
Verde 17, ottobre 2013 (In copertina: Marco Teodorani, acrilico su tela)
Pier Paolo Di Mino ha ideato la rivista R! e le raccolte Visiorama e Il Re operaio. Ha scritto con Massimiliano Di Mino il film Fine Pena Mai, il romanzo Fiume di tenebra, Il libretto rosso di Garibaldi e quello di Pertini. È facile spiare i suoi passi frugando tra le attività di TerraNullius. Da solista ha creato 113 religioni, scritto il racconto in versi Storia aurea.
Baro Rom è stato pubblicato per la prima volta nel numero 17 di Verde (ottobre 2013, copertina e illustrazioni di Marco Teodorani, contributi di Gian Ruggero Manzoni, Pier Paolo Di Mino, Alda Teodorani, Joe Kossovo, Simone Lucciola, S.H. Palmer, Fabio Giovannini, Carrascosa Project).
Non ci credi? Eppure è così. Guarda nel foro del tendone, proprio dove indica la bocca del cannone. Ci siamo nati in questo circo e chissà quante volte ci hai guardato. Ma ora guarda bene, con attenzione. Quella stella, quella lì in alto, piccola ma luminosa come il fondo di una birra illuminata sotto i fari del bancone di un bar notturno, quella stella è mio padre. So cosa si dice in giro, ma se vuoi sentire le cose come sono andate da uno che le sa, fidati. Dicono che mi ha abbandonato. Ma non può essere. Magari la storia l’ha messa in giro mia madre, «quel bastardo ci ha abbandonato» diceva spesso. Va bene, lo diceva spesso. Ma con le lacrime agli occhi. Da donna innamorata. Sai come sono le donne, e sai come era mio padre. Mio padre era bello. E forte. Forte con il petto largo e certe braccia che ti sollevava una mucca prendendola per i garresi. Lei lo amava. E pure lui amava lei. E amava me, che quando sono nato e mamma è rimasta chiusa a casa con i capelli raccolti in testa e il fazzoletto in testa, lui ha cucinato per me, e pare solo carne di cinghiale e salsicce ben pepate, e poi ha dato una grande festa, con il pane per gli altri bambini, ma anche con musica e tutto il resto, che ci erano venute non so quante famiglie e pure il tribunale dei vecchi, e giù a godere a peperoni, involtini e birra per tre giorni e tre notti. Mio padre bevve un barile di quella buona e suonò come suonava lui, e sai che era bravo, che quando pizzicava le corde si fermava il cielo ad ascoltarlo, e raccontò tutta la storia della sua vita fino agli antenati. Si levò il fiato dal petto per farmi la festa come si deve. Ci amava.
Ma sai come andò? Scoppiò la guerra. Quella grande. Quella buoni contro cattivi, con tutti quei morti. E mio padre dovette andarci. Non è che poteva non andarci. Cioè, poteva pure non andarci, perché noi zingari del circo non ci abbiamo l’obbligo, ma lui ci andò. So cosa dicono, che aveva un conto in sospeso con un tizio e che era meglio per lui se spariva. Ma non è così. Io ero piccolo, ma a me lo disse il vero motivo, perché non era un padre di quelli che trattava i bambini da bambini. Mi disse: «sarei pure contrario, ma un uomo, se scoppia, alla guerra ci deve andare». Ci ho ripensato per tutta la vita a questa sua frase, e mi sono convinto che mio padre ha ragione. Era un tipo, ecco, che sapeva avere ragione. Per questo nella guerra se la cavò bene, e divenne un eroe. Era forte e ragionava bene, e, se vuoi ti faccio leggere la lettera di un generale, dove ci è scritto nero su bianco che mio padre era un eroe, che, in un so quale deserto d’Africa, aveva vinto una battaglia decisiva entrando nel campo dei nemici. Avevano fatto finta di arrendersi, pare, e poi sul più bello li aveva uccisi tutti. Ti dico io: aveva fretta di tornare a casa da me, e si era inventato questo trucco. Se tu l’avessi conosciuto, avresti detto: è un uomo pieno di trucchi.
Infatti, proseguiva la lettera del generale, mio padre lo condannavano a morte per diserzione, perché aveva fretta, e tutto insieme aveva sconfitto i nemici, e se l’era data a gambe levate. Nella lettera del generale si sentiva un sorriso di ammirazione. Pieno di trucchi mio padre, perché è ovvio: voleva tornare a casa da me, e allora aveva disertato il suo esercito, aveva sconfitto quello avversario, era diventato insieme un eroe e un traditore, si era fatto tutto il deserto a piedi, e appena arrivato all’oceano ci si era buttato dentro. Sapeva nuotare meglio di un pesce. E si mise a nuotare. Qui dicono che sia stato mangiato da una balena, ma che alla fine la balena lo abbia sputato perché era un osso troppo duro da digerire. Altri dicono che sia stato catturato dai pirati, che lo volevano uccidere, ma lui come ultimo desiderio gli chiese di raccontare la sua storia, e tutti i pirati a ridere e piangere, e, insomma, alla fine lo fecero il loro capo, e come capo dei pirati girò per tre anni mietendo paura e dolore. Io credo più a quest’ultima storia, e nelle isole del sud ancora oggi raccontano di un marinaio forte, bello, astuto, stanco di guerra che una volta ha ucciso un gigante facendo felice tutti gli abitanti dell’isola. Il marinaio era uno che voleva tornare a casa, cioè da me: era mio padre. Dicono che il gigante fosse figlio di un dio, o qualcosa del genere, che prese in odio il marinaio e gli diede tanti guai per non farlo tornare a casa. Dirai, superstizioni di isolani. Ma sta di fatto che mio padre cominciò a perdersi per mare. Quanti porti, e isole deserte, e terre di morti ha visto mio padre!
Ma anche quante donne ha amato, e in quante lo hanno ricambiato, bello e forte come era. Per questo mia madre, capisci, parla di lui con dispetto. Ma lui voleva tornare, e infatti è tornato. Qui al campo nostro. E io me lo ricordo. Lì per lì non lo riconobbi, ma lui mi chiamò: «Sei Zorro, ragazzo? Sai chi sono io?» E gli dissi di sì, gli dissi che sapevo chi era perché la mamma me lo aveva detto. «Bene», mi rispose lui, e io gli dissi: «Sei tornato, allora?» Ma lui mi rispose e mi disse una cosa che io ci ho ripensato per tutta la vita a questa sua frase, e mi sono convinto che mio padre ha ragione. Mi disse: «Siamo zingari. E si torna solo per ripartire». E io ci rimasi male, lì per lì, lo ammetto. E alzai le spalle, triste, ma lui mi diede uno schiaffo, ma leggero, sul viso e mi disse: «Sono tornato per te, andiamo dentro il tendone. Ti devo insegnare una cosa. Un grande uomo», così disse, ma dicendolo alla zingara, Baro Rom, «deve saper volare». E si mise nel cannone e diede fuoco alla miccia. Dicono che l’ha ucciso come un cane uno a cui aveva fatto chissà che, ma io l’ho visto volare quella notte. Si mise nel cannone e via, per insegnarmi come si fa. Insomma, come un grande uomo. Io quella notte l’ho visto diventare una stella. E ora che sono grande, farò lo stesso. Guarda.