La Fornace

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Demerzelev – Minore di Trex #4

Domenico Caringella non è nuovo tra le file di Verde e oggi, con La Fornace ci riporta alla tipica irrequietezza delle sue atmosfere. Atmosfere che chi lo segue da anni ha imparato a conoscere. C’è un fiato finalistico in questo e in altri suoi racconti che, invece di elevare, mostra spesso scorci sul lato peggiore dell’umano gettandoli sotto il naso senza giustificarli. Vi lasciamo in compagnia sua e di Demerzelev.

C’è poco da dire, la redazione è riuscita laddove il PD ha fallito finora: fissare una data per il super congresso megagalattico delle moltitudini verdiane. Nome ufficiale? Scenicchia una Sega #1 – Praticamente un Festival. Dove e quando? Sabato 8 dicembre allo Sparwasser in via del Pigneto a Roma. Cos’è? Beh cari, stiamo parlando dell’ultimo atto della disfida Roma-Firenze e praticamente il funerale della Scenicchia. Sarà l’ultima occasione in cui sentirete pronunciare il termine in questione? Probabile. Chi ci sarà all’evento? Innanzitutto autori famosissimi DOP della Toscana e, per la prima volta together in suolo romano, i famosissimi “Gemelli del dolo” Frau e Quaranta; e poi ancora Meredith “Mona” J. Wimbledon, i tre porcellini Seven, Scratchy e Pagliarini (omonimo del grande professore sordocieco fondatore di Verde), il lupo Wolfie Boy; ospiti d’eccezione come Alan, Kimberly e Luciano ovvero i figli del Commissario; John Smith, Melody Stagno, Isabella Ardacoda e Alfredo Laurenzi ovvero i Power Rangers dei coglioni. Ma la lista non finisce qui! Vi aspettiamo a leggere qualcosa, bere e ballare musica demmerda. 

Buona lettura.

Non mi è mai piaciuto guidare di notte. Di notte mi piace dormire oppure, senza mezze misure, lottare per non farlo. Una battaglia che però preferisco combattere in solitudine e soprattutto al riparo di quattro mura e di una porta chiusa. Anche per questo ho deciso di partire in macchina e con il buio, così da sprofondare meglio nel rammarico e nel senso di nausea per quello che mi aspettava a qualche ora da lì.
I miei fratelli hanno scelto subito me per andare da lui adesso; anche se ero il più lontano, in tutti i sensi. Ho accettato di buon grado, tutti gli altri gli erano rimasti accanto in un modo o nell’altro e presumevano di essere più vulnerabili. Invece, il vuoto era stato assoluto per me, che dal giorno in cui mi ero lasciato il cancello della grande casa dietro le spalle (non so ancora dire se da fuggitivo o da ripudiato) non lo avevo più visto, neppure in fotografia o in sogno, né avevo sentito la sua voce passare attraverso un microfono o risuonare nelle stanze silenziose del mio cervello. Così è sembrato sensato anche a me che dovessi essere io a compiere le formalità che ci venivano richieste.
Non ci avrei scommesso un centesimo su uno scenario del genere, noi due che ci incontriamo di nuovo dopo tutto quel tempo, in campo neutro, senza urlarci contro anzi restando in silenzio, senza che lui lotti fino all’ultimo per avere l’ultima parola, che in genere era la freccia più avvelenata di tutte, quella che conservava per il sigillo e che mi lasciava l’ennesima ferita da leccare. E invece era così che sarebbe andata, liscia, piatta, vista la situazione.
Quando il cielo è diventato una palude arancione e la notte ci è affogata dentro, ero in cammino da un paio d’ore. Ce ne sono volute altre quattro per raggiungere il posto dove avevano portato il vecchio. L’ho visto da lontano e ho capito cosa intendeva mio fratello, che da quelle parti ci era capitato più di una volta nel periodo in cui lavorava ancora per la raffineria, quando mi aveva detto che non potevo sbagliare, che non sembrava un ospedale. L’edificio era di un rosso mattone che lo faceva assomigliare piuttosto a una prigione o a una fornace, e mi è sembrata allora la dimora più adatta a ospitare quel gran figlio di puttana.
Ho parcheggiato sotto un grosso acero. Non sarebbe stata una sigaretta quasi a un mese di distanza dall’ultima a mandare all’aria il progetto di smettere e me ne sono accesa una. Me la sono fumata a occhi chiusi e l’ho fatta durare una vita e mezza, la mia e un po’ di quella che non sono riuscito a vivere.
Il vento e il cielo sono spariti in un attimo, anche come concetti, appena sono entrato. Li hanno sostituiti il sibilo monocorde e freddo dell’impianto di climatizzazione e una luce bianca, artificiale. Ho declinato le mie generalità e i motivi che mi avevano fatto approdare laggiù a una suora che aspettava dietro a un banco di legno massiccio. Era giovanissima e mentre parlava, di riflesso muoveva il capo da destra a sinistra, piano, come se fosse impegnata nella perenne valutazione di un assunto prima accettato e subito dopo rifiutato. Sembrava dibattersi tra la rassegnazione e la soddisfazione, senza determinarsi per quale direzione prendere. Dopo aver controllato i miei documenti ha chiamato qualcuno a telefono, annunciando la mia venuta.
«Immagino come si senta», mi ha detto mentre attendevamo.
«Ne dubito» le ho risposto.
«Lei crede in Dio?»
«Credo di no».
«Come non avere comprensione? La vita ci mette a dura prova», ha detto lei.
«Durissima».
A quel punto ha tergiversato, riprendendo a muovere piano la testa nel solito modo. Qualcuno dagli ascensori ha fatto il mio nome.
«Mi lascerebbe una sigaretta?», ha chiesto la suora mentre mi voltavo verso la voce.
Mi sono accorto in quel momento di avere il pacchetto in mano. Ne ho sfilata una e l’ho posata sul bancone insieme all’accendino. L’ho guardata negli occhi.
«Dio fuma. Non c’è dubbio», ha mormorato, mentre le davo le spalle per dirigermi verso gli ascensori.
L’uomo che si è presentato pregandomi di seguirlo non aveva il camice ma il vestito da 3000 dollari di un penalista di grido; ha detto di essere un medico comunque. Mentre scendevamo si è detto dispiaciuto a nome dell’ospedale per quello che era accaduto, senza specificare se si riferisse al fatto in sé o a eventuali mancanze del personale nella gestione della situazione, a me ignote. Il suo sguardo è caduto quasi per caso sulle mie mani, che stringevano ancora il pacchetto. L’ho rimesso in tasca.
Al piano interrato la suola delle mie scarpe nuove prese a lamentarsi o forse era il pavimento bianco che lo stava facendo. Il sedicente medico mi ha affidato a un’infermiera, che si era materializzata accanto a noi quasi dal nulla. Aveva ai piedi delle scarpine basse, allacciate, immacolate, sulle quali si spostava nel più assoluto silenzio, un silenzio che insieme al candore della divisa e delle calzature le consentivano una mimesi perfetta. L’infermiera camaleonte mi ha stretto piano la mano, ma non con mollezza, con dolcezza piuttosto, e si è incamminata lungo il passaggio che attraversava verticalmente il reparto, un meridiano di dolore e di desolazione popolato da spettri e da uomini e donne dalle voci ridotte a un bisbiglio. Arrivati quasi alla fine del corridoio mi ha consegnato un modulo e una penna per siglarlo e con un gesto mi ha invitato a proseguire da solo. Soltanto in quel momento, ho tentato di ridisegnare nella mia mente quel viso che non avevo visto invecchiare e cambiare. Sono entrato nella stanza che si apriva sulla mia sinistra. Lui era nudo, composto su un tavolo d’acciaio. Il fuoco gli aveva sfigurato il viso e se non fosse stato per gli occhi sbarrati, inconfondibili, dello stesso azzurro del cielo lontano di quella mattina, non sarei riuscito a riconoscerlo.
Non ero pronto a una scena del genere. Mi avevano parlato dell’incidente ma non delle fiamme che dovevano aver avvolto l’auto. Ho pensato che rivederlo così, anonimo, deturpato, cadavere uguale a un altro, forse mi avrebbe aiutato a riempire in un attimo il solco che quegli ultimi vent’anni avevano scavato. Gli ho preso la mano sinistra, annerita, e ho aspettato che l’odio si sciogliesse e che le mie lacrime scorressero libere. Sentire sotto le dita il metallo del cinturino dell’orologio che gli avevano lasciato al polso, ricordare che lui era mancino e realizzare che quello era il braccio sbagliato, accorgersi della sconosciuta che era appena entrata e che mi guardava chiedendosi chi mai fossi, mi ha fatto precipitare. Ho biascicato delle scuse e sono uscito.
Senza indugiare sono entrato nella camera accanto, l’ultima in fondo al corridoio. Tranne che per lo squarcio sulla fronte e per i capelli d’argento era proprio lui, con il suo brutto muso del cazzo, era mio padre. Non sono riuscito a piangere. Sono rimasto a guardarlo per mezzo minuto, non di più. Uscendo ho consegnato il modulo firmato all’infermiera, ho recuperato l’accendino e le ho detto “Sì. È lui. Senza dubbio”.
Poco dopo, sotto l’acero mi sono acceso una sigaretta e me la sono gustata fino in fondo.

Domenico Caringella

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