SUS#2 #9: Agia Sofia

Come ogni lunedì (secondo il calendario rivoluzionario oggi è cosdì), pubblichiamo un racconto che ha partecipato a Scenicchia una Sega #2, il concorso pazzesco di Verde, che ci ha permesso di toccarci e odorarci live. Oggi è il turno di Frank Solitario con Agia Sofia. Qua trovate gli altri racconti partecipanti. Vi ricordiamo che i vincitori delle quattro serate saranno pubblicati qui sul blog e su uno speciale cartaceo di Verde, in attesa del gran finale in cui si scontreranno come nel migliore dei Cantagiro (quanti diavolo di anni hai, Fabio?) possibili. I quattro finalisti riceveranno gratuitamente le copie del cartaceo direttamente a casa (se vengono a prenderle al coworking di Pesaro potranno assistere anche a un live dei LAUDA).

No, non stiamo facendo finta di nulla. Il sondaggio ci ha provato, stiamo ancora discutendo il risultato ed elaborando i dati (33 a 34). Ramses ha perso ma ha vinto (COS); Quara ha vinto ma ha perso (Quarage, dove sei?); Frau ha vinto ma non sa cosa (Classic cap.); Lucariello come nei momenti più importanti della rivista è desaparecido (UE, qua si sostengono i Diaframma, niente riferimenti ai Litfiba. Guarda, non so di che tu stia parlando. Ah, ok, è stato un caso allora, ma cuidado gringo, ti teniamo d’occhio. Cuidado, ma cosa siamo in un film di Sergio Leone? Se Ramses è il cattivo, Frau è il buono e Quara è il bello, indovina chi sei tu. Nessuno? Nessuno, bravo).
Notiamo con amarezza come non si sia raggiunto il quorum fissato a 70 votanti ma comunque terremo in gran considerazione il risultato della piattaforma Robespierre. Intanto, nell’attesa, i 33 crumiri che hanno apertamente sostenuto Ramses contro gli scioperanti, si occuperanno della costruzione delle piramidi e del postaggio. Oggi è il turno di Fabio Fracchia.

L’illustrazione è di Nicolò Marchi.

Ho parlato di persona con Renzo Piano solo una volta.
In un hotel di Istanbul l’anno scorso.
Ricordo una frase in particolare di quel breve incontro: Il sacro non rappresenta più un limite.
La relazione parlava di rispetto delle linee ma anche di chiara demolizione di ogni preconcetto spirituale, elemento da imporre con forza nella modernità.
Nessuno aveva idea del perché Renzo Piano avesse deciso di abdicare alla diretta progettazione del nuovo polo museale di Agia Sofia.
Forse, come un vampiresco sovrano dell’Ancien Régime o il Gran Maestro di una loggia massonica luciferina, stava solo cercando un successore da incoronare alla fine dei suoi giorni.
Agnese, una sua assistente che conoscevo dai tempi dell’università e che aveva contribuito in modo decisivo a farmi accedere all’ultima fase delle selezioni, sosteneva che non volesse occuparsi in prima persona di qualcosa che avesse avuto in passato a che fare con l’idea di Dio.
Perché accettare l’incarico, allora, obiettai.
Quando il tuo ego occupa spazi spaventosamente grandi, finisci per agire al di là della tua stessa volontà.
Il mio progetto di ampliamento di Agia Sofia si basava sulla realizzazione di una struttura atemporale, che avrebbe potuto risalire a tempi remoti, così come appartenere a un ipotetico futuro.
Avevo stabilito di non inserire nella costruzione alcun elemento tecnologico e di non utilizzare materiali che non fossero già presenti in natura.
Una volta entrato, il visitatore sarebbe stato necessariamente trasportato dai corridoi verso l’unica scala, una specie di vortice concentrico ascensionale in grado di elevare ai piani più alti.
Raggiunte le vette delle sale espositive più esclusive, dedicate ai pezzi della collezione di maggior pregio, l’unico modo di guadagnare l’uscita sarebbe stato quello di seguire un percorso completamente diverso da quello intrapreso in precedenza.
Le vie di fuga delle ultime sette stanze esagonali confluivano in un singolo enorme spazio vuoto; un tempio arcaico disadorno in cui lasciar decomprimere tutto il carico emotivo dell’impatto con le varie forme artistiche sperimentate.
La mia intenzione era quella di realizzare un luogo che conducesse gli uomini a riscoprire l’esperienza del sacro attraverso l’abbandono al movimento verso l’alto.
Agnese mi aveva garantito che Renzo Piano era rimasto molto colpito dal progetto, anche se aveva avuto modo di dedicargli solo quei settantadue secondi che le erano stati concessi per illustrarglielo.
Nei mesi che seguirono cercai di incontrarlo una seconda volta, per fargli alcune domande che nella mia mente non avevano ancora dei contorni definiti.
L’occasione iniziale in cui ci mancammo fu piuttosto casuale.
Eravamo entrambi su una nave da crociera, fatto piuttosto singolare per un misantropo come me.
La ricorrenza con cui si è costretti a incontrare le stesse nauseanti facce.
Il tormento che si prova ogni volta che, uscendo sul ponte per cercare conforto, ci si trova al cospetto del fluttuare delle onde verso nessuna direzione.
Renzo Piano era stato invitato per una convention, mentre io stavo facendo un sopralluogo per alcuni lavori che sapevo già non avrei mai accettato.
Il primo giorno mi apparve come una visione mistica: era vestito con un elegante completo da gesuita in borghese e scendeva delle scale senza neanche posare i piedi sui gradini.
Mentre stavo affrettando il passo per raggiungerlo, il flusso di persone che ci divideva in verticale si richiuse con fragore, come le estremità del mar Rosso al transitare dei soldati egiziani.
L’indomani lo incrociai mentre levitava su due ali di architetti adoranti, protetto da quelli che avevano l’aria di essere dei pretoriani piuttosto robusti e coriacei.
I giorni seguenti di navigazione continuai a cercarlo invano.
Tutti i normali passeggeri sono condannati a essere prigionieri di una nave da crociera, tranne Renzo Piano, cui è consentito di ascendere al cielo in qualsiasi momento mediante un elicottero privato.
Da allora ho cominciato a sognarlo quasi tutte le notti.
La prima sera mi è apparso disteso nel letto di un reparto di terapia intensiva, attaccato a una molteplicità di tubi, che grazie ad algoritmi complessi lo tenevano ancora in vita.
Durante la veglia, i famigliari, con i volti spettrali di chi avverte l’incombere di altre e ben più disastrose rovine rispetto alla morte, non facevano che orbitarmi attorno; come satelliti nel tentativo di cercare un appiglio per respingere il vortice di antimateria che li sta risucchiando in un buco nero.
Dobbiamo cancellare il ricordo del sacro.
Era la voce di Renzo Piano, accompagnata da un sottofondo funereo di organo a canne, a ripeterlo dagli altoparlanti sistemati ai quattro angoli della camera.
Ero convinto di aver letto nel suo bando di concorso, in qualche capoverso che non riuscivo più a rintracciare, di un divieto assoluto di usare, ripensare o reinterpretare mosaici.
Non unicamente la didascalia sarebbe stata punita con l’estromissione, ma anche la citazione, la reinvenzione e finanche la destrutturazione dei principali elementi dell’arte bizantina.
Tutte indicazioni precise delle quali non trovavo più alcuna conferma in nessuno dei documenti che avevo a disposizione.
Fu quello il primo momento in cui mi resi conto che qualcosa in me non andava più come doveva.
La settimana successiva mi sorpresi sempre più spesso a fissare il vuoto.
Dimenticavo commissioni molto importanti, non riuscivo ad afferrare alcun tipo di oggetto senza vedere la mia mano tremare; soprattutto confondevo forme e figure, avvertendo subito dopo una forte infiammazione da qualche parte all’altezza del nervo ottico sinistro.
Lo avevo del tutto rimosso e dovetti farci i conti all’improvviso: l’unica cosa che avevo ricevuto in eredità da mio padre era stata una particolare malattia neurologica degenerativa.
Per esorcizzare un possibile e rapido decadimento, fissavo continuamente i led lampeggianti delle insegne luminose.
Nella mia testa vivevo una perpetua e psicotica TimeSquare per rassicurarmi circa l’esattezza delle mie percezioni.
La notte dopo la prima visita neurologica, ho sognato di essere convocato in camera mortuaria per il riconoscimento della salma di Renzo Piano.
Più mi sforzavo di metterne a fuoco i lineamenti e più i contorni del suo volto sfumavano.
Non c’è alcun bisogno di riconoscere Renzo Piano – sussurravo a denti stretti al medico legale nascosto in un angolo buio della cella frigorifera – Chiunque sa com’è fatto Renzo Piano.
La sua risata asmatica ha continuato ad echeggiarmi nelle tempie, fino al momento in cui la sveglia parlante dei vicini ha sancito l’arrivo delle sei di mattina.
In quel momento ho realizzato che in effetti non avevo la minima idea di che faccia avesse Renzo Piano.
Durante i due minuti del colloquio dovevo aver fissato la scrivania, come faccio di solito quando mi capita di assentarmi.
Le altre volte mi è sempre apparso di spalle, lontano su un palco, ricurvo a fissare dei fogli o costantemente in fuga circondato da persone.
Tre settimane fa l’occasione per parlarci sembrava perfetta.
Avevano proiettato Metropolis in una multisala del centro e l’assessore all’urbanistica gli aveva ceduto la ribalta usando termini come visionario, post-umano e chiosando con la locuzione architettura futurista non inclusiva.
Renzo Piano era apparso molto stanco e aveva farfugliato qualche insensatezza di circostanza, venendo ricoperto di applausi ancora prima di terminare l’ultima frase.
Una volta svuotatosi il cinema, era rimasto con la sua assistente a occupare i posti centrali della fila riservata agli ospiti.
Volevo chiedergli quando avesse intenzione di morire e se avrebbe mai accettato il progetto incompleto di un architetto con seri problemi neurologici.
Arrivato a una distanza di circa cinque metri, prima che riuscisse a voltarsi, sono riuscito solo a sussurrargli con voce flebile: Ti trovo davvero deperito, Renzo.
Ho poi infilato di corsa le tende di un’uscita laterale, senza nemmeno rendermi conto se avesse udito o meno ciò che gli avevo detto.
L’episodio fu tuttavia utile a sbloccarmi e riuscire finalmente a sognare la sua sepoltura.
Il cimitero sorgeva in una campagna verde e tranquilla.
La bara in mogano venne calata tramite un complesso sistema di leve e contrappesi che sembravano non avere origine.
Le ultime volontà di Renzo Piano mi riservarono un grande privilegio: ero l’unico, oltre ai famigliari, ad aver avuto il permesso di lanciare una manciata di terra nella fossa prima della ricopertura.
Negli otto mesi trascorsi dal colloquio, non avevo tracciato nemmeno una linea per modificare o ultimare il progetto iniziale.
Ieri sono uscito di casa in tarda mattinata, cosa per me piuttosto insolita.
Sono salito verso la passeggiata del Gianicolo per poi dirigermi sul Lungotevere, scendere le scalette e costeggiare gli argini del fiume fino all’Isola Tiberina.
Al mare ho sempre preferito il fiume: l’acqua, scorrendo in una direzione, ti indica in qualche modo una strada, un percorso da seguire abbandonandosi.
Mi sono fermato in corrispondenza di alcune piccole rapide.
Suoni, voci in lontananza dal livello della strada, colori a contrasto, raffiche di vento sulla faccia.
La parete interna del cervello proiettava solo immagini incomplete.
Mancavano due settimane alla consegna del progetto, ma qualche ora prima avevo saputo che per me ne restava solamente una.

Frank Solitario

 

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