Le belle speranze – Le infinite morti di Verde Rivista

Nota della redazione: Amichettismo? Uso personale della redazione? Infiltrazioni malgradolemoschiste? Mal d’amore? Che definizione dare a questo testo di Quaranta che ha scatenato risse e lacrime sin dall’istante in cui è stato depositato sulla nostra comune scrivania a maggio? Per ripicca, niente illustrazione ufficiale e la riserva di applicare refusi qua e là.

Nota di Quara: Senza Andrea Zandomeneghi e Pierluca D’Antuono questo testo sarebbe ancor di più un blob informe di suggestioni. Ci tengo a dire che per leggere le note basta cliccare sul numerino e poi ricliccare per tornare indietro. Ci tengo anche a dire che questi mesi senza “fare rivista” sono stati come essermi mozzato un arto inelegante e birichino, ma pur sempre un arto.

Nota della redazione: booooring.

Le belle speranze – Le infinite morti di Verde Rivista

Che Verde fosse una rivista nata per morire, lo avrei dovuto capire dalla casella di partenza, per via della sua natura di spazio parodistico di decine d’altre riviste che in quell’universo transitorio tra web 1.0 e 2.0 appunto nascevano “ufficialmente” e scomparivano nell’arco di qualche mese. Che invece sarebbe sopravvissuta a sé stessa per interi anni, lo avrei potuto intuire dal suo spirito ribelle, resistente per indole politica all’idea stessa di portare a termine qualunque progetto si mettesse in testa di perseguire: nello specifico, quello della propria fine.

Questa condizione, se all’inizio mi sembrava una contingenza caotica frutto di forze opposte e ugualmente irresistibili, è divenuta col tempo ai miei occhi una posizione esistenziale di cui la rivista e la redazione stessa sembrano non poter fare a meno.

Seduta sul bordo del baratro, Verde aprì gli occhi contemplando l’idea della fine: una riflessione[1] e una performance.

Il seguente testo è stato concepito come una confessione in forma di racconto, come un saggetto di analisi psicologica e anche come parte della grande autonarrazione di Verde Rivista, il tutto senza che ne fossi del tutto consapevole. Non posso garantire in alcun modo di aver separato adeguatamente l’onestà dalla parodia – anche se ho cercato di eliminare del tutto gli inserti ironici – ma, dopotutto, questo miscuglio è uno degli insegnamenti di Verde[2].

Lo sfinimento come significante

Un passo indietro: la mia esperienza con Verde Rivista inizia in quanto esule dal blog morente Scrittori Precari[3]. SP fu per me un punto di accesso fondamentale, sia al concetto di “Litweb” che alla critica dello stesso e dei suoi meccanismi. La posizione battagliera di questa redazione, come alternativa all’ormai consolidata narrazione della vetrina e della rivista palestra, cercava già all’epoca di spostare il fuoco lontano dal gioco di specchi e di visibilità che costituisce la pretesa di realizzazione individuale di moltə scrittorə, per centrarla invece sulla condizione generale di chi prova a fare cultura e letteratura in Italia, e in generale sulla precarietà post crisi. Un messaggio che all’epoca non ero pronto a recepire, non del tutto almeno.

Eppure, una parte di me deve aver riconosciuto una sorta di continuità nella successiva chiamata da parte della redazione di Verde, incarnata nella figura di Pierluca D’Antuono (da qui in poi il Commissario), perché presto ebbi l’impressione di aver trovato il mio posto.

Mi unii a Verde quasi con lo stesso spirito con cui accettai di cominciare a lavorare nel ristorante di mia madre: in parte perché le alternative mi spaventavano molto di più e in parte perché ero convinto di poter aiutare in maniera significativa. È vero, una parte di me covava il desiderio di vedere riconosciuto il valore dei miei racconti, o se non altro del mio percorso di crescita come scrittore, sottoforma di future pubblicazioni. Tuttavia, era come se scegliere la strada meno diretta e più irta di ostacoli non solo giustificasse in qualche modo le pretese dell’ego, ma fosse necessario a meritarsi il resto. Ecco, forse è questo il punto: sia nel caso del ristorante che della redazione, in principio ero convinto di non poter ambire ad altro[4].

Successivamente, mi sono aggrappato più o meno consapevolmente a Verde Rivista, sperando potesse rappresentare proprio quello sbocco creativo e decisionale che il ristorante non riusciva a essere: sul lavoro ogni mia proposta, pur motivata da esperienze nel campo della ristorazione, cadeva nel vuoto davanti al controllo egemonico dei miei due soci, tra cui disgraziatamente un mio genitore; in redazione invece le mie idee da totale principiante avevano comunque un peso non indifferente. Arrivai anche a far sì che, per lunghi periodi, la mia intera attività di scrittore coincidesse totalmente con quella di membro della redazione: una soddisfazione rara nella vita, che in certi momenti appunto si tramutava nell’impulso ad accentrare sul sottoscritto il potere decisionale (parlo di me, ma credo si tratti di qualcosa che in tempi diversi ha interessato tuttə in redazione) e che portava a vari livelli di “scontro” con lə altrə e il babbo Commissario.

Allo stesso tempo, però, ho cominciato a pensare che entrambe le entità, rivista e ristorante, dopo aver evoluto un simile seppur ontologicamente diverso carattere totalizzante, mi sarebbero sopravvissute.

C’è qualcosa di strano qui: cosa accomuna un’attività di ristorazione con una rivista online nata come fanzine senza scopo di lucro? Forse questo legame può fondarsi solo a partire dal mio personalissimo substrato, ma è ciò che mi ha portato da un certo punto in poi a concentrarmi sull’idea di fine, sia che si trattasse di immaginarla per scopi letterari[5] che di programmarla per cambiare vita.

Il ristorante nasce come necessità, inizialmente per mantenere un introito costante e pagare certi debiti. Ma presto la gestione di mia madre lo deforma in altro: il lavoro non dipende più da un’organizzazione ragionata in base ai guadagni potenziali, bensì assume i tratti di un servizio pubblico, un’erogazione indispensabile[6] quasi senza sosta che pretende di trattare gli avventori come famiglia, piuttosto che come clienti. Al di sotto vi si trova una dichiarazione implicita, continuamente performata, di fatica e passione quali uniche unità di misura di qualunque tipo di merito: il titolare di un esercizio sfrutta sé stesso in maniera totale, senza programmare il lavoro, senza riconoscersi il diritto al riposo, alla malattia, alla vita sociale. Io ci leggo la completa assimilazione, fin sul piano identitario, del manifesto neoliberista dell’amore per il lavoro, aggravato inoltre dalla sensazione di non essere altro che sopravvissuti, regalatoci dalla crisi del 2008.

La direzione inevitabile con questo tipo di concezione ricade nello spettro dello sfinimento e può assumere la forma di burnout, fughe di personale, problemi di salute, frustrazioni creative, servizio scadente, eccetera eccetera.

Su questo fronte, insomma, sembrava non esserci alternativa.

Dall’altro lato abbiamo una rivista, Verde, che fa una precisa scelta di campo: quella di critica con fare caricaturale e parodistico al mercato del libro, alle pretese di successo di un’intera generazione di penne, alla serietà posticcia delle altre riviste, nonché ai vari tentativi di gatekeeping praticati dai veterani sugli emergenti nei confronti dell’attenzione dei lettori.

C’è però qualcosa che non quadra: perché il messaggio di Verde non è sempre stato limpido come la sua premessa sembrerebbe richiedere. La pratica è intorbidita da scelte di una violenza appariscente[7] che, insieme a un certo gusto per il gioco fine a sé stesso, paiono parlare per lo più alla redazione medesima o esclusivamente a chi si intrattiene a sufficienza da riuscire a “craccare il codice”. Il tutto accoppiato al persistente rifiuto di portare avanti alcun specifico manifesto, cosa che di per sé sposterebbe l’attività su un piano programmatico e sgonfierebbe la dimensione ludica.

Allo stesso tempo però, in vari periodi della vita di Verde, troviamo testimonianze di un vero e proprio lavoro di redazione[8], non molto dissimile da quello di altre testate, sebbene con un congenito rigetto nei confronti dell’organizzazione duratura[9]. Il risultato? La mancanza di una direzione dichiarata, di uno scopo che racchiuda tutto nei confini di un senso e permetta di possederlo. Senza di questo, mi è sempre parso che l’attività restasse nuda attività e poco altro, forse addirittura puro escapismo. Nell’aria l’idea che “il viaggio fosse più importante della meta”.

Questo ultimo punto, lo riconosco, è in realtà la vera forza di Verde, in quanto rifiuto diretto della logica produttiva: l’attività stessa di rivista, fatta in gruppo, in totale libertà da scadenze, standard e limiti di genere. Per un certo periodo mi è parso essere proprio questo l’obiettivo: farsi animare dalla passione per le varie forme di letteratura e dalla possibilità di conoscere altre persone attraverso di essa, senza pretese di riconoscimenti, con la volontà di sviluppare e proteggere il proprio unico codice. Stare ai margini, sedutə sulla banchina e lanciare sassi verso le navi da crociera in partenza… Ma qualcosa forse non girava per il verso giusto.

La non-gestione e le lotte interne, seppure solo inscenate, rendono spesso impossibile una collaborazione reale tra “compagnə di viaggio”. Verde non può e forse non vuole funzionare come collettivo, perché non c’è unione d’intenti: Verde esiste solo in virtù della ciurma che la compone e delle sue tensioni interne. E su questo avrò modo di tornare.

D’altronde, non esiste per esempio un sistema di voto per prendere decisioni e, anche se esistesse, perché mai una persona dovrebbe adoperarsi per portare avanti qualcosa su cui non si trova d’accordo, solo perché la maggioranza ha votato in quel senso? Dopotutto non è mica lavoro.

Il punto è che in alcuni casi lo diventa pure, un lavoro: nei periodi di saltuaria e imprevedibile frenesia creativa social, ispirata da uno o più membri della redazione nel tentativo di coinvolgere lə altrə in scambi e discussioni[10]; oppure nei cicli di pubblicazione senza il tempo per fare editing decente o per trovare le illustrazioni adatte, ma anche quelli in cui ci si prendeva la briga di rispondere a ogni singolo messaggio ricevuto[11]; oppure in numerosi altri progetti irrealizzabili[12].

Non fraintendiamo: nel corso della sua storia Verde ha pubblicato circa mille contributi, alcuni dei quali di altissima qualità, alcuni scritti da autorə che oggi hanno trovato un discreto riconoscimento. Ma, anche qui, non posso ridurre la storia di questa rivista a un portfolio, una vetrina, un galà di grandi nomi. Dev’esserci qualcosa di più. Dobbiamo tenerci stretto il concetto di gruppo e quello di “viaggio”.

Ne suicida più la penna…

Verde, quando è stata banda, ha dato il meglio di sé. Non si può tuttavia nascondere la tensione inevitabile tra la redazione e le singole persone, quella tensione a cui ho già accennato prima.

All3 ospiti estern3, Verde chiede implicitamente di rinunciare almeno in parte al giochino della visibilità editoriale[13] e anche di sapersi prendere in giro, cosa che non è prerogativa di tuttə. Su questo piano, si scontra direttamente con un sistema di riviste intrappolato nello scimmiottamento del mercato editoriale, e l’atteggiamento dell3 scrittor3 che pretendono almeno il gettone di presenza della vetrina in cambio di un contributo gratuito[14]. Verde nasce come fanzine in un contesto completamente diverso e poi si inocula come un virus dentro una bolla di riviste concepite nella bolla stessa. È questo un primo livello di tensione che spinge all’isolamento della nostra rivista dal panorama in cui si inserisce, quello della Litweb.

Ma che dire dell3 redattor3?

Da una parte, Verde è un oggetto fatto di persone e punti di vista troppo diversi per funzionare come collettivo: non vengono imposti limiti di alcun tipo all’espressione di ognunə e, allo stesso tempo, la maggior parte degli atti espressivi ha origine squisitamente individuale, anche quando viene firmata dall’intera redazione[15].

Dall’altro, ricordo che il rifiuto esplicito del concetto di rivista come palestra o scuola di scrittura mette inevitabilmente sotto scacco una parte dell’ego autoriale.

Come ho detto prima, io stesso non ero immune all’idea di progetti alternativi più o meno individuali, e sono abbastanza certo di poter tracciare in un grafico la funzione matematica delle oscillazioni di fase compiute negli anni dall3 mi3 collegh3 di rivista, divis3 tra “è il momento che vada per la mia strada e raccolga i frutti delle mie esperienze” e “non pubblicherò mai per questa editoria morta; viva la rivista libera”.

Questo genere di frustrazione dell’ego necessiterebbe forse di uno spazio apposito per il discorso consapevole e strutturato, del genere terapia di redazione in cui ognunə ammette le proprie necessità e queste vengono accettate o criticate in maniera utile. All’interno della cupola ironico-competitiva di Verde sembra invece prendere forma, non senza una certa falla di retorica pseudomachista, la massima secondo la quale “Chiunque nella redazione potrebbe pubblicare domani mattina e sarebbe meglio di molti degli esordi che vediamo tutti i giorni”. Eppure, il tacito consenso pare pretendere che nessunə abbia interesse di farlo davvero solo per il puro gusto di leggersi su carta stampata[16].

Esagerando, direi che in alcuni momenti ho visto configurarsi in redazione una sorta di cavalierato letterario: un codice poco definito di castità nei confronti dell’aspirazione personale, vere e proprie crociate di ironia al vetriolo verso chi non sapeva nascondere la propria vanità, seguite da periodi di grande crisi di fede.

Anche qui, un secondo livello di tensione: orgogli di tipo diverso, quello verso il gruppo e quello verso sé stessə che si traducono banalmente in mancanza di ispirazione, voglia di scrivere o di partecipare alle attività della rivista.

In questo clima, l’idea di una morte di Verde sembra fornire anche una valvola di sfogo di tipo diverso rispetto all’espressività senza regole dell’ambiente rivista.

La linea del Commissario[17]

Chiunque conosca anche solo un poco il fondatore di Verde, lo avrà senz’altro sentito almeno una volta pronunciare la frase: “Sto male”. Non è un caso. Potrebbe, alla luce di quanto detto finora, essere il motto di tutta la rivista.

Ma guai a farsi trarre in inganno dalle formule. Quello del “sto male” è un rito, non un semplice stato fisico. Non è una cosa che succede e di cui il Commissario è il soggetto passivo, questo stare male è in tutto e per tutto un’azione: un qualcosa che risponde alla domanda “cosa stai facendo?”, piuttosto che “come stai?”. Cosa stai facendo? Sto male.

Il parallelo mi pare inevitabile con la condizione di sfinimento fisico e mentale che mia madre imponeva a sé stessa, durante l’interminabile settimana al ristorante, e che vorrebbe pretendere in una qualche misura da tutt3.

Si tratta forse di una ricerca del sacrificio? Appunto la fabbricazione attiva dello stare male. A volte mi pare che non sia solo frutto di una logica di amore per il lavoro o passione per la letteratura, ma che funga anche da scudo psicologico contro ogni eventuale critica o sentimento negativo.

Se questo diventa l’unico campo in cui si può competere per ottenere in qualche modo la ragione o la superiorità morale, posso spiegarmi forse certe mie derive lavoriste in alcuni segmenti di questi sei e passa anni trascorsi dentro il ristorante, o la voglia di fare sempre di più per la rivista in modo da avere ancora più voce in capitolo, o crediti di qualche tipo. Entrambe le cose ci riportano al discorso sullo sfinimento e quale significato gli si possa accoppiare.

Lo “stare male”, nel quadro di Verde, diventa forse la chiave per riguadagnarsi una forma di legittimazione morale ed etica di fronte a delle pratiche di rivista che propendono per “il lato del torto”. Anche su questo voglio tornare più avanti.

Il tratto genetico del ribelle

Associamo la narrazione della morte al canone della tragedia, ma non solo, vi sono anche quelle storie di redenzione al termine di una vita passata sulla cattiva strada che si concludono con un atto eroico di autoannientamento in favore del futuro. Oppure ancora, la morte è raccontata come cambiamento, quel rinnovamento che nel suo esempio più famoso si è fatto resurrezione.

Come una buona svolta narrativa, per me la possibilità della fine è stata una vera e propria epifania.

La fine di ogni storia è a tutti gli effetti una morte senza sangue, una morte astratta. E come tale pare pesare sull’orizzonte di Verde da molto tempo.

Basti pensare al vero e proprio ciclo di narrazioni sulla fine di Verde intitolato Cosa sta succedendo – Sulla fine, protrattosi per oltre un mese nel 2018, i cui scritti forniti da mani esterne alla redazione – più o meno coinvolte nella situazione e più o meno consapevoli del fatto che la fine fosse solo un pretesto – hanno contribuito in prima istanza a proseguire le pubblicazioni, e in seguito a dare linfa a un nuovo ciclo di redazione, uno dei più vivaci.

Ma tornando indietro, non stupisce scoprire che nell’arco del suo primo anno di vita Verde avesse già vissuto la prima scissione[18]: una vera e propria separazione in due distinti siti internet che in qualche modo si litigavano il diritto di vantare l’anno di pubblicazioni cartacee appena concluso[19].

Che dire poi della storia del primo esodo di redattori di cui io sono testimone? Quello che sfasciò ciò che definivo “gruppo originale”[20], quando ancora non conoscevo la storia pregressa. In questo caso la scissione fu in realtà più che altro una partenza, che aveva da un lato il sapore di una fuga e dall’altro quello di una purga. Un semplice cambio di pelle o l’esaurimento di un intero potenziale?

Su questa linea, non è un caso che io stesso, una volta appresi i meccanismi della redazione, abbia cominciato a incarnarli. Per esempio, l’arte del minacciare scissioni e attuarne di reali[21], anche se per periodi brevissimi e senza vere conseguenze. Queste avevano un doppio scopo: quello superficiale di richiedere una maggiore collaborazione e organizzazione da parte di ciò che allora pensavo di poter configurare come un collettivo; e quello implicito di alimentare il fuoco di un conflitto che veniva poi narrato all’esterno sui social e negli editoriali, e dare così nuova linfa allo storytelling della rivista che si rifiuta di cessare di esistere nonostante abbia contro tutto e tutti.

Ho iniziato a riconoscere qualcosa di speciale nella narrazione della fine, qualcosa che libera le parole dagli ostacoli: la sensazione è che si possa dire tutto, perché tanto poi non vi sarà seguito, non vi saranno conseguenze. Ciò dà a ogni esternazione il sentore di “ultime parole”. È questo, adesso credo, un punto fondamentale per comprendere il linguaggio di Verde.

Gli editoriali, La Litwrestling sui social, la Guerra dei meme, La Letteratura Pazzesca in Italia, le provocazioni a La Nuova Carne che hanno portato a una segnalazione di massa della vecchia pagina Facebook e dunque alla sua chiusura[22]. Di cosa si tratta se non del tentativo di affermare una scrittura senza ostacoli, che vuole fregarsene delle conseguenze?

Il ribelle, il rivoluzionario, l’attivista, perfino il terrorista sanno bene che ogni loro azione potrebbe essere l’ultima perché si scontrano con la legge, forze avverse, la sfortuna o la morte stessa. Sono personaggi che scelgono la parte del torto proprio perché permette loro di dire e fare cose a cui altr3 non hanno accesso. Ciò è possibile solo dopo aver accettato che qualcosa può e deve finire: lo status quo o loro stessi.

Mi sono convinto che i migliori atti espressivi di Verde, quelli che la contraddistinguono, sono quelli di estrema ribellione al sistema: atti pirateschi che rifiutano il futuro, gli effetti, le conseguenze appunto, in nome di un linguaggio personale e veramente libero. Per fare ciò, le è necessario il contesto di una fine perpetua.

Tale contesto è più fondamentale dell’esistenza di un collettivo o di una redazione funzionante.

Kata e catarsi

Ma questo non è l’unico livello del concetto di fine su cui voglio soffermarmi. Intendo tornare un attimo alla dimensione delle singole persone e legarmi all’idea di sfinimento, di cui parlavo prima.

Per fare ciò occorre riprendere da un altro punto di vista il concetto di scissione.

Si tratta di una fine, una spaccatura, la creazione di un doppio (contrario o speculare) che vive minacciando di calpestarti i piedi, sulla tua stessa strada. La scissione è tuttavia anche un momento di liberazione da ciò che ti trattiene. Per me questo si applica anche a tutte le scissioni ipotetiche con il loro caleidoscopio di alternative che restano potenziali.

Se Verde gioca a raccontare le proprie scissioni, paventate e inscenate, non lo fa solo per lo spettacolo catartico, ma anche per dare forma e dinamica alla tensione tra l’organismo della redazione e le frustrazioni delle persone singole.

Secondo me queste “faide” dimostrano che singol3 redattor3 possono unirsi e accordarsi in maniera parallela e alternativa alla redazione stessa e, dunque, che esistono rapporti anche oltre di essa, trasversali oppure “contrari” alla rivista.

Non c’è sovrapposizione completa tra gruppo (o gruppi) e redazione.

L’infinito “diario della fine” di Verde a uso e consumo del pubblico contiene layer di sperimentazione situazionista, di gioco di ruolo politico, di spazio recitativo apocalittico che permette di provarsi indosso anzitempo i ruoli delineati dalla fine dell’antropocene. Eppure, non si esaurisce in questo: non a caso la battuta che “la rivista è morta” circola da diverso tempo anche nelle chat a cui lettor3 e pubblico non hanno accesso.

Potrei dire che il rapporto della redazione di Verde con la sua fine ha concesso a noi tutt3 una dimensione di accettazione nel caso in cui le carriere letterarie, personali e collettive, non dovessero funzionare, così come le nostre vite in generale. Dall’altro lato direi anche però che siamo tutt3 sopravvissut3, perennemente sopravvissut3 alla nostra redazione.

Allora non cavalieri, ma forse sempre in procinto di passare da samurai a ronin (e viceversa? Mah questa era più fica quando l’ho pensata).

Verde è morta, Verde è viva

Ci ho messo un po’ a giungere a questa conclusione e ho dovuto partecipare ad altre situazioni collettive a scopi non letterari per comprendere l’unicità della mia redazione. Si tratta di un trucco prospettico non sempre evidente, un effetto di doppio fondo fornito dalla narrazione della perenne estinzione verdiana.

Noi siamo la redazione, ma non siamo soltanto la redazione di Verde, come invece alcuni suoi meccanismi sembrano pretendere.

Penso si possa affermare senza alcun dubbio che qualunque legame nato all’interno di questo laboratorio abbia in sé il diritto e la volontà di estendersi oltre. Oltre i limiti che la struttura di una rivista – questa rivista in particolare – porta con sé, oltre quell’estenuante gioco sul filo del rasoio che troppo spesso ha offuscato o ridotto al minimo altri livelli di intesa.

Proprio in virtù di ciò che sussiste durante le infinite morti di Verde (e nello spazio mentale che si apre in quel “dopo” prospettico) la rivista può autonarrarsi e autodistruggersi. E allo stesso tempo permettere a noi di uccidere Verde ogni volta, per salvarci. E poi ritrovarci al suo interno, e fuori, contemporaneamente. Insieme.

È un processo trasformativo fatto di esplosioni ed erosioni. Più naturale e paziente di qualunque vera costruzione strutturata.

Attualmente il blog di Verde Rivista vegeta nel suo letto presso il coworking di Pesaro[23], mantenuto in vita solo grazie al peso del prestigio accumulato e alle cure amorevoli di Andrea Zandomeneghi. Non mi è dato sapere quale tipo di strada imboccherà nel prossimo futuro, né che forma avranno le pubblicazioni a venire.

Il progetto di Rivista Pazzesca di Stefano Felici sembra un modo sia per smarcarsi dal cadavere di Verde che di riportarla in vita a mezzo polemica (lascio questa frase scritta a maggio anche se del progetto non si sente più parlare c.v.d.).

Chi vuole cerca fortuna su altre testate oppure va a caccia redazioni che paghino i contributi. Chi può porta avanti scritture di altra portata e scopo. Chi è riuscitə a pubblicare ora si scontra anche con tutti i limiti di quel mondo.

Nel corso dell’ultimo anno la Colonna Romana di Verde ha dedicato molte energie al Pasto Nudo di Roma, andando pure in contro a non poche grane che però esulano da questo resoconto, con qualche bella soddisfazione, come quella di rivedere gente dal vivo e di avere un posto che fosse un primo luogo di ritrovo concreto per la galassia di Verde[24].

Mi son più volte detto che Verde era solo la materializzazione di un luogo della mente del Commissario, una nave indomabile sulla quale lui ha accolto una ciurma di elett3, secondo i propri canoni imperscrutabili e secondo un gusto sadico per l’autodistruzione. Adesso devo riconoscere che tuttə3 quant3 abbiamo sempre avuto la mano sul timone.

Se la parte distruttiva è un aspetto necessario alla creazione stessa, in Verde le due cose si sono più volte compenetrate a tal punto da risultare indistinguibili. Attualmente mi pare che il pendolo sia del tutto immobilizzato al centro di un’oscillazione, e non è dato sapere per quale verso propenda.

Verde e le sue morti prendono ai miei occhi una forma nuova. Una maniera di resistere alla scrittura codificata, un rifugio quando tutto attorno sembra indicare una direzione unica e ineludibile, un modo per riprendersi il presente attraverso il contatto umano e procedere dritt3 verso un altro tipo di morte: quella di tutto ciò che è imposto, delle aspettative, del cadavere dell’editoria, dell’idea di successo, del fare a tutti i costi rivista in un certo modo.

Imparare a stare male tuttə insieme, ma un po’ meno.

Francesco Quaranta


[1] Il concetto di fine mi pare spesso la chiave d’accesso sia per lo sviluppo di una metanarrazione di redazione – in quanto la fine della rivista potrebbe non coincidere con il termine del suo racconto, e viceversa (di fatto la rivista è “morta” diverse volte all’interno di svariati resoconti e proclami; un concetto da espandere forse altrove) – che per lo sguardo riflessivo sulla Litweb in toto, come spazio virtuale che esiste indipendentemente dalla morte di una o più riviste e al tempo stesso ne viene mutato irreversibilmente.

[2] Il seguente testo è stato editato e rielaborato in seguito a considerazioni più o meno pacifiche avvenute dentro le chat di redazione, e a rilassanti telefonate all’interno dei pomeriggi morti della nostra vita.

[3] Il blog sussiste come indirizzo web, sul quale è tuttora possibile trovare ogni contributo pubblicato nell’arco di anni d’attività. Tuttavia, gli ultimi post ne raccontano la fine. Se la produzione artistica sopravvive all’autore e ne prolunga l’esistenza, dobbiamo prendere come assunto base che anche il prodotto dell’attività di una rivista web impedisca alla redazione di morire del tutto, nonostante le dichiarazioni d’intenti.

[4] Non so dire se in caso contrario avrei fatto scelte diverse.

[5] Non è forse un caso che più di uno dei miei racconti – e anche un progetto di romanzo ormai abbandonato – si concludano con una fuga senza meta del protagonista, un cambiamento drastico senza direzione.

[6] Non sono previsti giorni di chiusura e, nei finesettimana, si arriva addirittura a sei turni: due per le colazioni, uno al pranzo e al pomeriggio per gli aperitivi, uno alle cene e uno per il notturno.

[7] Senza tirarla troppo per le lunghe: dal punto di vista dei social, la comunicazione, che spesso risulta frammentaria, si fa a volte aggressiva in maniera tale da allontanare i lettori. Alcuni esempi fuori contesto: interventi come quelli che mirano a ridicolizzare lo stile della presenza online di Ivano Porpora o le pecche delle opere di Luca Ricci vengono spesso scambiati per istanze di bullismo; alcuni post sembrano raccontare simpatie neonaziste o alla Jugoslavia di Tito; altri post raccontano di faide interne alla redazione facendo trapelare toni equivoci e aneddoti che lasciano perplessi più di una persona e sembrano non essere ciò che ci si aspetta da parte di una rivista.

[8] Quello che si è arrivatə a codificare ironicamente nell’espressione “fare rivista”, mostrando un amaro e sadico gusto nel puntare il dito su quello che pare essere al tempo stesso un motivo di orgoglio e una pecca.

[9] Nello specifico: in vari momenti, diversi gruppetti di redazione hanno tentato di impostare un tipo di organizzazione non condivisa che si è sfasciata nel giro di qualche mese per il peso stesso del lavoro così com’era stato concepito nelle varie situazioni, e per via delle critiche giunte dal resto della redazione. Il tutto costantemente performato via chat e Facebook.

[10] Verde esiste e parla come profilo singolo ma attraverso la voce di tuttə, le quali a volte si contraddicono, a volte riescono a sviluppare una versione unitaria, a volte strumentalizzano la pagina per questioni personali più o meno rilevanti, dal calcio alla musica alla politica. Quando vengono chiamati in causa i profili personali dellə redattorə si avverte come uno strappo: il goffo tentativo di tenere insieme la propria personalità social – più pacata, seria o distaccata – con lo standard “rumoroso” e senza peli sulla lingua di Verde – ogni volta che mi sono trovato a “performare con metà maschera” ho sviluppato un tipo di agitazione che mi ha fatto allontanare dai social per diversi giorni.

[11] Su questo vale la pena fare una precisazione: il laboratorio di Verde Rivista ha subìto diverse forme nel corso del tempo (codificate o meno in apposite rubriche): dalla pratica del gruppo di lettura alla pubblicazione “a scatola chiusa” dei contributi, con gradi intermedi anche per quanto riguarda la cura del lavoro, la possibilità di dedicarvi tempo e l’interesse di frazioni della redazione. Fare rivista è inevitabilmente una forma di lavoro, anche se non retribuito, e mi pare che in diverse modalità ognunə di noi nel corso del tempo abbia cercato di scendere a patti con questa cosa, o di rigettarla.

[12] La cronistoria di Verde, il progetto Simone Bachechi, le carte lenticolari da combattimento della Litweb, il libro del Black Alien. Prossimamente tutti su Verde Rivista. Solo alcuni dei progetti su cui si sono infranti gli entusiasmi.

[13] In questo senso, si sprecano le critiche agli editoriali troppo prolissi che costringono il lettore a un tedioso scroll per raggiungere il contributo ospite. Così come le storie di editor, editori e operatori culturali che sconsigliano la pubblicazione su Verde, perché essa non garantirebbe la giusta visibilità all’autore.

[14] Verde ha provato a far notare in diversi modi che anche il lavoro di selezione ed editing non è retribuito. Ad esempio, tramite la rubrica “Indifferenziata”, che di fatto eliminava dall’equazione il contributo della redazione. Oltre a ciò, venne lanciato anche un vero e proprio sciopero delle pubblicazioni esteso a tutta la Litweb, senza però incontrare consenso (credo sempre per via della questione “ma sono seri o è tutto uno scherzone?”)

[15] Questo stesso lavoro è stato lanciato nel gruppo con l’intenzione di accendere una discussione riguardo il suo completamento/editing/stesura/riscrittura, ma quasi automaticamente è stato accolto e considerato come se fosse già concluso. Questione che denota da un lato enorme fiducia tra pari e dall’alto la difficoltà nell’instaurare meccanismi di lavoro sul testo e sulla sua concezione.

[16] Accettato l’assunto che pubblicare per il gusto di pubblicare rappresenti il cancro dell’editoria, anche la tentazione di farlo e i sentimenti ad essa connessi – se vogliamo, debolezze del tutto umane – diventano un tipo di tabù che non trovano uno sfogo salutare.

[17] Piccola parentesi in cui possiamo trovare forse un indizio: il Commissario stesso, ribattezzatosi Ramses I l’8 dicembre 2018 dopo il successo di Scenicchia una Sega #1 – Praticamente un festival tenutosi allo Sparwasser di Roma, annunciò la propria morte il 2 febbraio 2019, quando la pagina Facebook di Verde venne oscurata. Per poi tornare sotto lo pseudonimo di Ramses II quella stessa primavera.

[18] Io stesso, nonostante una protratta attività di ricerca, non ho avuto modo di ricostruire i fatti che hanno portato dalla fondazione a opera di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani, allo stato di cose trovato al mio arrivo in redazione. Posso a malapena confermare l’esistenza di entrambi.

[19] Non solo, quando io giunsi in redazione, il cartaceo stesso era in “pausa pubblicazione” dopo soli dodici numeri autoprodotti dei quali ognuno aveva rischiato di essere l’ultimo. Forse da qui nasce la sua continua “rincorsa” verso la morte.

[20] D’Antuono, Marinelli, Frau, Gamerro, Motta, Posar, Santaniello. La scomparsa in sordina degli ultimi due e il ritiro a vita privata di Gamerro e Motta dovrebbero darci qualche indicazione sulla difficoltà nel fare limpidezza, nonostante le dichiarazioni scritte e in barba alla pagina “chi siamo” del blog, sugli intenti iniziali della “rinascita in forma digitale” di Verde e sulle aspettative nei confronti dei membri di redazione. Se da un lato persone come Posar, Santaniello e Gamerro hanno forse frainteso le intenzioni dello spazio Verde, dall’altro potrebbe esserci stato un lavoro attivo di intorbidamento da parte del suo patron?

[21] Il progetto della Redazione Ombra Guacamole nasce come calco del cosiddetto Governo Ombra (prima introdotto dal PCI su ispirazione dello Shadow Cabinet britannico e poi parodizzato dal PD di Veltroni nel 2008). Lo scopo era quello di giocare la carta sovversiva anche se codificata nello spazio “legale” della redazione. La cosa si traduceva in un blog parallelo a Verde che mirava a pubblicare contenuti in concorrenza alla pagina originale e comunicati di denuncia. Il tutto dietro un pseudonimo e il finto tentativo di sviare i sospetti dalla mia persona. Un’ulteriore pressione verso la disfatta.

[22] Morte del Ramses. Si veda nota 17.

[23] Questa fatevela raccontare da Frau.

[24] In precedenza le riunioni della Colonna Romana si tenevano per lo più presso la pizzeria L’Economica in via Tiburtina 44, dove però erano sovente disturbate dagli altri avventori.

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