UN KARAOKE DEVASTANTE E ALTRE COSE VERDI CHE NON FARÒ MAI PIÙ #3: LA PRIMA FESTA DEMOCRATICA

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PrimituS, Il ratto di Polissena (olio,acrilico e pennarello su tavola)

La prima festa democratica è l’ultimo episodio di Un karaoke devastante e altre cose verdi che non farò mai più, il ciclo di racconti a tema che Giovanna Giordano, Martina Marasco e Jolanda Di Virgilio hanno scritto per Verde, mentre noi occupavamo Narrandom guidati dal caso (buon ultimo Pierluca D’Antuono, che oggi spegne le luci). 
La vita di Jolanda è un pendolo che oscilla tra la nostalgia di casa e il terrore di tornarci, la scelta di essere vegetariana e la passione per il cibo spazzatura, l’amore per Kieslowskij e l’esaltazione per la nuova stagione di The Lady. Nell’attesa che le venga diagnosticato il disturbo bipolare, legge e guarda serie tv.
Illustrazione di
PrimituS (Il ratto di Polissena).

Era volato sul mio banco, tra la terza e la quarta ora, un cartoncino fucsia e dorato che m’implorava di non mancare.
Alzai lo sguardo confusa, ancora assonnata, nonostante la mattina fosse già iniziata da un po’.
Una firma.
Ilaria.
Cercai ulteriori dettagli.
Sarebbe stato martedì. Martedì 14 marzo.
Grandi promesse: balli di gruppo, animazione, karaoke e tanto altro!
Avevo deglutito tre volte di fila a causa dell’ipersalivazione. Euforia. Anche sul banco accanto lo stesso invito. E su quelli dietro. E su quelli avanti.
Una festa per tutta la classe. Niente divisioni maschi femmine. Niente gruppetti.
Festa democratica. La prima.

*

Quando arrivai Ilaria stringeva tra le mani il microfono del Canta Tu e scandiva il tempo flettendo le ginocchia.
Il Canta Tu. Quanto lo desideravo. L’avevo visto soltanto in televisione, alla pubblicità. L’avevo chiesto pure per Natale, ma i miei erano stati chiari: costa troppo.
L’animatrice mi corse incontro. Ce l’hai fatta, finalmente, come ti chiami? Jolanda, le sussurrai. Dai, Jolanda, stiamo facendo l’ultima sfida al karaoke, vieni! Mi afferrò il polso e mi trascinò verso il gruppetto di ragazze e ragazzi (soltanto due, a essere precisi) che circondavano Ilaria superstar.

La salutai con la mano e lei ricambiò frustando all’aria la sua chioma di capelli biondi. Non poteva certo smettere di cantare per me. Era la sfida finale, dopotutto.
Ma che hai pianto?, domandò Francesco per nulla preoccupato, anzi quasi infastidito dai miei occhi rossi.
No, tagliai in fretta. E invece sì che avevo pianto. Tre ore e mezza di ritardo. La festa sarebbe finita entro poco tempo e io non sarei riuscita a cantare nemmeno una canzone. Tutta colpa di mia madre che non poteva guidare. O meglio, avrebbe potuto: la patente ce l’aveva, ma aveva troppa paura di guidare. Solo per le emergenze, ripeteva sempre. Solo per le emergenze. Ma questa è un’emergenza, le strillavo piangendo, non posso mancare! Niente. Avevo dovuto aspettare che il vicino di casa, l’ingegner Martesi, tanto buono, tanto caro, finisse di lavorare per accompagnarmi. E ringrazia, mi raccomando.

Quando Ilaria finì di cantare La solitudine, tutti battemmo le mani, incitati dall’animatrice che gridava brava, bravissima, e adesso a chi tocca?
Mi alzai sotto le note di quel richiamo, ma Ilaria mi trattenne per le spalle: no, tu non canti, sei arrivata troppo tardi.
Ti ho portato un regalo, cercai di contrattare. Non me ne frega niente, per me te ne puoi pure andare.

Mi spinsi fuori dal ristorante pizzeria, sulla veranda che dava sul mare. Una disperazione bollente premeva per uscire dal mio corpo.
Faceva freddo.
Andavano di moda gonne scozzesi e scaldamuscoli di lana, e io ero riuscita a procacciarmi entrambi per quell’imperdibile occasione. Avevo abbandonato i negozi da bambini e avevo acquistato per la prima volta in un negozietto per ragazze (dimostrazione che le iniezioni alimentari che subivo ogni sera stavano facendo finalmente effetto). Ma non era servito a niente.

Jolanda, Jolanda. Gridavano in fondo, dalla spiaggia.
Che fastidio, il mio nome.
Erano voci maschili, per la maggior parte. Qualche risatina di femmina, forse una o due.
Non riuscivo a vedere bene, ma la curiosità comandava ai miei piedi di spingermi verso la riva, verso quei richiami da sirena.

Erano stesi su un unico lettino Matteo, Alessio e Arianna. Se la ridevano un sacco. Quando sei arrivata? mi chiese Arianna battendo la mano sul piccolo spazio rimasto ancora libero. Poco fa, mi accomodai proprio sul bordo, in bilico. Arianna si gettò sulle mie cosce, acciambellandosi come un gattino. Non ti sei persa niente, è una festa del cazzo. Gli altri mugugnarono qualche sillaba sconnessa, sembravano d’accordo con lei. Stanno ancora cantando al karaoke? Annuii, malinconica. Sfigati. Perché non sei con loro? azzardò Matteo, con il quale probabilmente in due anni di scuola media non avevo scambiato nemmeno una parola. Mi hanno cacciata. Cosa?! in coro. Sono arrivata tardi. I loro occhi si spalancarono. Nel buio sembrava stessero per rotolare fuori dalle orbite. Credo che Ilaria se la sia presa, tentai di giustificarla. Con te?! domandò ridendo Arianna, come può prendersela con te? Jolanda l’angelo, Jolanda piccolina, Jolanda così silenziosa, così tenera, così ingenua. Certo che è proprio una stronza, Matteo scuoteva la testa mentre estraeva dalla tasca una fiala piccola e trasparente. Arianna mi prese dal mento e mi lasciò un bacio sulla guancia gelata. Non fare quella faccia, sillabò ieratica, ora sei con noi.

*

Pop.
Cos’è?

Aria, ridevano. Se fossi stata più sveglia avrei risposto con una battuta sagace, cercando di indagare meglio, ma non ero né sveglia né sagace, quindi rimasi in silenzio. Imitai i loro comportamenti: avvicinai il mio naso a quella boccetta vuota e inalai. Di più, mi incitavano, di più.

Cos’è?
Aria.

Il cuore aveva iniziato a battere più veloce, lo sentivo vibrare nella cassa toracica. La frequenza cardiaca di un adolescente medio dovrebbe variare dai sessanta ai cento battiti al minuto. Lo so perché mia madre che non guida la macchina è medico, e non fa altro che controllarmi il polso, la fronte, la gola, i nei, le ovaie. Troppo veloce. Almeno, stimai con pressappochismo, duecento battiti al minuto. Mi voltai alla ricerca degli occhi di Arianna, ma trovai solo due cosce velate dal collant strappato. Matteo e Alessio l’accarezzavano svogliati.

Voglio tornare dentro, bisbigliai, ho freddo, fa freddo. Dai, balbettarono, si sta così bene. Dentro ci annoiamo e basta, cercò di convincermi Matteo, accerchiando i miei fianchi in un abbraccio molle. Voglio cantare al karaoke, confessai con insperato coraggio. Vuoi cantare al karaoke? ripeté Matteo nel mio orecchio. Con dolcezza e malizia, come si fa con i bambini.

*

Quando entrammo l’animatrice stava per annunciare il vincitore (o la vincitrice, do per scontato che sarebbe stata Ilaria) della serata. Aspettate un momento, gridò Matteo. Qui c’è una signorina che non ha ancora cantato. Conquistò il microfono in un attimo e lo affidò alle mie mani tremanti. Sudavo freddo. Battevo i denti e cercavo di tenere stretta la pancia con il braccio libero. Mi sembrava di sentire in lontananza la voce di Ilaria che si opponeva. Non può, non deve, non è valido.
Cosa vuoi cantare, principessa?
La solitudine.
Un boato di noia riempì tutta la stanza, basta, che palle, no, ancora, no ti prego.
Cambiamo, mi suggerì propositiva l’animatrice, e iniziò a snocciolare il lungo elenco delle alternative possibili, ma io volevo La solitudine, volevo cantare quella canzone lì. Avrei pianto, ma non sentivo di avere gli occhi.
Che ne dici di Baila Morena di Zucchero, eh?
Non capivo niente. Percepivo il viso deforme e sciolto, i polpacci mi bruciavano.
È bella, nessuno l’ha cantata finora!
Non mi ricordo di aver detto sì, ma devo averlo fatto, perché in pochi secondi partì la base. Lo schermo davanti a me si colorò di azzurro, la scritta (Instrumental) troneggiava al centro.
Non conoscevo quella canzone. L’avevo sentita un paio di volte e non ne avevo capito nemmeno il significato.
Cos’è la tequila boom boom? Morena è un nome di battesimo? Perché ci sono tutte queste frasi in inglese?
Dài, canta, è iniziata!

Le parole scorrevano veloci e io cercavo di afferrarle con la bocca, ma la lingua era pesante e riuscivo solo ad articolarne i finali, sconnessi e stonati.
Tutti mi guardavano disgustati e impazienti che quello strazio finisse. I loro volti mi sembravano goccioline sciolte.
Guarda che se non ti va di fare una cosa, puoi dire di no. Basta tirarsi indietro, scuotere la testa riccioluta, che ci vuole, ma che ci vuole a dire di no?
Avevo deglutito tre volte di fila a causa dell’ipersalivazione. Euforia, pensai, no: nausea.

Il vantaggio di avere una carnagione olivastra è che quando stai male si nota visibilmente: lo squilibrio cromatico che si manifesta sulla pelle è talmente evidente da non lasciare alcun dubbio. Era chiaro a me e a tutti che non stavo bene e che di lì a poco si sarebbe consumata una tragedia. Ma nessuno disse niente. I dodicenni sono davvero stronzi e le animatrici, se possibile, ancora di più.
Al momento del ritornello iniziai a spruzzare dal naso e dalla bocca vomito verde sugli scalda muscoli di tutte le invitate.

La festa si concluse di lì a dieci minuti. Mi accompagnarono a casa i genitori di Ilaria. Pensarono a una congestione. Rimproverarono la figlia per avermi allontanata. Povero angelo, Jolanda.

*

14 marzo. Festa democratica. La prima. Avevo dodici anni. Quella sera, nel letto, giurai a me stessa che non l’avrei fatto mai più. Non avrei più assunto sostanze di cui non conoscevo nemmeno il nome, non avrei girato seminuda sulla spiaggia d’inverno e non avrei mai, mai più vomitato davanti a tutti. Avrei imparato a dire di no, avrei fatto solo e soltanto quello che avevo voglia di fare.

Jolanda piccolina, Jolanda così ingenua.

Jolanda Di Virgilio

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