LO SQUARTATORE

Verde 22, marzo 2014

Verde 22, marzo 2014 (In copertina: Cavellini writing on nude male, Vile Magazine vol 3 n.2, estate 1977)

Andrea Frau si è laureato in scienze della comunicazione, ora frequenta la magistrale in Lettere. Scrive racconti perlopiù satirici da circa sei anni. Ha scritto per Emme (l’inserto satirico de L’Unità), per la rivista Mamma!, ScaricaBile, Scrittori Precari e Verde.
Ora i sui racconti si trovano su Verde, Castrobloghina e il magazine de Il Fatto Quotidiano.
Condisce con fantasia pizze surgelate ed è alla stagione 2053 di Pes. Spesso si firma “Tabagista” anche se ha smesso di fumare.

Lo squartatore è stato pubblicato per la prima volta nel famigerato Verde 22, una delle tre uscite (le altre le scoprirete più avanti) che Issuu ha deciso di oscurare a causa della copertina.
Con Frau, in un numero che omaggiava
Guglielmo Achille Cavellini nel centenario della sua nascita, c’erano Alda Teodorani (con la splendida Vampiro), Benedetta Torchia Sonqua, Paolo Gamerro, Giovanni Marchese, Simone Lucciola, S.H. Palmer, Luca Carelli.
Vittore Baroni ci metteva a disposizione le illustrazioni a corredo del numero e prezioso materiale per l’editoriale.

Un archeologo intravide qualcosa tra le macerie del quartiere della vecchia Londra, una volta noto come White Chapel. Scostò un po’ di terriccio con il piede e riconobbe una piccola croce di legno. «Risultato di produzione in serie per il consumo di massa» ripeté meccanicamente. Oltre le formulette a memoria ricordava anche che questi gadget erano dei simboli di una comunità molto numerosa; da giovane non era mai stato attento alle lezioni di storia antica e superstizione. Negli anni della scuola la sua attenzione era monopolizzata dalla sexy conformazione del cranio di Martha Tabram.

Nelle vicinanze stavano costruendo un monumento alla ragione umana. L’opera commissionata dal governo costituiva in una grande e dettagliata riproduzione del cervello umano. Le squadre del presidente avevano consegnato un barbone con la scatola cranica già scoperchiata a Giorgio Chapman, noto artista, il quale non la prese bene: «Perché l’avete aperto voi? È come quando mi passano un succo di frutta con la cannuccia già infilata. Lo odio. Mi piace farlo io. Ringraziate che non ve lo faccio buttare. Abbiamo poco tempo».

Il cervello sarebbe stato realizzato con materiale di scarto: gli ultimi rimasugli di plastica presenti sulla terra, vecchi vinili, batterie, cera per capelli, coltan, logori abiti talari e una tiara papale. Chapman sognava che gli abitanti potessero vivere letteralmente la sua realizzazione. Viverla, nel senso di deturparla, rovinarla e per nessuna ragione al mondo restituirla intatta al creatore. Certo, loro non erano Laszlo Toth, ma neanche il cervello era la Pietà di Michelangelo. Ogni giorno gli addetti del ministero della cultura avrebbero ripulito il grande cervello, così per sempre.

L’ideatore dell’installazione immaginava intere scolaresche fare picnic nell’area dell’ipotalamo, centro della fame e della sazietà, per poi spostarsi a sonnecchiare nel tronco encefalico dove si trovano i centri che regolano il sonno e la veglia, sparare musica altissima nell’area acustica del lobo temporale e calpestare a ritmo di danza l’area del cervello responsabile della coordinazione motoria, prendere a calci e a spallate il lobo dell’insula per non dormire più e ballare per sempre, blaterare lingue inventate nel centro del linguaggio, nell’area di Broca, scarabocchiare con bombolette spray nell’area di Wernicke, fermarsi nell’emisfero destro e fingersi mancini, odorare rose nell’archeocorteccia lanciandosi per gioco neuroni olfattivi e non riconoscerne più il profumo, vandalizzare la corteccia cerebrale e vedere cosa si prova a essere daltonici e in preda alle amnesie, perdere l’equilibrio, sfilacciare le sinapsi, slepparle come corde di basso per avere sbalzi d’umore sempre più acuti, cercare di prolungare l’irrequietezza dell’adolescenza fino alle soglie della schizofrenia, appartarsi nell’amigdala con il partner, toccarsi, baciarsi con la paura di essere scoperti, poi smettere di colpo, allontanarsi, scoprire di non essere più eccitati e poi tornare ad amarsi.

Dopo di me il vuoto!

Nel 1971 ho inventato l’autostoricizzazione. Una rivoluzione nel mondo dell’arte.

Ma questa grandiosa creazione rischiava di non veder la luce. Durante gli scavi furono rinvenuti i resti di un antico supermercato. La scoperta avrebbe comportato un rallentamento dei lavori.
La prassi dell’archeologia di quel tempo senza passato consisteva nel disseppellire per poi riseppellire. Alla facoltà di archeologia ti insegnavano tutto sul periodo di fine impero liberal-consumista. Ti insegnavano tutto per insabbiare e distruggere con maggior perizia.

«Siate maledetti! Avete costruito la vostra scienza su un cimitero di prodotti e merci. Come avete osato seppellire la storia con questa volgarità senza poesia?»
Un’anziana signora che rispondeva al nome di Mary Jane Kelly sbraitava contro chi lavorava tra le rovine. La donna aveva pochi capelli biondi, indossava una vecchia pelliccia, pantofole, occhiali da sole senza motivo e fumava una sigaretta con invidiabile motivazione. Collocare un’opera d’arte in quel vecchio templio rappresentava per lei la più grande profanazione che si potesse compiere contro il passato. O almeno così credeva, a causa della sua superstizione.
La mattina dopo M. J. Kelly si fece esplodere nella corteccia prefrontale, nella porzione orbitale, dove nascerebbe l’idea di Dio. Gli spazzini del ministero della cultura insabbiarono i suoi resti.

Andrea Frau

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