Alasitlum

distanza sociale

Distanza Sociale, Emma Grillo

Inotnas Innav. Come al protagonista del racconto di Paolo Gamerro, anche a noi piace ripetere le parole al contrario. È un periodo strano, di lento passaggio. Il sentore di grandi cambiamenti all’orizzonte che per ora paiono solo presagi. Chi meglio di Paolo per descrivere l’elettricità di queste giornate pre-estive?

Ieri sera eravamo tutti incollati alla puntata di Decamerette in cui il fascinoso host Simone Lisi parlava di riviste letterarie con Silvia Costantino e Martin Hofer. C’era pure il nostro Pierluca D’Antuono, ma siccome non aveva chiesto il permesso alla redazione non abbiamo fatto altro che ignorarlo e invitare i nostri amici hacker del collettivo зеленый журнал a disturbare il più possibile il collegamento. In ogni caso, al summit mancava Simone Bachechi.

E ora vi lasciamo a Alasitlum, con una bella illustrazione di Emma Grillo.

Alla Dottoressa Sepe ultimamente mi limito a dire quello che voglio. Non le ho riferito delle mie gite notturne e surrettizie ad occhi chiusi nell’aria elettrica in autostrada, non le ho parlato di Claudio, del rapporto con Mara, del parcheggio del multisala svuotato la notte. La guardo cambiarsi come ogni sera nella stanza da letto e come ogni notte nel suo sguardo sento una vampa di insofferenza nei miei confronti, mentre si sfila la biancheria e non mi parla, o se lo fa mi chiede se mi sono ricordato di chiudere la porta. Lei, Claudia, dico alla Dottoressa Sepe mentre la Dottoressa Sepe mi guarda come se stesse contemplando il vuoto, lei, Claudio, cioè no, lei, Mara, ho paura che individui qualcosa in me, ho paura che percepisca che io non sia più io per via del caso alieno. Per le mie uscite notturne inspiegabili. Il fatto che Mara sia stanca del mio comportamento è del tutto comprensibile, mi dice Claudio alla macchinetta del caffè, dove lui prende un capp ciocc e io un mocaccino e io gli guardo le dita affusolate delle mani, mani lisce, e poi vengo sedotto dalla sua chioma scura, mi perdo nel perlustrare il contorno delle sue labbra rosso chiaro. Ha avuto un tumore, mi dice, è stanca, è chiaro, è ovvio, certo certo sì, ha il padre che sta morendo, le fanno mobbing al lavoro. Devi prestare più attenzione a Mara, è in un momento difficile, è esausta, sfibrata, mi dice Cla (Cla sta per Claudio, ovvio) mentre butta il bicchierino di plastica nel contenitore della plastica sul quale c’è scritto contenitore per la plastica. Questo distributore non eroga più palette per il caffè, faccio notare, ce le dovremo portare da casa. Il sesso con lei è tutto un mangiami. È un mordersi, farsi male, e io mi tocco le ferite marroncine sul ginocchio, gioco con il sangue cicatrizzato e mi viene voglia di grattarmele via, le ferite, mentre nel parcheggio del multisala sono solo e non ci sono macchine e l’orologio segna le tre del mattino di martedì. Con Claudio invece è tutto un guardami. Tutto il nostro rapporto è basato sul guardami. Poi Mara abbassa di colpo il volume del televisore e mi guarda zoooooom negli occhi e mi chiede se ho comprato la pasta. Molte volte le dico che di notte, passeggiare per i supermercati aperti H24 mi dà un senso di tranquillità. Fssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssss!
Il nostro salotto è tappezzato di poster cinematografici. Ci siamo conosciuti in un cinema, il cinema Odeon, in una saletta sporca di cenere, che non c’è più. I cinema più grossi se lo sono mangiato, le sale più grosse si sono pappate le salette più piccole. Ogni tanto perdo la faccia quando me la stropiccio tra le mani, dove ho la testa, dove ho la testa, dove ho la testa, mi dico mentre sono dietro Mara, dentro di lei, spingo pensando a quando un multisala si scarica di notte, rifletto sui colori che perde, diventa traslucido, penso allo studio della Dottoressa Sepe e alle sue gonne, lunghe, gonne che mi danno un senso di pulito e nello studio c’è un odore buono che colgo quando le guardo i fogli bianchi sulla scrivania, il computer che non fa il minimo rumorino, quasi come se fosse un oggetto senza vita. Penso che un giorno, forse, con Mara, avremo un figlio. Sarò un padre giusto?
Ora non so da quanto sono qui. La notte numinosa è tutta un rincorrersi: rincorro i suoni, le canzoni in radio, il lucore dei lampioni sghembi, le autostrade deserte, i pensieri che ho dentro e mi escono dalla bocca per salire su verso il cielo, si condensano in vignette che mi appaiono davanti agli occhi e mi suggeriscono: potresti uccidere. Non è in fondo il messaggio che mi hanno trasmesso gli alieni? Potrei uccidere, e stringo le mani nelle tasche dei jeans appoggiato sul sedile rosso vinilico. Non sono più sicuro di amare Mara da quando Claudio è entrato nella mia vita, nello studio dove compilo file Excel.
Scrivo quindi a un noto settimanale che tratta di questioni amorose ma non soltanto, mando una lettera confessandomi:
Mi chiamo Giulio e ho 34 anni. Non sono più io, credo che da quando c’è stata quella cosa dell’astronave aliena qualcosa mi abbia cambiato. Vivo con una donna che ha cinque anni più di me e non parliamo più. Non riesco più a esprimermi con lei, devo forse creare un nuovo alfabeto? Vado da una psicologa, una ragazza giovane ma rigida. Dolce, anche. A lei ho paura di confessare quello che provo per Claudio, che credo di aver messo incinta al lavoro durante una pausa caffè in bagno. A volte basta uno sguardo complice, sapete? La notte giro in macchina a occhi chiusi, mi guidano le voci. Non sono proprio voci, poi. Sono occhi languidi, la notte ha milioni di occhi che mi osservano. Ho paura. Sudo freddo nei parcheggi. Mara comincia a chiedersi perché abbia questa fissa per i lampioni, ormai dall’estate scorsa, l’estate del disco alieno. Vorrei sapere quanto soffrirò nel morire. In che momento l’anima si disperde dal corpo. Sono alto quasi uno e ottanta, peso sessantacinque kili. Ora porto un paio di Clarks e dei blue jeans strappati all’altezza del ginocchio. La maglietta dei Sonic Youth e una felpa zip blue sporca di che cosa oh oh non lo posso dire.
Mi piacerebbe muovere le stelle nel cielo, giocarci. Spostarle come preferisco, plasmare facce di persone che ho conosciuto, modulare i miei sentimenti prima sparpagliandole e poi dividendole in gruppi come più mi incanta. Dare la voce al fantasma che mi abita. Oggi Claudio mi ha tirato una gomitata in bocca perché l’ho accarezzato dolcemente. Mi ha quasi spaccato il naso con le sue mani forti. Mi è piaciuto. Mi ha tirato il bicchierino del caffè addosso, il liquidino viscoso che c’era dentro era rovente. Era tutta violenza violenza. Non ne ho parlato con la dottoressa Sepe. Alla Dottoressa Sepe ultimamente mi limito a dire quello che voglio. Non le ho riferito delle mie gite notturne e surrettizie ad occhi chiusi nell’aria elettrica in autostrada, non le ho parlato di Claudio, del rapporto con Mara, del parcheggio del multisala svuotato la notte. Credo che questa cosa abbia a che fare con quell’altra cosa degli alieni. Cose che ineriscono ad altre cose più complesse. Mi piacciono i contorni delle parole. Mi piace la parola cosa, il suo suono, ogni tanto mi piace ripetere le parole al contrario: cosa è asoc, multisala è alasitlum. Mi piace la complessità. Ora mi trovo in camera da letto, ora sto bene, è tutto blu e ho appena fatto sesso con Claudio, che si è trasformato in Mara, e mi ha scusato per le botte. È tutto un mangiarsi. Non so se dirglielo, domani al lavoro, non so come dirglielo. Del fatto alieno, intendo. Io ti amo, Claudio, ti amo quando entri in Mara e ti amo Mara quando mi fai entrare in te. Questo continuo andirivieni di flussi radiali, io lo amo. Sento la frequenza della trasmissione dei flussi tra di noi, il fremito dell’eccitazione. Non posso dire che sia stato bello quando oggi mi hai picchiato, ma qualcosa di certo mi è rimasto, e non sto parlando delle ferite. Non ci sono soltanto loro. Pensa ai lampioni accesi del multisala, alla solitudine. La solitudine dei lampioni, la svanita identità della loro luce smorta.
Riaccade ogni notte: mi trasformo in un grande cinema centro commerciale con il naso che cola sangue e tante unità se ne vanno via da me, spegnendomi e lasciandomi solo nel parcheggio, mentre mi scarico di vita. Sono un Alasitlum, padrone di un’altra realtà soltanto mia.

Paolo Gamerro

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