Insanguinati e seminudi a Bologna #3: Scarto di Dio

Pianeti

Giulfin, Pianeti

Cronaca Verde a Bologna, La Confraternita dell’Uva, venerdì 3 novembre, ogni mercoledì sul blog, rigide istruzioni, terzo episodio: lo Scarto di Dio Francesco Quaranta versione lunga non letta dal vivo (perché troppo lunga), illustrazione di Giulfin. Buona giornata di odio a/verso tutti.

La porta della capanna è fatta di cartone e il tetto di lamiera cedevole, del tutto inutili contro le notti nel bosco della collina abruzzese. Il freddo infradicia le ossa tanto che al mattino l’uomo fatica a stirarsi. Si sente uno straccio umido di nervi a fior di pelle. Sa che non durerà un’altra settimana in queste condizioni, mangiando licheni e bevendo le proprie lacrime, anche se l’alternativa è consegnarsi alle bande armate che lo braccano ovunque. Ormai non ha nulla da perdere ed è terrorizzato dall’inverno incombente. Allora corre il rischio di spingersi fino all’autostrada. La segue con prudenza, a distanza, finché non incontra un autogrill di quelli enormi a due piani fatti per ospitare centinaia di persone al giorno, nel bollore dell’estate, e poi solo desolazione per il resto dell’anno. Scende circospetto fino a un’entrata di servizio e sguscia nel bagno, attento che nessuno lo noti.

Si osserva nello specchio sotto il neon smorto: distrutto, annichilito dagli stenti e dalle scomodità, con i vestiti strappati, le scarpe sfondate e pure il cellulare scarico. Sono le tre di notte e la disperazione lo incoraggia quel che basta a rubacchiare qualcosa dai piani superiori: cibo, vestiti, un kit da barba. Quando il Presidente della Repubblica in persona è comparso a reti unificate chiedendogli di arrendersi, all’uomo è sembrato chiaro che la situazione fosse ormai irreparabile. Fu per salvare la pelle che abbandonò la macchina sulla Roma-L’Aquila per infrattarsi nei boschi.

«Invito tutti a mentenere la calma» ha detto il Presidente, «Fabio Macchia è un’anomalia di cui si occuperanno le autorità competenti. L’esercito è già al lavoro e non c’è nulla da temere».
Sono trascorse due settimane.

Non è facile stabilire il momento preciso in cui ebbe inizio l’ondata d’odio nei confronti di Fabio Macchia. Fu davvero sufficiente che qualcuno mettesse in dubbio la legittimità della sua sopravvivenza al tragico incidente ferroviario sul passaggio a livello fuori Frascati per mettere in moto l’ingranaggio deforme del karma? Una volta ripresosi dall’evento, Fabio si accorse di come qualcosa stesse lentamente cambiando attorno a lui. Piccoli dettagli fuori posto, insignificanti all’inizio, poi via via sempre più preoccupanti.

Cominciò infatti a notare come nel traffico gli altri autisti sembrassero tutti scimmioni irritabili, più del solito, pronti a dare in escandescenze, soprattutto nei suoi confronti; e poi come in coda al banco dei salumi, nonostante il numeretto, lui venisse sistematicamente saltato e poi incolpato della confusione, nel caso in cui recriminasse.

Non era mai stato un attaccabrighe, eppure gli capitava sempre più spesso di trovarsi coinvolto in piccoli battibecchi, al bar, al semaforo, con la suocera, in palestra, al parco col cane, in chiesa, insomma più o meno ovunque.

Eppure cominciò a porsi domande solo quando un ramo di tiglio del peso di circa trenta chili precipitò ai suoi piedi, facendogli sfiorare la morte per meno di dieci centimetri. L’addetto del comune, tutto sudato sulla piccola gru sospesa sopra di lui, si scusò in una maniera che suonò del tutto insincera.

Un semino di paranoia prese a germogliare in Fabio. Ora vedeva in maniera diversa il comportamento della figlia ribelle, le cui crisi adolescenziali non bastavano a giustificare come mai gli lanciasse addosso le sue Vans ogni qual volta lo incrociasse per i corridoi di casa. E poi c’era la moglie che, seppur ancora abbastanza affettuosa con lui, metteva sempre più innecessaria veemenza nei contatti intimi. E denti, un sacco di denti.

Fu più o meno in quel periodo che il numero di amicizie sul profilo Facebook di Fabio Macchia prese a calare drasticamente. Tre giorni dopo, per un lievissimo ritardo dovuto a un tamponamento non del tutto involontario da parte di un vecchietto sulla Tuscolana, venne licenziato in tronco e quasi automaticamente designato come persona non gradita all’interno del suo ufficio. Tuttavia, fu solo una volta recatosi dal sindacato, per far valere i propri diritti, che ricevette la prima, letterale pedata nel culo.

Aveva visto la morte in faccia, in quel nefasto giorno del disastro sul binario che aveva coinvolto un regionale e almeno una decina di veicoli fermi alla sbarra del passaggio a livello. Era stato l’unico superstite. In un mondo giusto, la si sarebbe chiamata benedizione. Fabio si era illuso che la sua fetta di disgrazie si fosse esaurita al tramonto di quel terribile giorno e invece adesso doveva stare attento a non incappare in qualcuno intenzionato a pestarlo nella corsia dei surgelati, per dire. Era come se con il miracolo di essere rimasto indenne nell’incidente avesse fatto un grandissimo torto al mondo. Un mondo dapprima passivo-aggressivo che andava man mano a tramutarsi in uno scenario psicotico.

Fino a che, appunto, come in risposta a una legge magnetica irragionevole che obbligava tutti a respingerlo, la moglie decise di non aprirgli più la porta di casa.

Incorniciata dalla finestra del piano di sopra, strillava che quell’uomo le aveva estorto gli anni migliori della sua vita, era sciupata, urlava, rovinata, segnata per sempre, marchiata a vita. Dipingeva per il vicinato i momenti terribili del loro matrimonio, non lesinava nell’inventarsi specifiche torture: l’odio, quando deriva dall’amore, può essere molto creativo. Lanciava nel frattempo tutti gli averi di Fabio giù nel giardino. L’uomo avrebbe anche voluto raccogliere qualcosa, se solo la donna, chissà come, chissà per quale scopo, non facesse in modo di incendiare metodicamente ogni singolo oggetto prima di involarlo fuori dalla finestra. Quella pioggia di meteoriti e lapilli raccontava l’apocalisse della vita matrimoniale di Fabio. L’uomo afferrò al volo la sua giacca migliore in preda alle fiamme, senza accorgersene diede fuoco alla camicia che indossava e si trovò costretto a gettarsi a terra rotolandosi sull’erba come un cane malato di rabbia.

Rabbia che finalmente lo scosse dalla sua mitezza abituale e si scatenò in una sacrosanta crisi isterica. Sbraitò un discorso sorprendentemente coerente sul fatto che la sua fosse una famiglia di ingrati e che il mondo intero fosse completamente impazzito, ammattito. Pretendeva che qualcuno gli desse una spiegazione, un cazzo di povero cristo come lui, bistrattato e disprezzato ingiustamente, che qualcuno gli dicesse almeno il perché. Si sarebbe messo il cuore in pace.

Si spogliò dei vestiti bruciacchiati e lerci d’erba. Ustionato e ferito dai detriti che gli piovevano addosso (ormai la moglie aveva svuotato armadi e cassetti e s’era ridotta a lanciare direttamente piatti e stoviglie, nonché un intero secchio del vetro colmo di vuoti di bottiglia) Fabio prese a calci la porta d’ingresso e chissà cosa avrebbe fatto una volta dentro, chissà cosa sarebbe successo se solo questa avesse ceduto. Cosa che non accadde perché la blindata non si mosse di un millimetro e l’uomo si vide costretto ad allontanarsi zoppicando, in mutande, verso l’automobile, nell’udire in lontananza le sirene della polizia.

Di questo evento, la cronaca locale scrisse in maniera distorta e parziale. La notizia, che per la sua bizzarria venne ripresa dalle testate nazionali, portò il nome di Fabio Macchia all’attenzione del grande pubblico. Il famigerato folle di Portuense. Il giorno dopo, la figlia di Fabio smise di andare a scuola per la vergogna.

L’uomo dormì in auto per qualche giorno, ma le notizie che gli giungevano dalla radio non erano confortanti. Erano infatti nati diversi gruppi di aperto antagonismo nei suoi confronti che in breve si organizzarono in veri e propri comitati i quali chiedevano la sua cacciata dal paese, dalla regione, macché dalla nazione intera. Prendetevelo in casa voialtri! E però anche dall’estero le risposte erano negative.

Su quest’onda parve normale che diverse procure aprissero fascicoli d’indagine sul signor Macchia accampando ipotesi di reato tra le più fantasiose, pur di incastrarlo in qualche modo. Ma non esistevano prove d’alcun tipo a carico di Fabio Macchia e questo frustrava non poco i nobili rappresentanti delle forze dell’ordine che presero a fantasticare su un meritato smanganellamento selvaggio, una volta messegli le mani addosso. Si stringevano sottobanco patti con le cosche mafiose pur di setacciare le periferie e farlo saltare fuori. Per le strade i mendicanti rifiutavano i suoi soldi e i bambini piangevano al suo passaggio, e ovunque si scrivevano editoriali e canzoni su quanto lui fosse spregevole.
E davvero, ma davvero credetemi, senza apparente motivo.

Odiato peggio di uno scarafaggio malarico, Fabio si rifugiò tra ponti e capannoni dimessi, chiuso nell’abitacolo dell’auto, braccato da squadriglie di volontari armati con tanto di segugi. Fabio Macchia non aveva idea di cosa gli avrebbero fatto se l’avessero acciuffato. Non aveva gli strumenti per reagire a quell’assurdità. E allora cominciò a sentirsi in colpa. Fuggì ancora più lontano, prima l’autostrada e poi i boschi per evitare gli elicotteri. Trovato campo per il 4G dopo ore di vagabondaggio, lanciò richieste di perdono e giustificazioni su Twitter: mai il popolo del web fu più unito nella sua condanna. Je ne suis pas Fabio.

L’uomo si era così rassegnato a essere rifiutato dalla civiltà, aveva provato a dormire di giorno per spostarsi la notte tra la boscaglia. Tuttavia procurarsi il cibo alla luce delle stelle era pressoché impossibile. E dopotutto gli animali di cui si sarebbe potuto nutrire non mostravano particolare ostilità nei suoi confronti, e Fabio soffriva più il bisogno di essere benvoluto che quello di uno stomaco pieno.

Adesso, davanti allo specchio di quel gabinetto d’autogrill, ripensa a quei giorni difficili sciacquandosi la faccia. Mangiata la roba sgraffignata di sopra, trova pian piano una nuova lucidità. È giunto a maledire l’istante in cui il suo cuore ha ripreso a battere dopo essersi arrestato per due minuti circa.

La notte scorsa, riparatosi nella capanna di fortuna, ha sognato il paradiso che gli è stato negato. Una luce calda lo coccolava, un vento profumato lo massaggiava ed egli si sentiva sollevare leggero verso una schiera di figure angeliche, leggiadre e sorridenti che cantavano e declinavano la beatitudine stessa. Storcevano il naso non appena lo notavano. Il cielo tuonava e lui si svegliava di soprassalto. Rifiutato ancora una volta.

Nel frattempo, la mania anti-Fabio pare ormai una lucida e razionale componente della vita umana, una moda sana come i borselli a tracolla e il reggeton, insomma una piccola follia tollerabile che olia tutto il resto. Ci si rende perfettamente conto dell’assurdità di odiare un singolo essere umano, senza fondamenti concreti da afferrare, senza possibilità di spiegarlo linearmente, come il più passionale degli amori. Quando si tratta di Fabio Macchia, due più due fa cinque anche per Stephen Hawking.

Sulle prime pagine, il presidente Trump si dichiara disposto a bombardare l’intera regione pur di colpire l’uomo più ricercato del pianeta; mentre il Papa, invitando alla moderazione e all’amore per tutte le creature viventi, si limita a individuare in Fabio Macchia l’Anticristo.

Forse per vanità individuale, che sussiste anche nel peggiore dei contesti, forse per vera illuminazione esistenziale, o abbaglio che dir si voglia, Fabio capisce di essere necessario. E smette di autocommiserarsi.
Nel cesso di quell’autogrill gli pare finalmente di vedere qualcosa, di capirci di più. Prende un pennarello e sulla porta interna di un gabinetto scrive:

Fabio Macchia, verme infame miserabile, sputo del diavolo, scarto di Dio, vergogna dell’umanità, martire del nulla, germe di tutte le colpe senza perdono, vivi questa vita nell’odio e poi ancora mille altrettanto pessime, muori di cento e passa morti, muori, muori, muori di tutte le nostre morti, continua a morire per lasciarci vivere in pace.

Al posto di un “amen”, traccia lì sotto il proprio numero di telefono. Spacca il cellulare in due e lo sciacqua giù nella turca. In meno di mezz’ora si fa la barba e si accorcia i capelli, un po’ trasandato ma presentabile. Prende un paio di occhiali e indossa i vestiti alla moda sgraffignati di sopra. Alle prime persone che incrocia dice di chiamarsi Antonio Chiari.
Tornato in città si unisce ben presto alla caccia a quel bastardo di Fabio Macchia.

Francesco Quaranta

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