Polmoni

Apri l’apposita mail (verde4x4van@gmail.com) creata per ricevere i racconti del 4×4 VAN, il concorso ABnorme in cui si sente il pazzesco. Nessuna mail ricevuta. Chiudi l’apposita mail, sbraiti un po’ su Facebook. Riapri l’apposita mail, niente. Refreshi; niente. Ti stai per alzare dalla sedia con già in testa una bella Peroni ghiacciata. Dling, prima mail in arrivo nell’apposita casella di posta. E poi un’altra. E poi più nulla. Perché, giustamente, gli scrittorucci belli hanno bisogno di tempo per radunare le idee, per – come si dice negli ambienti top – performare. Ragazzi vi vogliamo performanti e over the top. I termini e il regolamento del concorso stanno tutti nel link che, come la mail di sopra, è apposito.

Un esempio di performante pulizia raccontistica raffinata? Il racconto di oggi. Introducing Fabio Torba.

Flavio Torba non esiste, ma ciò non gli impedisce di raccontare l’orrore. A voler cercare bene, però, si potrebbe trovare un ingegnere che opera nelle desolate Terre Meridionali e che spezza il tedio del lavoro con le proprie velleità letterarie. Ma questa è un’altra storia. Ha pubblicato racconti su Reader For Blind e (zan zan ZAAAN!) La Nuova Carne. Ha un romanzo in cantiere e un blog su cui scrive poco e male.

L’illustrazione è di Laura Fortin.

Quando la situazione iniziò a peggiorare davvero, C. aveva 30 anni, di cui gli ultimi due passati a fumare. Andò tutto a rotoli su un autobus dell’Atav, tra lo sgomento del pavido conducente e l’irritazione di alcuni genitori zelanti. Era salito alla fermata di Torrevecchia già con la sigaretta che gli penzolava dalle labbra. Spenta, perché nonostante tutto era da cafoni fare le ciminiere sui mezzi.
Si sedette pesantemente su un sedile di plastica e poggiò la testa al vetro, mentre quella bianca estensione del suo organismo gli danzava irrequieta sulle labbra: un cobra albino che fuoriusciva ipnotizzato dal cesto dell’incantatore.
A spostarlo dal suo stato di immobilità era stata una delle solite visite dall’ortopedico. Inutile come le altre, ma l’ambiente in casa si era fatto irrespirabile e, se non ci fosse andato, Madre avrebbe iniziato a perforargli i timpani. Forse sarebbe stata l’ultima di quella lunga serie: poi si sarebbe passati con ogni probabilità allo psicologo, un altro di quelli che non ci capiscono niente e intanto ingrassano la parcella.
Di solito la trafila è questa, seguita pedissequamente da Coloro-Che-Non-Comprendono.
Prese a tamburellare un ritmo sconosciuto sullo zaino vuoto. Erano settimane che non doveva usarlo – meno male, altrimenti sarebbe già morto da un pezzo – ma continuava a portarselo dietro per non farsi cogliere impreparato. Dall’ultima volta aveva preso l’abitudine di portare con sé anche una busta di plastica.
Dondolò la sigaretta su e giù per un po’, finché non notò un tizio impomatato che lo fissava. Poco male. Sì concentrò sul paesaggio urbano.
«Mi scusi, non si può fumare sui mezzi pubblici» lo avvertì invece Brillantina. La nota acida nella voce, come se avesse saliva di aceto e limone, era un chiaro segno di come si fosse esercitato moltissimo davanti allo specchio.
«Non sto fumando. È spenta» rispose C., senza staccare la fronte dal finestrino. La cosa lo interessava solo marginalmente. Quello che lo addolorava davvero era non riuscire più a scrivere. Aveva passato così tanti anni a fantasticare sulle opere che avrebbe messo su carta, che c’era rimasto molto male quando si era chiuso la mano nella portiera dell’auto. Aveva urlato e pianto, non per le falangi che si spezzavano, ma per tutti quei lavori che non avrebbe mai più scritto. Fortunatamente, quando si trattava di fare la ciminiera era ambidestro.
«Non può fumare vicino ai bambini» continuò Brillantina, il primo petulante rompiscatole della giornata. Con un po’ di fortuna, non ce ne sarebbero stati altri. Ma C. non credeva che la dea bendata fosse una sua fan.
Alla fine si voltò verso l’uomo e la progenie da salvare. Il bambino in questione era amorevolmente in sovrappeso e in quel momento stava dedicando tutta la sua attenzione alle fette di pane con la Nutella che teneva in una mano, masticandone una e guardando le altre con desiderosi occhi porcini.
«Le ripeto che non sto fumando».
«Si tolga quella cosa dalla bocca. Dà il cattivo esempio!»
Sopra la scrivania, C. aveva attaccato un quadro di Hemingway con la sua amata pipa. Per un po’ aveva provato anche lui, ma quel continuo spegnere e riaccendere richiedeva pazienza. Una seccatura. E poi, si era immaginato con una macchina da scrivere e un portacenere pieno di mozziconi, quindi era stato più logico attaccarsi alle sigarette.
«Potresti diventare un grande scrittore, ne hai tutto il talento» gli aveva sempre detto la Genitrice. C. gli credeva – sebbene non l’avesse mai vista con un libro in mano e ignorasse i suoi parametri di giudizio – e il giorno del suo ventinovesimo compleanno aveva piazzato in camera sua un tavolino, il quadro di Hemingway e il posacenere. Non aveva la macchina da scrivere, ma sapeva usare la penna, no? Si era seduto e aveva acceso la prima sigaretta. Alla fine della sessione era riuscito a riempire il posacenere.
«Non ti preoccupare, scriverai di più domani» diceva Madre. Ma lui non si preoccupava, perché stava imparando molto. Sapeva fare i cerchi, anche concentrici. E i rombi. Ma quelli veri, non come fanno i simpaticoni che imitano con la bocca un motore su di giri. Il veliero di Gandalf era una stronzata, ma i pescherecci gli venivano abbastanza bene. Prima di salire sul bus, quel giorno, si era esercitato a fare le portaerei.
«Ma non si vergogna a farsi vedere così? Perché nessuno pensa più ai bambini?!» sbraitò Brillantina. Un ciuffo era sfuggito al gel della formazione a testuggine e gli penzolava libero sulla fronte aggrottata. Il figlio continuava a concentrarsi sulla sua merenda e non sembrava essersi nemmeno accorto della situazione.
Se non dovessi fumare, saprei educare io quel bambolotto alla cura del corpo, pensò C. Chissà verso cosa lo stanno indirizzando. Calcio? No, nuoto. E magari, quando scoprirà di non nuotare così bene, non gli rimarrà che mangiare.
Dopo aver svuotato il posacenere un paio di volte, C. era arrivato alla conclusione che scrivere potesse essere solo il romantico amplesso tra penna e mano. Visto che, dopo l’incidente della portiera, uno dei due amanti era stato lontano troppo a lungo, la magia dell’innamoramento era svanita e la sua promettente carriera sfiorita. Non aveva avuto una paralisi, chiaro, ma era il momento a essere scivolato via. E siccome scrittore e fumatore erano ciò che era e sarebbe potuto essere, ora tutto era messo da parte tranne le Nazionali, finanziate da Madre.
Non era apatia, quanto più un’osservazione distaccata e scientifica della sua mancata realizzazione come persona. A cosa serviva un lavoro vero se non a sostenere vizi e passioni? L’atto di riempirsi i polmoni era diventata l’occupazione principale e portava via un sacco di tempo: facile per gli Altri trovare obiettivi nella vita quando non erano così impegnati.
Stanco di non venire considerato, il Genitore dell’Anno si alzò dal suo posto e si diresse verso la postazione dell’autista, lasciando il piccolo – si fa per dire – con la sua amata Nutella. Brillantina iniziò a urlare anche contro il conducente, mentre a C. arrivava solo un brusio filtrato di parole senza molto senso. Riusciva però a vedere gli occhi spiritati di Brillantina e un lembo della sua camicia sfuggito ai pantaloni. Non lo biasimò: il rumore di masticazione che veniva dalla progenie era insopportabile.
L’autista aveva l’aria di chi solitamente ama farsi gli affari propri: fino ad allora, a parte qualche rapida occhiata allo specchietto retrovisore, non si era preoccupato del degenerare della situazione. Ora però doveva scegliere se soccombere o meno all’impeto stressato di Brillantina e riportare all’ordine un innocuo incivile. Optò per fermare il bus e usare la propria autorità.
La totale concentrazione e devozione alla sua attività avevano provocato a C. qualche fastidio: sembrava che la gente non capisse il suo modo di fare. Gli amici, la famiglia, tutti sembravano averlo lasciato, tranne Madre e le venti fidanzate nel pacchetto. Certe volte veniva abbandonato da insospettabili parti di sé, rimpiazzate dal fedele tabacco, ma non ne parlava perché era un concetto troppo difficile da esprimere. Come spiegare quella sensazione di sentirsi incompleti, divisi, mutilati?
Mutilati! E poi, chi l’avrebbe ascoltato? Per questo si portava dietro lo zaino.
C. osservò l’autista percorrere il corridoio del bus verso la sua posizione. Non era esattamente una canna al vento. Forse quello che sapeva fare era guidare autobus e suonare ritmi tribali sul ventre sporgente. Almeno la prima doveva essere un’attività moderatamente remunerativa.
«Non si può fumare qui».
«Lo so, ma le faccio notare che non sto fumando».
«Si tolga quella sigaretta dalla bocca, almeno».
«Non posso».
«Avanti, mi venga incontro. Così ci muoviamo».
«Non ci riesco».
«Come non ci riesce?»
«Non ci riesco» piagnucolò C., iniziando ad agitarsi. Sentiva la pressione sanguigna salire e il respiro farsi più pesante. Per la tensione, fece guizzare la sigaretta come la lingua di un rettile dentro e di nuovo fuori le labbra. Il conducente non la prese bene.
«Giovane! Non mi prendere per il culo, oppure…»
Un altro guizzo: C. non era abituato a troppo nervosismo.
L’autista suonatore di ventre mosse il braccio con rapidità e afferrò la sigaretta, stringendola nel pugno e tirando.
«Ecco qua. E ora vediamo se… Ma che cazz…»
Il suonatore di ventre strattonò un paio di volte l’oggetto del contendere, ma questo sembrava saldamente ancorato tra le labbra di C. che, dal canto suo, strabuzzava gli occhi a ogni attacco.
«E molla!» gli intimò l’uomo, sibilando una bestemmia a denti stretti. Ora aveva afferrato la sigaretta con entrambe le mani e la scuoteva per liberarla tra i mugolii di protesta del ragazzo. Brillantina intervenne a difesa dell’autorità e afferrò C. da dietro, tenendolo dalla fronte e cercando di esercitare una forza contraria a quella dell’autista.
Finalmente la sigaretta cedette un po’, accompagnata da un verso di dolore di C., e dalle labbra emersero altri cinque centimetri di filtro giallastro. L’autista sentì che il nemico stava per piegarsi a lui, ma la resistenza che gli veniva opposta era sempre straordinaria. Il sudore aveva iniziato a imperlargli la fronte e, sotto le ascelle, la camicia d’ordinanza si stava iniziando a inzuppare per lo sforzo. Sapeva che di lì a poco avrebbe iniziato a puzzare e la cosa lo fece imbestialire. Tirò con rabbia e altri dieci centimetri di filtro vennero fuori.
C. afferrò dai polsi l’uomo impomatato. Cercava disperatamente di liberarsi dalla morsa di quel folle, dagli occhi strabuzzati e i capelli ormai ritti sulla testa come corna di diavolo. Pensò che lo stavano privando della sua essenza rimasta e cercò aiuto con lo sguardo, ma l’unico spettatore rimasto era il bambino della Nutella, che ora sembrava aver percepito una certa agitazione nell’aria.
Dalle labbra di C. fuoriuscivano ormai trenta centimetri di sigaretta e l’autista sembrava uno di quei clown intenti nel trucco degli infiniti fazzoletti colorati.
Il suonatore di ventre digrignava i denti per lo sforzo e l’incredulità, ma non si diede per vinto: ne andava della sua autorità. Appoggiò la suola della scarpa sul sedile di C., in mezzo alle sue gambe, e inarcò la schiena all’indietro. Portò le braccia oltre la testa come se quella fosse l’impresa di una vita e le ernie fossero solo una leggenda. E finalmente vinse.
Gli ultimi quindici centimetri di sigaretta di C. si arresero. L’autista cadde a terra per il cedimento improvviso. Quando rialzò la testa, vide che C. stava soffocando. La base del collo del giovane era gonfia come se avesse ingoiato un pallone da calcio e stesse adesso tentando di sputarlo fuori. Doveva avere nella parentela dei Boa Constrictor, il giovane.
Maledizione, adesso daranno la colpa a me se soffoca. Lo sapevo che dovevo continuare a guidare e basta, pensò l’autista.
C. era diventato cianotico, mentre il suo collo si gonfiava e afflosciava al ritmo del suo tentativo di respirare. Gli occhi erano iniettati di sangue. Il bambino posò con cautela le fette di pane dentro la cartella della scuola.
Fortunatamente, Brillantina era un uomo a cui piaceva prendere l’iniziativa. Dopo un primo maldestro tentativo, che era consistito nel far piegare in avanti C. per battergli con la mano sulle spalle, fece alzare in piedi il morente e lo cinse con le braccia sotto la gabbia toracica. Provò un paio di volte la manovra di Heimlich in mezzo al corridoio e finalmente riuscì a liberare il giovane dall’ostruzione.
Con uno schianto liquido, una massa spugnosa atterrò in mezzo ai sedili schizzando intorno mucose e sangue.
C. si raddrizzò, liberandosi dell’abbraccio di Brillantina, e sembrò prendere un colorito grigiastro ma più naturale.
Il bambino, raggiunto in volto da un grumo di materia non meglio identificata, sembrava come ipnotizzato dalla visione di quell’organo sputato e dalla sua inusuale colorazione antracite. Quando i polmoni ripresero a gonfiarsi e sgonfiarsi sul pavimento del bus, sentì un movimento nel proprio stomaco che non lasciava presagire nulla di buono. Nel momento in cui quella strana appendice di carta, tabacco e tessuti molli iniziò ad agitarsi nella pozza di sangue e catarro, il bambino cedette e sul mezzo si diffuse anche un odore non proprio sgradevole di Nutella non digerita. La Nutella è pur sempre Nutella.
Con gesti calmi e rassegnati, C. raccolse lo zaino vuoto e raggiunse il groviglio che gli era uscito dalla gola. Gli sfuggì dalle mani un paio di volte come una saponetta, ma alla fine riuscì a catturare l’organo ribelle che tentava la fuga e a metterlo nella busta. Chiuse lo zaino e se lo mise in spalla.
Brillantina, l’autista e il bambino sporco di cioccolata lo guardavano esterrefatti, con tanto d’occhi fuori dalle orbite. L’uomo impomatato gemeva all’indirizzo di C.: il suo aspetto ora trasandato lo faceva sembrare un ubriacone in preda al delirium tremens.
«Grazie per avermi aiutato. Molto gentile da parte sua» disse C. stringendo la mano di Brillantina con la propria, umida di sangue e saliva. Sentiva di doverlo ringraziare in segno di buona educazione, nonostante il teatro che aveva montato e che li aveva fatti finire in quell’incubo imbarazzante. L’altro non si sottrasse al contatto, troppo impegnato a capacitarsi dell’accaduto.
Poi C. scompigliò i capelli del bambino in segno di affetto e salutò anche l’autista.
«Ma… Ma… Ha bisogno che chiami qualcuno?» chiese il suonatore di ventre.
«E chi?»
«Non lo so… Un medico?»
«Ma no» rispose C. mentre già scendeva dal mezzo. «I dottori non ci capiscono mai nulla e pensano solo alla parcella. Adesso trovo un bar, sciacquo questa roba e vedo se la situazione è recuperabile».
E poi, come per un ripensamento: «Sa, io sono uno scrittore: potrei scriverci su una storia…»

Flavio Torba

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