. Le urla dei soldati sono spezzate dalle eliche dei velivoli che sorvolano la base militare di Ichigaya. Guardano su, sul balcone della stanza 201, lo scrittore con i lineamenti distorti per lo sforzo di farsi sentire, lo scrittore che urla con la sua elegantissima divisa della Tatenokai, la Società degli Scudi, lo hachimaki con al centro lo Hinomaru, il simbolo del Sol Levante e gli ideogrammi che riportano il motto di guerra dei samurai e dei kamikaze “Sette vite per il mio Paese!”, è stretto sulla fronte, le vene della testa e sul collo stanno per scoppiare, le mani sono sui fianchi come nell’atteggiamento di un Duce estremorientale, poi in avanti, stringe un pugno guantato di bianco in un movimento da Führer del Pacifico, si agita come un Artaud marziale che mette in scena il suo teatro della crudeltà, quindi porta una mano intorno alla bocca a fare da megafono, lui urla e loro gli gridano contro che è un buffone, un delinquente, un cretino, un eroe fasullo – più falso dei personaggi dei suoi romanzi, che nessuno di loro ha letto. Sembra che quelle parole dicano questo. Il rumore è proprio assordante per comprenderle bene (solo i microfoni della tv a terra riescono a coglierle tutte e con chiarezza e a trasmettere nei televisori di milioni di giapponesi attoniti il discorso dello scrittore e le offese dei suoi detrattori). Ma Mishima pare capirle. Alcune riesce a udirle. Risponde. «Non avete dignità! Fatemi parlare!». Le ingiurie sul grande spiazzale dell’alzabandiera si intuiscono da quei pezzi di parole che si salvano dal frastuono, agli elicotteri si sono aggiunte le macchine della polizia che arrivano sul campo di manovra con le ambulanze a sirene spiegate e le automobili di altri cronisti e fotoreporter, i corrispondenti delle testate estere, il loro vociare, chiedono spiegazioni, raccolgono notizie, i click ripetuti delle Nikon, e dalle espressioni beffarde degli uomini del 32esimo Reggimento di Fanteria schierati senza nessun ordine. Le uniformi sono dimesse: un esercito disarmato che grida la propria impotenza a un uomo che vorrebbe ridare loro e a tutto il Giappone la dignità.
Basterebbe un po’ di silenzio per farsi ascoltare. Forse, senza tutto quel chiasso, avrebbero capito. Avrebbero compreso le ragioni di quel proclama urlato al vento artificiale degli elicotteri insieme alle richieste di starlo a sentire, di cercare di sentirlo, di provare a seguire quello che diceva, invece di offendere. «Vieni giù, pagliaccio!» E sarebbero insorti in un mattino traboccante di gloria.
Il silenzio di una corsa mattutina nella neve che amplifica ogni respiro di gioiosa fatica, quando ogni parola reca in sé il valore dell’esistere e dell’erotismo, una corsa in solitario su una pista di atletica umida di rugiada o seguito dai suoi uomini nei campi di esercitazione avvolti dalla nebbia nelle pianure del Fuji, sotto il cielo terso e stordente, i giovani studenti universitari dai venti ai venticinque anni componenti la Tatenokai, la sua milizia personale, il ritmo degli anfibi dietro di lui, un canto militare nel silenzio; il silenzio, solo un po’ di silenzio per farsi udire. Ma il frastuono era già iniziato quando avevano messo in moto il loro piano. I mobili contro la porta per creare una barricata. Il vetro della porta frantumato. I mobili spostati. Il tentativo di irruzione. I tafferugli a colpi di spada e bastone con gli ufficiali intervenuti dagli uffici vicini. Nessuno dei militari rimane ferito gravemente. Ma il sangue è già sulle lame. Ancora mobili contro la porta. Dal vetro rotto alcuni teleoperatori riprendono gli eventi. Le urla e le minacce. «Lo uccidiamo, se non ve ne andate e non date esecuzione alle nostre richieste», aveva gridato Mishima opponendosi all’ultimo tentativo dei militari di porre fine a quell’assurdo colpo di mano. La richiesta di adunata dei mille uomini della caserma. Avrebbero dovuto ascoltare in silenzio. Il silenzio, adesso vorrebbe solo quel silenzio. Lo assale una nostalgia indicibile. Tutto appare ormai indicibile. Tradito dalle parole, non gli resta che l’azione. Ma anche quell’azione sta per essere tradita dalle urla. Il silenzio. Soltanto un po’ di silenzio. Come quello di un dōjō, dove le sole urla provengono da dietro la griglia metallica di un casco di protezione per un’azione d’attacco di kendō. Di difesa. Urla di rispetto e forza. Di lealtà. I soli rumori sono quelli dei colpi degli shinai e del frusciare dei corpi. I silenzi dei corpi. I sospiri di piacere e attesa nel silenzio di due amanti. Con Morita, il suo giovane luogotenente, c’era questo silenzio, che dava a ogni sua parola la necessità di un gesto d’amore. Virile e delicato. Anche nei giochi rudi. Anche nel farsi male. Puro come la neve. Perverso e senza colpe. Due uomini nudi che si sussurrano frasi d’amore e di onore, di amore e morte, perché l’Assoluto si raggiunge solo nella morte. Una morte precoce e violenta. Nella quiete di un pomeriggio con il sole che filtra languido dalle serrande di un interno su due corpi fieri delle proprie forme, Morita, tarchiato e dai tratti del volto volgari e infantili come un ragazzo di vita pasoliniano di buona famiglia che ha studiato, ma con una sua ottusa e ingenua bellezza, sfiorava le spalle e i pettorali del suo maestro, separati dall’assenza di grasso e da una sottile striscia di peli neri, muscoli scolpiti dal sole di un campo di addestramento e dall’acciaio dei bilancieri e dei manubri sollevati in una palestra per soli uomini di Tōkyō, quegli uomini dai muscoli sviluppati ritratti in pose omoerotiche da Tamotsu Yatō nel libro “Giovane Samurai – Bodybuilders del Giappone”, in cui lo scrittore appariva in due scatti coperto solo del fundoshi, impugnava una katana, nelle fotografie surrealiste di Eikō Hosoe posa nudo adagiato con il viso e il petto, una spalla, un braccio, sul seno e la pancia di una donna con le calze bianche, lei sembra incinta, poi è un uomo a essere poggiato su di lui, anch’egli nudo e quasi nella stessa posizione del romanziere con la donna, sono circondati da fiori e foglie, poco più in là si intravedono le cosce e il pube ancora di una donna, Mishima guarda in macchina, il suo sguardo magnetico è protagonista di un primo piano con una rosa bianca davanti alla bocca, il servizio sarà per l’album fotografico “Calvario di Rose”, poi con Mishima c’è il grafico Tadanori Yokoo, sono fotografati da Kishin Shinoyama, Yokoo porta la vecchia divisa della scuola, Mishima è nudo, a parte il solito fundoshi bianco e una fascia dello stesso colore sulla fronte, hanno lo sguardo sprezzante, Mishima è armato di katana, in un’altra foto tiene con il braccio il collo dell’artista pop, come se la sua affilata arma gli avesse staccato la testa, fa da fondale la Nisshōki, la bandiera nazionale con il disco del sole, Shinoyama ritrae Mishima anche nella posa del San Sebastiano trafitto dalle frecce nell’immagine che divenne un’icona, il santo dipinto da Guido Reni riprodotto sulla pagina patinata di un volume di storia dell’arte custodito nella biblioteca di suo padre gli fece scoprire la masturbazione e la prima lattea eiaculazione, in “un’ebbrezza accecante”, l’espressione estatica rivolta al cielo del martirio dello scrittore fattosi santo masochista, poi andava giù sugli addominali disegnati dall’allenamento, Morita carezzava quella pancia solida come la corazza del kendō, anche qui una leggera peluria che dall’ombelico arrivava ai peli pubici, cosa rara per un giapponese, gli piaceva quella singolarità, carezze su un addome durissimo quanto il suo membro eretto: i sessi dei due uomini si toccano, anche quello di Morita è turgido, Morita afferra con decisione il pene di Mishima, si abbassa, se lo porta alla bocca. Sa che la mattina del 25 novembre quel sesso si indurirà per l’ultima volta. Il sapore dello sperma sulla sua lingua sarà l’ultimo ricordo, “il sapore della gloria è amaro”, prima che il membro di Mishima si ricopra di sangue, il sangue impregna il tessuto candido del fundoshi scoperto dai pantaloni sbottonati e calati alle ginocchia della divisa marrone dai riflessi giallo-bruni (lo stilista Tsukumo Igarashi aveva realizzato quell’uniforme, con i polsini, il colletto e le mostrine verdi, su indicazioni di Mishima che ne aveva disegnato l’emblema cucito sui berretti e impresso sui bottoni, un elmo da samurai con in basso una ruota e sopra una spada a più lame, Mishima che aveva disegnato quell’azione suicida), il liquido passa sotto, scorre come acqua limpida di una fontana in un parco d’autunno sul sesso rigido, sangue scuro e poi viscere vomitate dal ventre squarciato, gli sfinteri anali, riempiti di cotone, cederanno ma il sesso continuerà ad avere un ultimo sussulto di amore e fierezza, un’ultima erezione inconsapevole per il suo amante che porrà fine a quel breve e infinito momento tagliandogli la testa.
Nel silenzio di una stanza queste sono immagini tremende e sublimi. Mishima gliele illustra. Morita succhia. L’erotismo è penetrato da una sola lettera: c’è una consonante che si incunea, come il membro del suo maestro nel suo ano, nel sostantivo eroismo. I due uomini sono due eroi nel chiuso di una stanza verso il tramonto del loro erotismo e dell’erotismo dell’intero Giappone. Dell’eroismo di una nazione rappresentata da due amanti smarriti. Senza domani. Quando il sole dopo mezzogiorno entrerà nell’ufficio del comandante della caserma del Quartier Generale delle Forze di Autodifesa, i due uomini saranno due martiri. Martire come testimone: colui che documenta il declino di un’epoca e la sua insopprimibile voglia di resurrezione. Per l’Imperatore e per il Giappone ormai perduto. Per il loro amore impossibile. Lo sguardo di Morita sarà lo stesso di Reiko, la devota moglie del tenente Shinji Takeyama del racconto “Patriottismo” (la moglie dello scrittore, Yōko Sugiyama, non era interessata a lui, di certo non al punto da seguirlo fina a lì come il giovane soldato di un esercito inventato, forse lei aveva i suoi amanti, come suo marito; due figli e i doveri coniugali e la discendenza risolti, ognuno a rincorrere le proprie inclinazioni, i propri sogni, i propri bisogni): osserverà, Morita, il suo uomo darsi l’onorevole morte, sarà il testimone del suo sacrificio. Per poi seguirlo nel destino comune già scritto e provato dallo scrittore un’infinità di volte. Si può dire che tutta la sua opera non parlasse che di questo. Questo era il suo obiettivo. “Ho scoperto che la Via del samurai è la morte”, recitava lo “Hagakure”, il codice di etica samuraica risalente al periodo tra il 1710 e il 1716 quando il samurai Yamamoto Tsunetomo, ormai fattosi monaco buddhista con il nome di Yamamoto Jōchō, dettò al discepolo Tsuramoto Tashiro i suoi insegnamenti, e da Mishima riletto e commentato in un volume, “questo grande libro a cui torno di frequente e che ha guidato ogni azione della mia vita. È uno strano libro di impareggiabile moralità. Che libro energetico, rasserenante, che libro umano! La matrice da cui è nata la mia scrittura. Esso è l’eterna fonte sorgiva della mia vitalità. Mi sprona con la sua inesorabile frusta, con la sua voce imperiosa, con le sue feroci critiche, e anche in grazia della sua bellezza, che è la bellezza del ghiaccio”, scriveva nell’introduzione al libro. Lo “Hagakure”, vietato nel Giappone post-bellico e testo inscindibile dall’ideologia di morte dei figli del “vento divino”, i kamikaze, ogni pilota suicida ne teneva una copia sull’aereo, proseguiva dicendo: “Un dilemma di vita o di morte va risolto, semplicemente, scegliendo un’immediata morte. Non v’è nulla di complicato in ciò. Fatti animo e procedi”. Il tempo dei ripensamenti era terminato. Nel silenzio era giunto alla fine delle parole. Era pronto, dopo tante frasi, dopo tante simulazioni, Yukio Mishima, il più famoso scrittore giapponese al mondo, il tre volte dato favorito al Nobel per la letteratura, il controverso drammaturgo e saggista, il giornalista, il regista, l’attore, era pronto. Pronto e deciso come non mai.
“Il codice del samurai va cercato nella morte. Si mediti quotidianamente sulla sua ineluttabilità. Ogni giorno, quando nulla turba il nostro corpo e la nostra mente, dobbiamo immaginarci squarciati da frecce, fucili, lance e spade, travolti da onde impetuose, avvolti da fiamme in un immenso rogo, folgorati da una saetta, scossi da un terremoto che non lascia scampo, precipitati in un dirupo senza fine, agonizzanti per una malattia o pronti al suicidio per la morte del nostro Signore. E ogni giorno, immancabilmente, dobbiamo considerarci morti. È questa l’essenza del codice del samurai”.
C’è un breve film di mezz’ora in bianco e nero espressionista su uno scenario di teatro nô, muto con le didascalie e la musica dal “Tristano e Isotta” di Richard Wagner presa da una registrazione del ‘36, fu diretto e interpretato nel 1966 dallo stesso romanziere (aiutato alla regia da Masaki Dômoto, l’attrice Yoshiko Tsuruoka ricopre il ruolo di Reiko), si intitola “Patriottismo”, è tratto dall’omonimo racconto pubblicato nel 1961, rappresenta lo stesso doppio suicidio in seguito a “L’incidente del 26 febbraio 1936”, il fallito colpo di stato da parte di alcuni “giovani ufficiali” ultranazionalisti della Prima Divisione Gemma dell’Esercito Imperiale a favore della fazione Kōdōha (giovani ufficiali che gli parleranno dall’aldilà nel racconto “La Voce degli Spiriti Eroici”), ed è di uno stilizzato erotico realismo e per molti versi di una meditata terribile aderenza all’epilogo del 25 novembre 1970 da fare impressione (dopo la morte del marito la signora Mishima ne impedirà la diffusione fino all’ultimo dei suoi giorni). L’infinito che si annulla e si risolve in un solo momento, il primo e l’ultimo reale, non più in parole e pellicola: ora. “Sgorga il sangue, l’esistenza è distrutta, e grazie alla sensazione di annientamento essa viene per la prima volta concepita come un tutto, si colma la breccia assurda che esisteva tra il vedere e l’esistere… Questa è la morte”, aveva scritto in quel saggio sulla vitalità, il vigore e la morte intitolato “Sole e Acciaio”. Il 25 novembre del 1970 è la data scelta per dimostrare la fedeltà all’Imperatore, a un esercito ancora da venire e a loro stessi, poveri stupidi orgogliosi segreti amanti, è il giorno dell’insurrezione e del più bello degli atti, è il giorno della sublime scelta, il giorno del sorgere di un nuovo sole: è la data del colpo di stato.
Ogni cosa è stata calcolata. L’azione dovrà essere veloce e precisa. Mishima ha avvisato la stampa e la tv. «Non posso anticiparvi niente. Ma sarà un evento da non perdere». Aveva fatto consegnare alla rivista “Shinchō”, che lo stava pubblicando a puntate, l’ultimo capitolo del romanzo “La Decomposizione dell’Angelo”, il volume conclusivo – dove la decadenza della carne, il disfacimento, la putrefazione di qualsiasi illusione impregnano le pagine – della tetralogia “Il Mare della Fertilità”; terminato tre mesi prima ma che doveva riportare la data di quel giorno come ulteriore testimonianza della sua fine poetica. Non aspettare la decomposizione dell’angelo, che i fiori dai colori proibiti scolorino e appassiscano in un persistente fetore. Si parla di reincarnazione, in questi quattro libri. Nel secondo, “Cavalli in Fuga”, un personaggio, il campione di kendō e studente di estrema destra dell’università di Tōkyō Kokugakuin Isao Linuma, si toglierà la vita dopo aver visto sventato il suo piano di eliminare alcuni alti rappresentanti della politica e della finanza giapponesi, essere finito in carcere e una volta uscito aver assassinato uno degli industriali tra i suoi bersagli iniziali, con l’alba all’orizzonte sopra il mare nell’istante in cui la lama gli apre lo stomaco. Arriveranno su una Toyota Corona bianca. Hanno un appuntamento con il comandante della base, il Comandante in Capo dell’Armata Orientale, lo Jieitai, generale Kanetoshi Mashita. Mishima conosce i vertici delle Forze di Autodifesa, gli appoggi che aveva si stanno sgretolando, ma è ancora ben inserito, lo Jieitai aveva addestrato la Tatenokai (forse qualche alto ufficiale aveva in parte finanziato l’organizzazione paramilitare dello scrittore, anche se lui ha sempre smentito seccamente – si parlava di personalità molto vicine all’Imperatore Hirohito, che Mishima adorava come entità spirituale, un imperatore ideale simbolo dell’Assoluto che non c’era più, e disprezzava come uomo e politico proprio per aver rinunciato alla sua natura divina dichiarando la natura umana dell’imperatore). Può avere un appuntamento con chiunque. Anche solo per presentare i suoi uomini più valorosi ed esibire una spada di grande pregio come quella che ha con sé all’ingresso della caserma, una katana del 1600 forgiata dal maestro Seki No Magoroku. Il commando è composto da Yukio Mishima e quattro fedelissimi della Società degli Scudi: Hiroyasu Koga, detto Furu-Koga, Masayoshi Koga, soprannominato Chibi-Koga, Masahiro Ogawa, oltre a Masakatsu Morita. Solo Mishima e Morita dovranno morire, gli altri hanno il compito di tutelare l’incolumità del generale Mashita preso in ostaggio e di guidare il resto della Tatenokai al comando delle Forze di Autodifesa e alla presa del ministero da cui dipendono per il ripristino degli antichi ideali, primo tra tutti, la divinità dell’Imperatore. Il sacrificio di Mishima e del suo fedele discepolo servirà a risvegliare nel Jieitai il suo spirito autentico e spingerà il Governo a un nuovo emendamento della Costituzione che cancelli l’articolo 9 imposto dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale che obbliga il Giappone al disarmo permanente di tutte le “forze di terra, di mare, di aria e di qualsiasi altra forza potenzialmente militare” rinunciando così “alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali ”, e a una revisione del ruolo delle suddette Forze istituite nel 1954 di fatto subito depotenziate e umiliate e le ponga invece al centro della vita della Nazione, perché «lo Jieitai assuma il ruolo di nucleo su cui costruire un autentico Esercito Nazionale». Per quanto tempo avevano sperato di affiancare le Forze di Autodifesa nella repressione delle proteste degli studenti di estrema sinistra, Zengakuren, Zenkyōtō e chiunque fosse nella mischia, fianco a fianco con i militari nella lotta più cruenta, sparando con fucili e pistole, tirando colpi di spada e manganello, rompere arti e teste, farsi spaccare la faccia, corpo a corpo con i giovani incoscienti nemici, tra odore di sudore e adrenalina, il fumo dei lacrimogeni e slogan gridati, in un’esaltazione mai provata prima, mostrare sul campo di battaglia, le strade, le università, i ministeri, il loro ardimento e la necessità dell’esercito in certe faccende, e poi curarsi le ferite a vicenda, nettarsi il sangue l’uno con l’altro, tolta la mimetica, le protezioni, nudi e ancora eccitati dallo scontro, i membri eretti, venire improvvisamente sotto le docce, sui corpi dei propri compagni di combattimento affaticati e felici, ridere, festeggiare e abbracciarsi, i sessi a contatto, una mano stringe un gluteo ipertrofico, la mano separa le natiche, baciarsi, masturbarsi per scaricare la tensione residua, incularsi e assaporare lo sperma di un altro eroe simile a se stessi, con lo stesso proprio sapore di soddisfazione, sarebbe stato di una gioia incontenibile, ma non era mai accaduto nulla e la sua milizia privata restava inerte ad assistere gli interventi della polizia. La polizia che sedando la sommossa del 21 ottobre del 1969 aveva evidenziato una volta per tutte l’inutilità di ogni riforma costituzionale a favore dello Jieitai. L’esercito non serve più a niente.
«Stampatevi in testa questa data! 21 ottobre 1969. Fu il giorno in cui vennero tradite definitivamente le speranze delle Forze di Autodifesa che avevano atteso per anni l’emendamento della Costituzione, sempre eluso dai programmi politici». Non rimaneva che un’azione di forza eclatante. «Se in questo regime parlamentare non è più possibile emendare la Costituzione, la nascita di un movimento che riporti ordine e sicurezza è l’unica possibilità rimasta. Noi intendiamo offrire la vita per diventare l’avanguardia di questa mobilitazione, ci proponiamo di diventare una piccola pietra su cui fondare l’Esercito Nazionale. È dovere dell’esercito proteggere la Nazione, alla polizia spetta la difesa della struttura politica», aveva scritto nel proclama e ora lo urlava. E aveva urlato tra gli insulti e i fischi la denuncia della corruzione e degli interessi privati della politica che aveva fatto delle Forze di Autodifesa l’espressione della sua degenerazione morale. Un esercito che continua a portare la croce di una nazione sconfitta e mai vendicata. «Quando giunge il momento in cui le forze di polizia non riescono più a difendere la politica, la Nazione si sente protetta dall’azione delle forze armate e queste in tal modo riacquistano il loro valore originario. Il principio fondamentale dell’esercito consiste esclusivamente nel difendere la storia, la cultura e le tradizioni del Giappone fondate sull’Imperatore».
«C’hai stancato! Quando la finisci?».
«Se siete uomini, come può il vostro orgoglio virile tollerare tutto questo? Quando, tollerato l’intollerabile, viene oltrepassata l’ultima linea da difendere, un uomo, un guerriero deve ergersi risolutamente. Siamo rimasti ansiosamente in ascolto. Ma dalle Forze di Autodifesa non si è levata nessuna voce virile contro l’ordine umiliante di accettare e difendere questa Costituzione che di fatto ne nega l’esistenza».
Continuano a levarsi gli urli e le risa ai quali si aggiunge la sopravvenuta noia di molti: è un’esibizione inutile. Quando finirà?
«Si è forse corrotto irrimediabilmente lo spirito dello Jieitai, che si è lasciato sedurre dalle lusinghe dei politici e percorre un sentiero che lo conduce all’autoinganno e all’autoprofanazione più profondi? Dov’è finito lo spirito dei samurai? Qual è il significato di questo esercito diventato ormai un enorme arsenale privo di anima? Dove vuole andare?».
Porsi così, loro, questi fanatici giovani uomini, a difesa della Nazione minacciata giorno dopo giorno dalle forze comuniste radicali (malgrado Mishima avesse in gran simpatia quegli infervorati studenti: «Sarei stato pronto a mettermi dalla vostra parte, dissi al comitato di lotta Zenkyōtō, e a occupare con voi l’aula magna Yasuda, per scuotere questo Paese. Se solo voi aveste gridato “Viva l’Imperatore!”. Ma non lo avete fatto e non lo farete mai, lo so»), non rimaneva che questo. Gli scontri tra polizia e studenti comunisti si fanno sempre più violenti. Il ‘68 giapponese e i suoi strascichi. Barricate, occupazioni interminabili, facoltà in fiamme, molotov, nella nuova sinistra si fa spazio la Sekigunha, la Fazione dell’Armata Rossa che tenta un assalto alla residenza del Primo Ministro. Oltre cinquanta dei suoi membri vengono arrestati dalla polizia. Il 31 marzo del 1970 dirotta il volo 351 Tōkyō-Fukuoka della Japan Airlines. I nove dirottatori, armati di katane e bombe a mano, rilasciano i centoventidue passeggeri all’aeroporto Gimpo di Seul e i sette componenti del personale di bordo del Boeing 727 all’aeroporto militare Mirim di Pyongyang nella Corea del Nord, che accoglie la richiesta di asilo politico dei terroristi. La polizia continua a fare arresti. Entro la fine del 1970 il gruppo vede in cella oltre duecento dei suoi membri. I superstiti formeranno le più agguerrite organizzazioni terroristiche Esercito Rosso Unito, il Rengō Sekigun, e la Nihon Sekigun, l’Armata Rossa Giapponese. Mentre il Tatenokai continua a restare a guardare. Il governo è privo di dignità. Reprime, effettua arresti e cerca la normalizzazione. La Nazione è allo sbando. Senza identità. Senza Forze Armate. Il Partito Liberaldemocratico e il Partito Comunista fanno accordi tra di loro e si spartiscono il potere. «Per me il Partito Comunista e quello Liberaldemocratico sono la stessa cosa. Sono il simbolo della medesima ipocrisia». L’alzata di testa nazionalista è ormai un sogno irrealizzabile. Il Paese sarà in mano all’eversione rossa che vuole abbattere la monarchia, o resterà tutto uguale, asserviti agli americani e con un Imperatore che è come se non ci fosse, questo si dibatte all’interno della Società degli Scudi, che non protegge nessuno. Gli scudi sono di cartone. Che scemenze le parate con la divisa del sarto del Generale de Gaulle e la bandiera con il kabuto rosso su sfondo bianco. «La Tatenokai è un esercito pronto a intervenire in ogni momento. È impossibile prevedere quando entrerà in azione. Forse mai. Forse domani». Nessuno li prende sul serio. Quello della Tatenokai è un piano destinato al fallimento. Per un paradossale disguido, il resto della Società degli Scudi, circa un centinaio di ragazzi reclutati due anni prima nell’organizzazione studentesca di estrema destra riconducibile al foglio universitario “Ronso Journal”, non è stato avvisato dell’azione. O meglio, la richiesta di presentarsi al comando delle Forze di Autodifesa e di unirsi ai militari della caserma, come da condizioni di Mishima, era stata inoltrata, ma veniva da un delegato dello Jieitai che non fu creduto dai ragazzi in divisa marrone dai riflessi giallo-bruni convocati senza alcuna direttiva in un edificio dell’Armata situato a circa un chilometro di distanza dalla base di Ichigaya. Idioti. C’era da ridere. E ridono e schiamazzano i soldati radunati nel cortile per volere di Mishima, continuano a ridere e ad annoiarsi. Lo show è durato anche troppo. Gli elicotteri non la smettono di sorvolare la zona. Gli altoparlanti avevano ordinato l’adunata ed eccoli ancora lì ad assistere alle battute finali di quello spettacolo. L’annuncio diffuso dagli altoparlanti aveva dato inizio alla confusione sotto il balcone. Nessun membro della Tatenokai ha potuto convincere i militari a seguire il proclama del loro comandante, nessuno di loro può scuotere questo reggimento debosciato e ridanciano, nessuno di loro può guidare l’assalto alla caserma e persuadere gli alti ufficiali a unirsi alla ribellione: perché lì non c’è nessuno dei fedeli di Yukio Mishima. È un golpe da farsa perpetrato da un esercito da operetta armato solo di spade.
«Se entro due anni lo Jieitai non riacquisterà la propria autonomia, rimarrà per sempre, come afferma la sinistra, una congrega di mercenari al soldo dell’America. Abbiamo aspettato quattro anni. L’ultimo anno con particolare ansia. Non possiamo attendere ancora! Non c’è più motivo di aspettare qualcuno che continua a rinnegare se stesso. Tuttavia attenderemo altri trenta minuti. Gli ultimi trenta minuti! Insorgeremo insieme e insieme moriremo per la giusta causa» seguita a urlare Mishima ripetendo a memoria il suo gekibun, il proclama. Alla sua destra, sulla balaustra del balcone, sono stati fatti calare da Morita e Ogawa due lunghi rotoli di tessuto bianco con scritte le condizioni per il rilascio del generale Mashita e le parti principali del proclama. Su dei volantini c’è stampato il discorso con i punti di rivendicazione: punto per punto. Mishima li ha lanciati alla folla. Pochi li hanno raccolti, nessuno li legge. Ridono, denigrano, sbeffeggiano e non leggono.
«Ammazzati e falla finita! Non ne possiamo più!».
Il fallimento è totale. I quattro giovani del commando sono sconvolti e sconfitti, non immaginavano che sarebbe finita così. Tutto è stato sbagliato. La situazione è tragica e comica, patetica e sublime. L’eroe che si dimostra tale solo nel ridicolo e nella sconfitta è lì, nella stanza 201. Sono grotteschi e meravigliosi. Il gesto esemplare per la riscossa di Mishima si trasforma in un suicidio per la vergogna e per tutelare l’onore rimasto. Per la bellezza.
I superstiti, condotti dalla polizia fuori dalla caserma circondati da macchine fotografiche, telecamere, giornalisti e militari che continuano con quella confusione, saranno condannati a quattro anni di prigione per l’occupazione della base e lesioni personali. Usciranno prima del tempo per buona condotta. Hiroyasu Koga non verrà neanche incriminato per aver fatto da kaishakunin nel duplice seppuku – l’ultimo kaishakunin del Giappone. Le spese legali saranno sostenute da Mishima con un lascito di denaro a loro favore previsto nel caso le cose si fossero messe male. In tribunale, i ragazzi porteranno avanti le istanze e l’ideologia della Tatenokai. Senza più troppa convinzione. Tutto qui. La Società degli Scudi sarà ufficialmente sciolta il 28 febbraio 1971. La questione verrà liquidata come “L’incidente Mishima”. Uno dei tanti della martoriata storia di quella nazione. Uno “strano caso” che il Giappone vuole rimuovere dalla sua memoria.
«Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! Avete così cara la vita da lasciare perire lo spirito? Che esercito è mai questo che non riconosce valore più nobile della vita? Ora testimonieremo a tutti voi l’esistenza di un valore più alto dell’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! Il Giappone, il Paese della nostra amata storia e delle nostre tradizioni. Il Giappone! Non c’è nessuno tra voi che desideri morire per scagliarsi contro la Costituzione che ha disossato la nostra Patria? Se c’è, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso questa azione nell’ardente speranza che voi tutti, a cui è stato dato in dono uno spirito purissimo, possiate tornare a essere veri uomini, veri samurai!». Mishima aveva concluso la sua arringa. Nessuno lo aveva ascoltato. Gli “spiriti purissimi” ridono e lanciano a quella bizzarra figurina che muove la bocca e si agita su un balcone gli insulti rimasti. Figuriamoci se hanno voglia di seguirlo. Hanno la vita comoda e i ventri molli pieni di hot dog, gonfi di bibite gassate e la testa rincretinita da film americani e televisione. Lui li guarda affannato.
«E vattene! Te ne vuoi andare!» gli gridano. Fischiano. «Vattene, non fai neanche più ridere».
Sì, è il momento di voltargli le spalle e rientrare nella stanza 201.
«Lunga vita all’Imperatore!» aggiunge Mishima urlando per tre volte «Tennō Heika banzai!», alla quarta si unisce Morita, che lo aveva seguito in disparte per tutto il comizio. «Tennō Heika banzai!» urla anche lui. Mishima e Morita rientrano. “Se uno muore dopo aver fallito, la sua è morte da fanatico, vana morte. Non però disonorevole. Tale morte è, in effetti, la Via del samurai”. Mishima si sfila i guanti e gli stivali e si inginocchia a terra. Si sbottona la giubba. Se la toglie. Rimane a torso nudo. Il suo corpo nella tragedia è ancora più bello e traboccante di vitalità. Si apre i calzoni. Prende lo yoroidōshi.
«No, non lo faccia!», urla il Generale Mashita, legato alla sedia dietro la sua scrivania. «La imploro, non c’è motivo».
Mishima non lo ascolta: è ormai chiuso nella sua azione. L’affilato pugnale risplende al sole autunnale che entra dal vetro della finestra ora richiusa per avere un po’ di silenzio, sarebbe bastato solo un po’ di silenzio, e lo poggia al lato dello stomaco, più teso del solito. La scena è quella di “Patriottismo”. Non c’è molto da aggiungere. Il rito mortale si chiama seppuku (lo sventramento dei samurai). Morita deve porre fine al suo supplizio con il kaishaku, il taglio della testa. Ma è spaventato e inesperto, in fondo non è un vero militare, nessuno di loro lo è, neanche Mishima, che fu riformato alla visita di leva e mandato alla Mobilitazione per il Lavoro e non poté morire in guerra come desiderava. Il “kamikaze per la bellezza” che agonizza con gli intestini scivolati fuori dal ventre fa segno al suo amore in lacrime di calare la katana. La spada lo colpisce alla spalla, gli apre uno squarcio, poi va a vuoto, la schiena, un altro taglio, infine prende il collo dello scrittore, non riesce a mozzarlo né a tagliare la testa senza staccarla uccidendolo secondo il tradizionale rituale. Il capo penzola appena come quello di un manichino dei grandi magazzini di Tōkyō spogliato e rotto, come quello di una marionetta del bunraku sfasciata. Interviene Hiroyasu Koga, l’unico vero esperto, oltre a Mishima, di kendō e di iaidō, il solo che sa maneggiare con abilità e freddezza una spada, e pone fine all’agonia del suo comandante staccandogli la testa di netto. “Quando si è presa la decisione di uccidere una persona, anche se sarà assai difficile riuscire seguendo un percorso rettilineo, indugiare in lunghi accerchiamenti non avrà alcuna efficacia. La regola del samurai impone l’immediatezza. Dunque è meglio attaccare frontalmente”.
Mishima, prima che Morita sferrasse il suo colpo della pietà e della dignità, gli aveva fatto segno di non seguirlo – almeno così pareva dall’espressione del viso trasformato dal dolore. Di non seguirlo più. Risparmia la tua vita, mio dolce e piccolo amico. Per ricordare. Ricorda l’odore dei nostri giorni d’amore e non questo tanfo di intestini, sangue, paura, coraggio, eroismo, onore e disperazione. Ricorda il profumo dei mandorli in fiore fuori dalla finestra. Non so se ho mai creduto fino in fondo a questa faccenda – forse a forza di scriverla vi ho creduto. Ho creduto nella morte. Nell’amore che si sarebbe sublimato solo nella morte. Ho creduto in te, in noi. Nel nostro Assoluto che si insinuava nei gesti d’amore, che sarebbe sbocciato in un atto di morte comune tanto bramato. Certo, l’ho pensato davvero, l’ho detto, nei nostri corpi avvinghiati, l’ho sussurrato, ma tu adesso non morire. Non morire in questa che ora si rivela una follia e io non lo so, non lo so più.
“Quando penso ai miei ultimi venticinque anni mi meraviglio di quanto siano stati vuoti. Non posso dire di avere realmente vissuto. Sono soltanto passato oltre turandomi il naso. In questi venticinque anni ho perso una ad una tutte le mie speranze, e ora che mi sembra di scorgere la fine del mio viaggio, sono stupito dall’immenso sperpero di energie che ho dedicato a speranze del tutto vuote e volgari”, aveva scritto nelle pagine conclusive delle “Lezioni Spirituali per Giovani Samurai”.
Ricorda, mio tenero e forte amico, mio uomo e ragazzo, l’odore dei nostri corpi umidi dopo il bagno. Nudi e bellissimi. Della mia bocca calda sul tuo sesso turgido e voglioso. Tra venti anni tu avrai l’età che ho io ora, sarai al massimo della forma fisica grazie al sole e all’acciaio, ai miei insegnamenti che tu non dimenticherai, ma io sarei un vecchio privo della forza e della bellezza di adesso, non ho voluto diventare come Kawabata, non mi importa niente del Nobel, non voglio che tu assista al mio declino fisico, la bellezza dura il tempo del battito d’ali di una farfalla, e presto le mie ali non avrebbero battuto più. Non farlo. Ti prego, mio delizioso amico. Tutto è perduto, e tu non devi farlo.
Ma Morita, il cui nome, Masakatsu Morita, vuol dire Sempre Vittorioso, ripete, goffamente, incapace, il rito del suo maestro – portato a conclusione di nuovo con l’aiuto di Furu-Koga: perché se l’erano giurati in un patto di sangue durante uno di quei pomeriggi di estasi, lo shinjū, il suicidio di due amanti maledetti che adesso si doveva compiere, e per il disonore di non essere stato capace di porre fine alle sofferenze del suo uomo; per continuare a stare con lui in un luogo che non sa dove sia. Ma sa che c’è. C’è di sicuro. «Quel giorno saremo lì, tu e io».
Lo sperma di Mishima scende nella gola di Morita. Poi è quello di Morita a dissetare il suo maestro. Alcune gocce gli colano dalle labbra sul mento. Su quella sottile riga di peli sul torace. C’è silenzio. Il sole è calato. Ci sono i loro sospiri del piacere che va sopendosi. Il respiro del ricordo che ancora è nei corpi. E c’è silenzio.
Le ultime parole di Mishima, rientrato dal balcone esausto e amareggiato, rivolte ai suoi giovani adepti, sono state: «Non hanno sentito niente», disse accennando un contratto sorriso di sconforto. «Penso che non abbiano sentito niente».
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre.
Yukio Mishima. 25 novembre 1970”.
“La brezza che attraversa il campo sa del mio cuore tenuto nascosto fino a oggi.
Masakatsu Morita. 25 novembre 1970”.
L’ha ribloggato su Sergio Gilles Lacavalla.
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