Vertmoire Revue

Era la fine del 2019, il Coronavirus era solo un miraggio nei “wet dreams” degli estinzionisti e Pierluca D’Antuono telefonava a Francesco Quaranta per domandargli “un racconto che possa piacere a Valentina Maini, Alfredo Zucchi, Simone Ghelli, Ippolita Luzzo, Giovanna Giordano e Riccardo Meozzi, contemporaneamente”.
Due mesi dopo, nel giorno della consegna, il Commissario rifiutava il testo sulla base dell’unico pretesto possibile per lui: “È troppo lungo e non si parla abbastanza del sottoscritto”. Non l’aveva letto. 

Il Quaranta spendeva i mesi successivi a bussare alle porte di ben ventidue riviste e blog letterari, le quali prontamente rifiutavano il racconto perché “troppo breve come romanzo e si parla troppo del D’Antuono”. Rileviamo con piacere che quindici di quelle ventidue riviste hanno nel frattempo chiuso i battenti.
Il Quaranta rientrava stamattina nella redazione di Verde Rivista, si impossessava dei mezzi di pubblicazione approfittando degli uffici deserti (causa festività e presentazioni di Francesco Spiedo) e scriveva la presente.

Questo racconto s’intitola Vertmoire Revue ed è un omaggio alla storia mai avvenuta della redazione di una Rivista Verde mai esistita.

Il collage è di etere____.

 

Quando compii diciotto anni, il mio patrigno bruciò tutti i miei scritti giovanili. Mi amava come fossi figlio suo, disse, ma prima di esser degno del suo nome avrei dovuto scrivere un Grande Romanzo Europeo. E, ça va sans dire, non ero pronto. «Sortisci dalla vita scolastica, oh figliolo, abbandona il conforto della cameretta, frequenta le riviste letterarie e assapora lo spirito artistico che ivi ribolle. Non v’è miglior palestra. Così dico e così è». Mi trasferii a Parigi nel 1969 con questo proposito nel cuore. Alla televisione nella hall di un hotel, guardai il piede dell’uomo toccare la Luna: mi sentivo esattamente così.

Conobbi Pierrot Danton nel ‘72. All’epoca pretendeva già di essere chiamato Le Commissaire – se vi erano dei motivi, non li espose mai al sottoscritto: era la sua volontà e tanto doveva bastare. Mi conquistò con un messaggio privato allegato a una bottiglia di Champagne – non so come mai fosse a conoscenza del mio indirizzo in Goutte d’Or, o del fatto che fossi in città – con il quale mi invitava a pubblicare per lui. «Per noi», diceva in realtà il messaggio straripante di salamelecchi. «Un abbraccione».
Non mi consideravo più un principiante totale in campo letterario, venivo infatti da un paio d’anni di collaborazione con Jeanluc Ligré – prima che si facesse sbattere in carcere per quella brutta truffa dei fondi alla cultura – anni che non erano stati certo una passeggiata, trascorsi a mendicare spicci per autoprodurre antologie noir di infima categoria; per questo mi illusi che con Danton e la sua rivista, Vertmoire Revue, avrei avuto vita facile.

Al momento della sua fondazione, nel 1970, tutti avrebbero scommesso sul successo della rivista: Danton era un genio nello spendere i crediti e i favori, raccolti qua e là durante gli anni delle sommosse studentesche, per mettere insieme sponsor e sostenitori. In breve, un numero di Vertmoire Revue non mancava mai di finire sulla scrivania di ogni pezzo grosso dell’editoria francese e le penne più brillanti della Capitale facevano a gara per presentarsi alla redazione, soprattutto giovani donne che altrove si sarebbero trovate le porte chiuse sul muso – Danton era famigerato per il suo fare da Don Giovanni fasciato nel garbo rassicurante di un padre, così come in camicie alquanto barocche.
Nonostante ciò, l’ascesa del cartaceo si era arrestata improvvisamente a causa di un imprecisato incidente: se costretto a ricordare, Danton si rabbuiava e accennava al fatto di averci perso il cuore – molti avrebbero scommesso che un cuore Danton non l’avesse mai posseduto – e mugugnava qualcosa riguardo la triste fine dell’esperienza situazionista. Così adesso Vertmoire cercava di ripartire stancamente dopo mesi di secca.
Non si parlava affatto bene di Le Commisaire nei circoli più o meno politicizzati di Parigi: gli si dava addirittura del fascista, con diversi gradi di convinzione, e del criminale, con estrema convinzione; e per sentire una parola buona sul suo conto da parte di un libraio o di un tipografo bisognava spingersi fino in periferia, dove era chiaro che lo si vedesse assai di rado. Danton restava tuttavia il centro del sottomondo culturale di Parigi, il ragno solitario la cui tela fungeva da sensore onnisciente e lo guidava laddove un nome o una penna suscitavano l’interesse collettivo; ivi tesseva i suoi bozzoli e circuiva le sue prede. Non conveniva sottovalutarlo, avrei imparato: Pierrot Danton era il guardiano dello stretto cunicolo che separava la moderna bohème chic letteraria da una vitaccia di sotterfugi da mestierante.

Fin dal primo incontro, mi sommerse di complimenti abbastanza ingiustificati, ma così calorosi da sciogliere ogni diffidenza. Va da sé che io cercavo un surrogato di figura paterna dentro quella Bailamme metropolitana, così diversa dalla mia cara Firenze, e subito cascai nella sua giostra intermittente di moine e sevizie.
Mi invitò parecchie volte a casa sua. Era solito accogliermi con indosso una vestaglia tappezzata di geroglifici e far servire del vermut delizioso, indipendentemente dall’ora. Soltanto mesi dopo avrei scoperto che la ragazzina incaricata di servirci in quelle occasioni, così come alle cene che l’uomo organizzava spesso e volentieri nella sua villa sulla Senna, era in realtà la figlia più grande: Claudette Wimbledon Danton. Aveva altri due pargoli, Jacob Ivan e Tereso Gregory Danton, i quali attualmente vivono negli Stati Uniti (le malelingue direbbero “per allontanarsi dalla sua ombra dopo vani tentativi di parricidio”).

Proprio durante la prima di quelle cene a cui ebbi l’onore di partecipare, conobbi Cecil “Le Mastiff” Merluc: un nanerottolo silenzioso con la faccia da bimbo che fumava la pipia e gettava sentenze da capotavola. Era disgustato da più o meno chiunque si azzardasse a rivolgergli la parola e passava il tempo a fischiettare al solo scopo di innervosire il prossimo. Era davvero intonato. Era, in teoria, l’autore di punta del rilancio di Vertmoire e veniva riverito come un divo.
Per i primi tre numeri della nuova edizione, Merluc aveva avuto un’idea geniale: avrebbe fatto stampare il suo nome in copertina, in carattere maggiorato rispetto agli altri, senza tuttavia scrivere all’interno delle pagine una singola sillaba; in questo modo, il prestigio della testata sarebbe aumentato finché un giorno, chissà, anch’essa avrebbe finalmente raggiunto un livello adeguato a ospitare un testo del grande Mastiff. Oltre che il suo ego.
Durante la cena della mia iniziazione al circolo Vertmoire, il suddetto mi dedicò soltanto una ben indirizzata cucchiaiata di tartare di salmone, finché Danton, che a quanto pare ci adorava entrambi, lo costrinse a rivolgermi la parola. Mi squadrò e seppi che mi stava catalogando secondo una sua personale versione del metodo lambrosiano, uno per scrittorucoli. «Ho letto qualcosa di vostro», disse. E io: «Davvero? Cosa?». «Era una domanda», ribatté egli per poi dimenticarsi totalmente del sottoscritto e cercare con gli occhi Le Commissaire, ormai all’altro capo della sala: «Sapete cosa renderebbe più interessante questa serata di merda? Un combattimento tra cavalli!»
Cecil Merluc, si capisce, era un uomo solo; aveva girato l’Europa intera come corrispondente per un giornale parigino e aveva assistito alla Primavera di Praga. Gli articoli scritti durante quel soggiorno tradivano l’indole letteraria e la sensibilità da grande uomo. Essi presentavano tuttavia certe lacune temporali risalenti ai momenti successivi l’invasione sovietica: si vociferava che Merluc avesse consegnato alle autorità il proprio tesserino stampa per ottenere in cambio una Makarov 9mm, un manganello bello robusto e qualche giretto in carrarmato. Sembra assurdo, ma divenne il mio più grande amico.

Mi ci vollero più di sei mesi per pubblicare il primo racconto su Vertmoire Revue. Ogni volta che sottoponevo un testo a Danton, egli sosteneva che non era ancora il momento – venivo da vicende personali abbastanza complicate e non mi era difficile convincermi che la mia scrittura ne risentisse. Ma non demordevo, anzi, rimaneggiavo un’ultima volta il mio racconto prima di inviarlo a Le Club, una rivista “amica”, benché di dichiarate inclinazioni politiche contrarie. Firmavo sempre con pseudonimo per non essere accostato a quei nazionalisti folli, sebbene fossero gli unici disposti a pubblicarmi.
Nessuno, nella redazione di Vertmoire, dette segno di accorgersi di quel giochetto. Capii ben presto che un direttore di rivista di successo deve conoscere chiunque nella società letteraria, ma non deve abbassarsi a leggere niente e nessuno.

Stufo dei miei tentativi di farmi pubblicare un racconto che pur, lo ricordo, mi era stato originariamente richiesto, Le Commissaire mi disse che era assolutamente necessaria la mia partecipazione al lavoro redazionale.
«Un passo imprescindibile per toccare con mano i meccanismi ben oliati di questa panzer-rivista, tastarne il cuoricino e dare un paio di belle bottarelle alle Muse», mi disse dandomi di gomito. In pratica, divenni correttore di bozze.
La verità è che salvavamo e pubblicavamo le fatiche di più o meno chiunque avrebbe avuto modo di ripagarci il favore in futuro. Per settimane, ricevetti scribacchini dalla scolarizzazione medio-bassa che trattavano il francese come una vacca da spremere grossolanamente pur di ricavarne un bicchiere di latte e poter dire: «Ecco! Questo è il MIO bicchiere di latte! Bevete!».

Questa e altre allegorie riguardo la situazione dell’editoria sotterranea parigina non sono farina del mio sacco, bensì di André de Samoîne, il caporedattore.
Di origini còrse, aveva servito come sguattero su una nave della flotta della Repubblica, senza alcuna possibilità di fare carriera. Questo finché non aveva salvato la vita all’ambasciatrice Michelle De Murgé, caduta in mare durante una crociera burrascosa alla volta della Spagna. La nobildonna lo adottò, ammirandone l’arguzia e il coraggio, lo trattò come un figlio e lo educò come suo degno successore. Alla morte, l’ambasciatrice lasciò al giovane un’eredità invidiabile che egli perse quasi del tutto in un paio di puntate mal riuscite dentro una bettola del porto di Marsiglia. Un po’ perché temeva che il debito contratto gli costasse un arto, un po’ per amore dell’avventura, si era dato per qualche anno alla pirateria nelle acque spagnole e tunisine, con risultati medio-buoni: di quel periodo continuava a scrivere praticamente ogni giorno, compilando la prima, infinita stesura di un romanzo tuttora incompiuto. Madame De Murgé gli aveva infatti anche trasmesso l’amore per la Letteratura, quella dei classici e dei grandi del passato – quell’Olimpo che, dalla redazione di Vertmoire, André vedeva solo con il binocolo.
Uomo dal buon cuore in un oceano di furfanti, dopo due mesi di lavoro, mi promosse da correttore di bozze a editore. In quell’occasione mi consegnò un decalogo accuratamente battuto a macchina che conteneva indicazioni pratiche per il lavoro sui testi: non dimenticherò mai la numero 3: ci sono sempre almeno tremila battute di troppo; o la 7: se un personaggio ride, piange o si stupisce più di due volte a racconto, tale lavoro è da rispedire al mittente in un sacchetto di sterco.
Fin troppo spesso, nella redazione di Vertmoire, il senso dell’iperbole intersecava a forza il piano del reale.

Il mio primo racconto venne pubblicato sul numero dieci della nuova edizione di Vertmoire Revue. Fui io stesso a ritirare le riviste dal tipografo. Aprendone una copia, non riconobbi il mio testo. Le Commissaire Danton l’aveva rimaneggiato senza mettermene al corrente: interi periodi ipotetici erano ora dati di fatto, ogni passaggio lirico era stato tagliato in favore di una prosa asciutta, priva di ebrezza e calore, come gli occhi dello stesso Danton quando si perdevano nel vuoto sconfinato della propria carriera. Davanti alla mia richiesta di spiegazioni, disse: «I nostri lettori ci leggono sempre da sbronzi o, se ci va bene, mentre sono seduti sul cesso. Cerchiamo di non render loro la vita troppo difficile».
Ma non finiva qui, quelli non erano gli unici interventi sul mio testo: Gaieté Soris, un mio compagno redattore, aveva a sua volta cambiato la posizione di alcune parti del discorso e modificatone il carattere di stampa, di modo che la lettura delle sillabe così evidenziate restituisse un messaggio cifrato. A quanto pareva, era prassi per Soris inserire in ogni numero della rivista un messaggio segreto indirizzato a tutti i membri del Comité des Communistes Unis pour l’Automatisation Complète de la Typographie, una frangia rivoluzionaria che faceva capo a certi stampatori russi trapiantati nella Capitale. Messaggi, venni a sapere, volutamente fuorvianti – e in fin dei conti facilmente decodificabili – prodotti per distogliere l’attenzione sia degli avversari politici che della Gendarmerie dagli incontri settimanali del Comité, organizzati sugli spalti del Parc de Princes durante gli exploit dell’allora neonata squadra di Paris St. Germain. A quanto mi risulta, nessuno ha mai indagato sul gruppo in questione. Ne sentii parlare di nuovo anni dopo, in relazione alla comparsa dei primi Word Processor. Ma questa è un’altra storia.

Protestai non poco per il mio racconto, ma dovetti ricredermi perché fu un successo. Andò così: durante una delle sue cene, Le Commissaire ne lesse un estratto davanti a tutti con il suo fare suadente da contrabbandiere algerino; e il giorno successivo una sua adepta che gli aveva giurato fedeltà eterna dopo una lunga ma isolata notte “d’amour”, tale Humblette Hibib, ne fece una recensione sul gazzettino del sesto Arrondissement – il quale però, a onor del vero, trovava buona diffusione anche nel settimo e nel quattordicesimo. Nel giro di un paio di giorni il titolo del mio racconto era sulla bocca di tutti.
Nessuno mi offrì un contratto per una pubblicazione seriale, nemmeno per un romanzo, e nessuno parlava del sottoscritto. Ma era chiaro che la mia “arte” avesse fatto un passo nella direzione giusta! D’altronde, le riviste letterarie come Vermoire erano considerate l’anticamera dell’editoria a larga diffusione: grandi incubatrici di talento e prestigio. Persino Le Mastiff Merluc mi diede una pacca sulla spalla e mi disse che adesso dovevo «cagare un altro racconto davvero grandioso o avrei fatto la figura del deficiente», già la faccia ce l’avevo, a detta sua.

Da quel giorno cominciammo a frequentarci spesso. Le Mastiff era un grande scrittore, me ne convinsi leggendo gli appunti che si portava sempre appresso, in una piccola tracolla indossata dal suo sanbernardo Jimbo. Era tuttavia molto molto pigro. Mi proposi persino di riordinare i suoi scritti: io avrei imparato tanto e lui, chissà, ci avrebbe guadagnato un romanzetto o due. In un primo momento sembrò voler accettare, ma presto capii che intendeva continuare a vedermi solo per non andare a puttane da solo. Merluc parlava da cinico e disilluso, eppure si presentava nei bordelli dichiarando a gran voce che avrebbe persuaso tutte le lavoratrici a «mollare quella squallida vita di troie e fondare una rivista insieme lui, se avevano le cocones per farlo». Sospettavo fosse alla disperata ricerca di un pappone che lo malmenasse: una qualche esperienza di sangue che lo riportasse alle emozioni vissute negli anni da corrispondente di guerra.
Infatti, poco tempo dopo, cercò di convincermi a partire con lui per l’Argentina, eccitato dall’idea di vedere con i propri occhi i disordini e la guerriglia urbana. Non acconsentii, principalmente per codardia, ma anche perché non mi fu mai chiaro per quale parte intendesse schierarsi. «Chi sanguina di più?», era solito domandare con un sorriso storto. Scomparì nel ‘74 e ricevemmo notizie di lui solamente dieci anni dopo, da Washington.

Danton scriveva un singolo racconto all’anno, lo faceva con uno stile che rifletteva un barocchismo carpiato del pensiero, spogliato però di ogni orpello giusto un secondo prima di essere fissato su pagina: ne risultavano righe crude e quasi algoritmiche nelle quali si incrociavano citazioni e rimandi più o meno oscuri, a strutturare un ermetismo che, si evinceva chiaramente dal tono del testo stesso, dipendeva esclusivamente dall’ignoranza del lettore. Per il resto dell’anno si divertiva a scrivere finte interviste ad autori ben più famosi del nostro misero giro: domande assurde e tendenziose accompagnate a risposte provocatorie che venivano pubblicate in un’apposita rubrica di Vertmoire Revue. Egli dava voce alla créme della società letteraria francese e, nelle sue mani di marionettista, anche il più mite autore diventava un animale da preda. Non pago del gioco, che già di per sé aizzava di molto i lettori quando non gli stessi interessati, spesso scriveva di suo pugno invettive da recapitare sotto falso nome a questo o quell’altro autore.
Danton gettava sassi nello stagno solo per il gusto di osservare le onde. In attesa del masso giusto per scatenare maremoti.

Ma dopo tutto in un panorama di lettere ottuse e di ossequio a una norma fin troppo conservatrice, in cui tutte le riviste giocavano a scimmiottare i grandi di inizio secolo, Vertmoire era l’unica ventata di aria fresca, l’unica rivista che trasudava vitalità.
Restava tuttavia la sola testata che non pagava i propri autori, né la redazione, e che era costantemente sul libro debiti di almeno quattro o cinque tipografie. Dove finissero i soldi incassati dalla vendita delle copie – che pure costavano qualche decino in più rispetto a tutta la concorrenza – fu materia di dibattito per lungo tempo e, successivamente, di vere e proprie indagini. I maligni vociferavano di un tesoretto nascosto dal patron di Vertmoire ad Amsterdam, Singapore o Montecarlo, a seconda delle versioni; i più fantasiosi parlavano di un ricatto ai danni di Danton per il suo supposto coinvolgimento nella sparizione del compianto romanziere Paul Gamaere, durante una trasferta a Lugano pochi anni prima. Danton stesso sapeva inventare su due piedi almeno una decina di storie migliori di queste, ogni qual volta gli si facevano presenti delle voci spesa o gli si parlava della necessità di ridistribuire ai dipendenti – lo eravamo a tutti gli effetti – la piccola fortuna incamerata grazie alle vendite.

Ora, lungi da me prendere questa circostanza come alibi per il fatto che ben presto non potei più permettermi una camera in affitto nemmeno nel più infimo ostello, ma ammetto che anch’essa contribuì a generare in me quella “fame” che fece precipitare le cose. Per un periodo di circa due mesi mi feci ospitare da almeno una cinquantina di “colleghi” scrittori, più o meno uno per notte – in redazione già ci dormiva de Samoîne e villa Danton, sebbene sempre aperta alle dame, era stranamente off-limits per i gentiluomini dopo le due del mattino.
Allora funzionava che mi appostavo fuori da caffè e circoli e attendevo che la lettura della serata terminasse. A quel punto, spendendo il nome della rivista, trovavo senza troppi problemi un meschino, uno studente, un intellettuale, uno spirito affine insomma, disposto a offrirmi un divano o un pavimento al coperto per la notte. A Parigi, in quegli anni, ogni scusa era buona per organizzare letture e avvinazzarsi, spesso anche a discapito dei miei piani per la notte, impromptu.
Fu così che una volta finii a casa di un gendarme in borghese, tale Petr Ettaing. Contrariato da una serata senza arresti o abusi di potere, cercò soddisfazione accogliendomi nel suo salotto per poi pestarmi di botte sulle note dell’inno del Front National. Comunque, dalle quattro alle otto, mi lasciò dormire.

Il giorno dopo mi recai in redazione barcollando, con gli occhi di chi intende veder bruciare gli Champs-Élisées.
L’idea era quella di riunire in un solo posto tutti gli autori, gli editori e i critici che erano stati vittima delle invettive e delle interviste false di Danton: un reading sui generis insomma, qualcosa che si vedeva solo per caso in bettole di periferia quando il vino novello prendeva il sopravvento e qualche scribacchino dalla faccia tosta decideva di non starsene zitto durante una lettura; oppure quando i discorsi sulla politica interna o i dissapori riguardo la gestione coloniale facevano partire le mani. Questa volta però avremmo scomodato i più grandi nomi del panorama letterario cittadino: col pretesto di un approfondimento critico, avremmo scatenato dibattiti e su di essi avremmo ricamato vere e proprie battaglie.
Il piano era diabolico ma sconclusionato, sarebbe bastata una dose d’umiltà da parte di qualcuno o la rinuncia ai principi dell’orgoglio per disinnescarlo senza fatica. E invece, forse per cogliere l’occasione di vendicarsi di Danton, forse per timore di perdere la faccia, praticamente tutti accettarono l’invito. Ci sarebbe stata adrenalina, ci sarebbe stato sangue.
Andrè de Samoîne mi prese per la manica e disse che di certo ci saremmo pentiti di quel piano, ma che per nulla al mondo si sarebbe perso lo spettacolo. Io mi sentivo come dev’essersi sentito Oppenheimer alla vigilia del primo test del Progetto Manhattan

Una settimana prima dell’evento, fissato per il 5 dicembre 1974, Pierrot Danton scomparve nel nulla. Il telefono era staccato, i fattorini non riuscivano a raggiungerlo, a casa le persiane erano serrate e la posta si accumulava nella cassetta. Non temevamo il peggio solo perché ci risultava che il nostro boss fosse indistruttibile; e poi la sua dipartita avrebbe lasciato indietro troppe domande, troppi pruriti insoddisfatti, troppe troppe troppe ombre – eravamo convinti che un personaggio come lui, che aveva fatto della letteratura la sua vita, meritasse in cambio dalla dea una conclusione più soddisfacente a livello narrativo.

Fui io a trovarlo, la notte del 4 dicembre, nel bel mezzo di una tempesta mentre passeggiavo sul Pont au Change. Ero disperato perché non sapevo dove avrei passato la notte. Fu un caso.
Ne riconobbi la sagoma sottile, leggermente incurvata sul proprio ego, in piedi sulla balaustra a fissare il gorgo nero là sotto. Quando accorsi a trattenerlo, egli scoppiò a ridermi in faccia perché davvero avevo creduto che volesse buttarsi: ero un cretino a pensarlo, ripeté più volte – una risata isterica, un tossire ironico post-vita.
Disse che mi avrebbe portato a casa sua, ma pareva che fossi io a dover accompagnare lui. «Sto male», ripeteva in continuazione, «Non posso fare questa cosa. Sto troppo male». Ed ecco lì un uomo fradicio di pioggia, di aspettative e probabilmente di alcol, seduto nella propria cucina accanto alla stufa, dondolante sul suo fragile asse mentre contempla i limiti della propria invincibilità. «Sto male».
Posso dire che maturai del tutto mentre lo aiutavo a rialzarsi e lo portavo di fronte alla parete specchio della camera da letto signorile. Insieme scegliemmo gli abiti per il gala e abbozzammo la scaletta degli interventi e degli scontri tra scrittori. Passammo la notte a ridere e a confidarci cose che non possono rientrare in questo resoconto. Pierrot volle che gli parlassi del romanzo che stavo elaborando, mi dette dei consigli e mi disse che era ora cominciassi a scribacchiare qualche bozza, stavo crescendo bene. Avevo cuore, disse. Mi regalò una sua cravatta, cosa che il mio patrigno non aveva mai fatto.
Parlammo di come sarebbe stata la sera successiva: il bar illuminato solo da candele, i volti delle persone distorti dall’alcol e dalla bile, gli astanti che si interrogano sulla natura dell’incontro. Eravamo praticamente là, raccontavo la scena come se fosse già avvenuta: una sfida di invettive davanti all’intero pubblico che rumoreggia nei momenti degli affondi; commentini fatti serpeggiare tra la gente per disturbare i lettori; uno dei due sfidanti che si avvicina minacciosamente all’altro dimenticando la giustificazione puramente letteraria della contesa, gli si fa sotto, nero in volto; qualcuno dal buio lancia quello che all’impatto sembra proprio essere un pomodoro; sullo sfondo della scena s’odono dei vetri infrangersi…
Gli ripetevo che sì, quella successiva sarebbe stata una notte terribile, ma da ricordare: sarebbe stato il punto più alto di Vertmoire Revue e anche la sua gloriosa fine. Hiroshima e lo sbarco sulla Luna. Vidi Danton sorridere e rinascere sotto i miei occhi, più diabolico che mai.

Ci arrestarono tutti a metà serata, quando qualcuno ci aveva già rimesso chi un dente, chi il setto nasale, chi la camicia buona.

Il mio patrigno venne a prendermi sei giorni dopo. Mi aspettava fuori dal carcere con una marea di rimproveri e, fresco in mano, il foglio di estradizione: non avrei potuto mai più rimettere piede in Francia. Venni a sapere che Danton si era dileguato prima dell’intervento dei gendarmi e più di uno tra i presenti mi aveva additato come orchestratore della serata e patron della rivista stessa.
Ad oggi, buona parte delle persone con cui mi capita di parlare è ancora convinta che Danton sia stato solo un parto della mia immaginazione.

Francesco Quaranta

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