Trash Vague #3: Bella de casa (Beatrice Galluzzi)

Don’t you worry, about a thing, ‘cause every little thing it’s gonna be all right!

Giorno ventesimo di quarantena: i nostri cervelli stanno subendo una deriva reggae senza precedenti. Non abbiamo medici a disposizione, tocca rivolgersi a psiconauti folli stranamente affettuosi. Il loro consiglio? Leggere la terza puntata di Trash Vague, la rubrica che guarda al trash come una sugar babe guarda al suo daddy.

Oggi leggiamo Beatrice Galluzzi – che Quaranta non si vergogna di definire la Beyoncé della letteratura comica – e il suo Bella de Casa, ovvero: Luchino Visconti incontra Fabio Rovazzi.

Il collage è della nostra resident artist Claudia D’Angelo

«Artro che a Cinecittà, qua pare de staʼ dentro a ʼn labbirinto». Morena percorreva il corridoio, puntando i piedi a terra come se, a ogni passo, dovesse schiacciare un insetto. Si lisciava i capelli sulla fronte e poi dava scossettine con il collo, per buttarli allʼindietro. Si fermò davanti allʼultima porta. Tirò su il mento, raddrizzò le spalle e bussò: «Aho, cʼè quarcuno?». Dallʼinterno si sentiva un vociare soffuso, ma nessuno le rispose. «Ma ʼndo cazzo è annata questa?» Stava cercando sua figlia, Noemi. Vide la porta aprirsi, e la figura di Noemi affacciarsi sulla soglia della stanza semibuia. «Ecco ʼndo stavi, li mortacci tua. Vieʼ ʼn poʼ qua». Morena si affacciò e vide un uomo in piedi vicino a un tavolino, che si stringeva la cintura dei calzoni. Prese Noemi per lʼorecchio e, con una spinta del petto, la schiacciò contro il muro. «Possibbile, che manco nʼattimo da sola te posso lascià?» Si allontanò dalla figlia quel poco da osservarla per intero. «Guarda come cazzo stai, pari ʼna mignotta sfranta, pari». Con foga, Morena si portò due dita alle labbra, le impregnò di saliva, e provò a togliere uno sbafo di mascara da sotto gli occhi accigliati della figlia.
«A maʼ, e lassame perde…»
«Ma che te lasso perde? Tʼho detto che nun la devi daʼ a caso. Che quanno apri le gambe, devi da miraʼ in arto!»

Il giorno del parto, Noemi se ne venne fuori senza fatica. «Vabbè che era la seconna, ma me la stavo a pèrde peʼ strada». Disse Morena allʼostetrica, quando le passò la bimba. Il marito era affossato su una sedia. «A Cèsare, daje ʼn poʼ! Viè a vedeʼ quantʼè bella tuʼ fia». Così dicendo, la donna poggiò lo sguardo sulla sua creatura. Per la prima volta – e non fu lʼultima – Morena pensò: «Ammazza quantʼè brutta ʼsta regazzina…»

Il temperamento bonario di Noemi la aiutò a farsi voler bene. Fin da piccola, rispettò il suo ruolo senza intoppi né capricci, mangiando quando le davano da mangiare, dormendo quando la coricavano. «Brava è brava, eh, nun se sente popio»; «Pare de non avella, da quanto ʼsta serena»; «Ma nun è che cʼha un ritardo? Tanto sveja nun me sembra…»; «Ma che stai a diʼ? A ʼnfame! Noè, lo senti che dice tuʼ madre? Che sei de coccio! Ma viè da papà tuo, viè qua! Dice che cʼhai er tocco, a papà, che cʼhai le tacche. Ma quando mai, mica è vero, a papà tuo, è che sei dorce come ʼno zuccherino. Damme ʼn bacetto, a papà! »
Il suo aspetto, al contrario, provocò nei membri della sua famiglia una sorta di contrarietà primitiva. «Ma semo sicuri che è fia nostra?»; «Me pòssino cecamme. Ce stavi pure te quando lʼho fatta!»; «Certo che coʼ la sorella nun ce pìa gnente. Parono er giorno e ʼa notte»; «Secondo te a chi somija?»; «A me no, eh, avrà preso daa famìa tua», «Daa tua, avrà preso, che tu madre pare ʼn sorcio!»
I lineamenti di Noemi erano affilati, gli occhi vicini, e la punta del naso curvava verso le labbra sottili che, una volta comparsa la dentatura, lasciavano scoperti gli incisivi. Una vicina, quando tornò dalla visita in casa Cecconi, disse al marito: «Aho, quaa pupa è tarmente brutta che se la vede ʼa morte se gratta».
Crescendo, il viso di Noemi non si addolcì, ma lo fece il suo corpo. Divenne longilinea, ma nei punti giusti comparvero forme rotonde e sode. Prese a muoversi con gesti aggraziati, e a camminare poggiando a malapena i piedi in terra, con i polpacci tesi, slanciando le gambe in falcate ampie. La ragazza non eccelleva a scuola, né in qualche arte particolare. Ma dove poteva aiutare, aiutava. Difendeva i compagni presi di mira, mettendosi in mezzo lei stessa – persino incassando qualche spintone – placando i conflitti con il suo cipiglio docile ma allo stesso tempo risoluto. E durante la ricreazione, invece di scendere in cortile con i compagni, rimaneva a far compagnia alla sua vicina di banco, una ragazza anche lei timida e ancor più disastrata, e le pettinava i capelli dividendoli in ciocche con le dita, per poi raccoglierli in trecce elaborate. «Quanto sei bbella, pari ʼna pupazza». Le diceva. «Nun ce crede mai a chi te dice che sei brutta, mʼhai capito?» La ragazza allora sorrideva, e sorrideva anche Noemi. Ma i suoi voti rimanevano sempre scarsi, persino in arte non arrivava alla sufficienza. Solo in educazione fisica sembrava eccellere, pronta comʼera a scattare in avanti con le lunghe gambe, a far rimbalzare palloni, a saltare gli ostacoli, ad arrampicarsi sulle scale a parete. «A Cèsare, comunque tu fia è proprio negata paa scòla. ʼN sa faʼ ʼn cazzo. Manco ʼna matita ʼn mano sa pià questa»; «Oh, quarcosa se imparerà, mica è spastica»; «Soo dici te…»
Nel quartiere, Noemi veniva chiamata da tutti Bella de casa. Sembrava che quel soprannome, scelto in realtà in modo benevolo, quasi inconsapevole, le fosse stato affibbiato per metterla in contrasto con la sua famiglia di bellezze sfacciate – la madre formosa, scura di pelle, con i capelli neri come le indiane; il padre piazzato e riccio, i muscoli gonfi sotto le canotte; la sorella più grande eterea, il volto armonioso e le ciglia folte – in cui Noemi pareva un anatroccolo mancato, con nessuna speranza di diventare un cigno. I ragazzi, però, non le levavano gli occhi di dosso. «Hai visto che bucio deʼ culo?»; «Quella coʼ le chiappe ce schiaccia le noci»; «Cʼha duʼ zinne che lèvate»; «È come ʼna sardina: tòrta la testa, è tutta bbona». E cominciarono a sparlare: «Ha visto più piselli lei che er minestrone de miʼ nonna»; «Sta più tempo a quattro zzampe de ʼn cane», «Fa più ciucci lei daa Chicco», «A bella de casa, vià qua, che se te butto sur letto tʼapro come er Mar Rosso!»
E Noemi, che lo sapeva di quelle voci, tirava dritto, guardava avanti, e si stringeva nelle spalle.
Le dicerie fecero presto ad arrivare anche a Morena. «Senti ʼn poʼ, ma è vero quello che se dice in giro? Che la dai come si nun fosse la tua?» le chiese. Ma non si rivolse alla figlia davvero in tono di rimprovero. Noemi non trovò la prontezza di ribattere, e incrociò le braccia, fissando lo sguardo sulle ciabatte della madre, che strusciavano nervose per la cucina. «Ma stamme a capì» continuò Morena. «Mica è un male, eh. Va a vedeʼ che è questo, quello che te viene mejo». Si fermò e le prese il viso tra le mani. «Ascorta a me. ʼNa bellezza nun sei mai stata, ce lo sai, e manco ʼna cima. Ma mamma tua tʼha fatto cor pennello». Le fece scorrere le mani sui fianchi e le pizzicò le natiche. «Nun la devi faʼ la fine mia, che me tocca de puliʼ er culo a li vecchi borgatari. Te devi ballà ʼn televisione, che in faccia nun te guarda nessuno».
Così, senza dire niente al marito e allʼaltra figlia, Morena la iscrisse a un corso di danza e di recitazione.
«E adesso, cara, fai un giro su te stessa e poi cogli le fragole. Sì, lo so che non ci sono le fragole, ma tu devi fare finta di coglierle, improvvisare». Lʼinsegnante di Noemi – unʼex attrice settantenne vestita da dama ottocentesca – le fece cenno di eseguire. Noemi si chinò per raccogliere quei frutti immaginari, e lo fece con grazia e pathos. «Sei proprio brava, non cʼè che dire, ora a tua madre glielo dico io».
Nel sentire la notizia Morena sorrise, fece un saltello e abbracciò la figlia. Poi la baciò, premendole con forza le labbra nella guancia. «Sei ʼn fenomeno, Noeʼ. Ma io ce lo sapevo! Mo però te devi daʼ ʼna regolata, eh. La devi faʼ finita de perde tempo coʼ ʼsti regazzetti de quartiere. De sprecatte alla cazzo de cane. Se proprio devi scopaʼ, armeno càricate quelli bboni».
Fu per quello che, il giorno dei provini per un nuovo show televisivo, Morena la volle accompagnare. Non solo per farle da mentore, ma anche per direzionarla. «Me devi ascortaʼ: te statte zitta, nun parlaʼ se non te lo chiedono loro, mʼhai capito? E poi fai lʼocchiolino al produttore e al reggista. Mʼhanno detto che soʼ sempre quelli due centrali, quelli che stanno ner mezzo daa commissione. Che lʼesperienza nun te manca, e che te costa, no? E glielo devi da faʼ intende, quello che je fai do-po». Morena mimò con la mano in gesto per indicare più tardi, facendo roteare la mano chiusa in aria. «E quando te fanno la foto, ner momento che te guardeno, te nun devi diʼ ciiiiis, come fanno tutte. Te devi mimaʼ coʼ la bocca pom-pa. Hai capito: pom-pa». Enfatizzò soprattutto sullʼultima sillaba, a ralenti, schioccando la labbra e poi lasciandole aperte.

«Datte ʼna mossa, de qua, che quelli i provini lʼhanno già iniziati!» Morena diede un altro sguardo alla figlia. «Nun te se poʼ guardaʼ». Le tirò giù il vestito argentato. «Vabbè che te se deve vedeʼ er culo, ma mica pure la sorca». La prese per mano, e la strattonò.
Fuori dalla porta del teatro 7 cʼera una calca di ragazze. Il chiacchiericcio era fitto e denso di voci adolescenti. Morena si fece largo tra le rivali mentre si guardava attorno. Cʼera una ragazza vestita da rapper con lʼombelico scoperto e i pantaloni della tuta rossi, che si sistemava la visiera del cappello chiedendo consiglio alla madre: «Che dici mà? Mejo così, o così?», «Boh, fai ʼn poʼ come te pare, per me pari ʼna cojona»; una contendente allungava i polpacci appoggiando le punte dei piedi su una sedia, girandosi continuamente verso la porta, vide che Morena la stava guardando e le disse: «Speriamo che me chiameno subbito, che sennò me se freddano li muscoli»; una ragazza faceva i vocalizzi, con il viso rivolto alla sua accompagnatrice, che innalzava il braccio come un direttore di orchestra «Là, là, là, là…», «No, cazzo! Devi ripetere là, là, e poi il làà! Ma quante vorte te lo devo da diʼ?»; ce nʼera una che si stava passando il rossetto e chiese a la sua vicina «Senti ʼn poʼ, che me so sbavata?»; una, poco più che bambina, sgranava e chiudeva gli occhi fissando uno specchietto da borsa; un’altra stava seduta e basta, a braccia incrociate, passando lo sguardo da destra a sinistra e dal basso verso lʼalto; una, mentre mimava un inchino, intralciò Noemi che le stava passando davanti. «E lèvate da li cojoni!» le disse, sbalzando allʼindietro.
Noemi rimase immobile, presa alla sprovvista. Poi si avvicinò. «Aspetta, che cʼhai er mascara colato». Le passò delicatamente le dita sotto gli occhi, mentre la ragazza rimaneva a bocca aperta.
«Anvedi. Grazie…» le disse, poi si girò verso unʼamica. «E te mica me lo dici che cʼho lʼocchi ʼmpiastricciati! ʼSta mignotta…»
Morena diede un altro strattone a Noemi, trascinandosela dietro «Ma che fai, aiuti quellʼartre regazze? Me pari popio scema, me pari!» E si infilò nel mucchio di pretendenti accalcate davanti alla porta.
«Aho, ma chi è questa?» Disse una donna. E unʼaltra: «Ferma ʼn poʼ, guarda che stamo tutte ʼn fila!», «Sì, ce lo so,» fece Morena «ma noi dovemo ancora faʼ lʼappello, semo arrivate tar–» e, prima di finire la frase, entrò.
Il ragazzo di guardia alla porta, quando la sentì richiudersi alle sue spalle, si girò. «E voi che state a fa qua dentro, ce lʼavete er numeretto?»
«Mi scusino, è che mi fia sʼera persa, e nun avemo fatto in tempo…»
Mentre Morena parlava, lui continuava a masticare una gomma ma il suo volto, inizialmente sdegnato, volse in unʼespressione di meraviglia. «…che ce volete fa, soʼ ragazze» concluse Morena, per poi accarezzare il viso di Noemi con il dorso della mano. «Io, veramente, preferisco le madri…» disse lui, e ammiccò.
Al che Morena, che aveva spinto la figlia in avanti, la ritrasse e fece due passi lei. «Ah» disse chinando leggermente la testa da un lato e accennando un sorrisetto.
«Comunque, piacere. Me chiamo Rovazzi». Il ragazzo allungò la mano verso Morena, che gliela strinse, ma sempre in una posa dʼimpaccio. «Venga de qua, signoʼ, gliela presento io la fia sua, ar direttore».
La grande sala del teatro ospitava il palco rialzato, scarno, con la base in legno sul quale erano seduti, su quattro poltroncine da regista, i giurati delle selezioni. Sopra di loro, dal soffitto, scendeva una macchina da presa attaccata a lunghi bracci di metallo. Erano concentrati sullʼesibizione della ragazza davanti a loro, goffa, strizzata in una tuta di lycra bianco perlato, con la coda di cavallo, che stava saltellando sulle note di Please don’t go.
Morena avvicinò il viso allʼorecchio a Rovazzi. «Ma che bisogna essere popio ballerine peʼ passaʼ er provino?»
«Vabbè, mica solo ballerine» rispose lui. «Pure sciòrte bisogna da esse, bisogna sapesse mòve col linguaggio. ʼSto programma lʼha ideato uno de nʼartra categoria, mica cotica. Se tratta de robba seria, de ʼn certo livello. LʼItaglia cʼha bisogno de vedesse allo specchio, capisce, de vedè vorti nòvi. De credece, ner futuro. Chi guarda la tivvù sʼè stufato daa solita minestra, ʼna tristezza che lèvate… A ggente se aspetta un sarto de qualità. Mica abbasta più de vedelle cantà, ʼste pischelle. Devono diffonde ʼno spirito allegro, positivo. Bisogna credece, nelle giovani. Bisogna incoraggialle. Eccoellà, tiè, pìate ʼsti spicci».
«Allora nun serve più avecce ʼn ber culo?»
«Be’ signo’, ma se levàmo i culi, potemo pure chiude la baracca».
La musica scemò, la giovane concorrente fece un inchino e scese dal palco. I quattro giurati presero a sussurrare tra loro.
«Come se chiama vostra fija?» chiese Rovazzi.
«Ceccone Noemi».
Il ragazzo salì sul palco e si avvicinò alla giuria, dicendo qualcosa a uno di loro.
«Noeʼ, lo vedi er signore ar centro, quello pelato?» disse Morena. «Ecco, devʼesse lui er capòccia. Tu lo guardi, e fai come t’ho detto. Se semo intese? Pom–pa».
La ragazza annuì.
«Ceccone, tocca a lei».
Noemi salì i quattro scalini che la separavano dal palco con l’andatura lenta e sinuosa di una cicogna, ma tenendo sempre la testa bassa.
«Visto che non abbiamo la sua scheda, passiamo subito al ballo. Adesso le mettiamo un pezzo di musica, e lei ci fa vedere come si muove, d’accordo?»
L’uomo fece un cenno rivolto al fondo della sala e la musica partì.
Noemi chiuse gli occhi. Babe, I love you so… prese a ondeggiare con il bacino… I wont you to know… sollevò le braccia … that Iʼm gonna miss your love… spinse la schiena in avanti the minute you walk of the door… batté il tempo con i piedi… so please don’t go… fece un giro su se stessa… don’t go, dont’go away e cominciò a ballare.
I giurati presero a scambiarsi opinioni. «A me questa me pare strana»; «Perché, ce servono normali?»; «In effetti non è che devono faʼ chissà che»; «Però, armeno un minimo di espressività nel viso»; «Che poi è brutta forte, eh, dico de faccia»; «Sì ma a fisico sta messa bene, no?»; «Ma qualche cosa la dovrà pur dire»; «Allora faje un paio di domande, vediamo come se la cava», «Se, ciao, chiedije della pace ner mondo, scommetto che tira fuori ʼna perla…»; «La pace ner mondo… bella questa! Faje faʼ uno scioglilingua!»; «Li vuoi quei kiwi? E se non vuoi quei kiwi, che kiwi vuoi?»; «Stocazzo!»; «E smettetela de ride, che se sente!»
Il giurato centrale, quello che aveva avviato la musica, fece di nuovo un gesto, e la melodia si fermò. Noemi perse il tempo e, per non cadere, si tenne in equilibrio con le braccia aperte.
«Tiè, pare ʼn Cristo en croce» disse Rovazzi.
Morena, che stava osservando la scena con i pugni chiusi sulle labbra, si allarmò. «Ma perché dice così? Mica è vero».
«Zitta ʼn poʼ, me sa che mo je fanno le domande».
«E che vor diʼ, è ʼn brutto segno?»
«Dipenne…»
Noemi si guardò intorno, poi si strinse le braccia al corpo come se fosse rimasta nuda e dovesse ripararsi dal freddo.
«Senta, signorina…» Il regista diede un occhio il giurato alla sua destra, in cerca di un suggerimento, «Signorina… Ceccone. Mi dica un poʼ qualcosa di lei. Va ancora a scuola, quanti anni ha?»
Noemi abbassò lo sguardo verso i piedi, annuì, ma rimase in silenzio.
«Te lʼho detto che questa nun è normale» sussurrò lʼaiuto regista.
«E mi sa che cʼhai ragione».
Il giudice più giovane prese la parola: «Ti piace la musica, Noemi? E il pezzo che ti abbiamo messo? Ci saranno molte canzoni nel programma, dovete ballare tutte, ma anche sorridere…»
Noemi non si mosse; non mutò il suo sguardo, ancora rivolto verso il basso; non parlò.
«Ma non jela fate la foto?» Morena sentì di dover intervenire, e andò sotto al palco. «Uno scatto solo, quarcosa?»
I giurati si guardarono tra loro, poi il regista si aggiustò sulla sedia, poggiando un gomito sul bracciolo. «Signora, la ragazza è stata ripresa dalla camera, come tutte». E guardò in alto.
«Ah sì?» disse Morena. «Noemi, te ricordi che se semo dette prima? Guarda dentro la telecammera, e fai un sorìso. Fai ciiiss».
Noemi sollevò lo sguardo, lʼobiettivo della macchina da presa si allargò. Sullo schermo della regia apparvero i suoi occhi liquidi, il lieve cipiglio sulla fronte, il mento puntuto, le labbra sottili che si arricciavano, si schiudevano, si accartocciavano, e poi si spalancavano di nuovo: «Vaf-fan-cu-lo».

Beatrice Galluzzi

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