La Nuova Verde deve pubbliche scuse a La Nuova Carne. Gli INSELf, involuntary self-published esuli picchiatelli della rosichella editoriale, ce li avevamo in poltrona e pantofole (chi ha capito ha capito) in redazione (perdonaci Kresta, sono cose che “Capitano” dal 2019). L’agnizione conduce “Il simpatico Faraone ©” a una istanza di conciliazione davanti al giudice di Pace Andrea G. Zandomeneghi. Il sogno bagnato è Pedretta al Pasto Nudo (AJÒ!). Il conciliatore introduce Gianni De Martino in Jurodivye: Maktub ovvero Prolegomeni a una storia della bisessualità popolare e mediterranea islamica, e preambola quanto segue*:
Tempo fa mi misi a scrivere un raccontino che parlava di un ragazzo ebreo con cui ebbi una relazione, Guido si chiamava. Volevo soprattutto ricordarlo – trattenerlo dallo scivolamento nell’oblio – a seguito d’una notizia funesta: era morto, mi dissero, era morto di overdose. Mi torna oggi in mente il lavoretto narrativo in questione perché conteneva questo passaggio: «Credo mi attraessi perché mi stuzzicava l’idea di inculare un giovane quadro di Forza Italia, come anni addietro ai magrebini stuzzicava l’idea di inculare gl’europei, per una sorta di spirito di rivalsa, per una specie di ribaltamento dei ruoli, per capovolgere il divario economico-culturale.» Quest’immagine del magrebino penetratore (e in quanto penetratore, attivo, comunque maschio, in una cultura che non consente vie intermedie tra quella maschile e quella femminile) non è antica nel mio immaginario, è anzi abbastanza recente, e la devo, come molte altre cose, a Gianni De Martino che verso la fine degli anni ’80 scrisse un romanzo dal titolo Hotel Oasis pubblicato nella collana Mouse to mouse curata da Pier Vittorio Tondelli per Mondadori. Hotel Oasis è un testo stilisticamente sopraffino («L’abilità dell’autore è proprio nella sua ambiguità di giocoliere della lingua, della parola» scrisse Corrado Augias su Panorama) ma mai formalmente iperbolico e funambolico, è esplosivo senza essere pirotecnico – il pirotecnico: tipico rifugio (o deriva?) narcisistico dell’autorialità italica che esangue contenutisticamente si sforza di perseverare se stessa nell’esistente attraverso dubbi canali di sfavillante decomposizione retorica. È un testo schietto, senza nascondimenti e orpelli – la medesima cosa si potrebbe dire della scrittura di Tondelli – che tratta dei comportamenti omosessuali in Marocco («Affronta con buon esito narrativo e diretta efficacia espressiva un argomento troppo spesso trattato con improprio lirismo e superflua spavalderia» scrisse Alberto Moravia sul Corriere della Sera) che coinvolgono occidentali e autoctoni nella seconda metà del ‘900, argomento a me sconosciutissimo sino ad allora. Ricordo che lessi questo romanzo con ampie digressioni saggistiche di stampo etnografico e linguistico in preda all’eccitazione (anche fisica) e scrissi un post su Facebook appena terminato, sono andato a ricercarlo, dice così: «Hotel Oasis m’ha regalato suggestioni conturbanti ed estatiche, ha ingravidato prepotentemente la mia immaginazione e le mie fantasticherie, ha arricchito le figure del mio eros.» In verità Hotel Oasis aveva fatto di più e non lo aveva fatto da solo, perché alla sua lettura era seguita quella di una prima versione de La città dei jinn, ultimo romanzo di De Martino, che fruga e restituisce lo stesso panorama tematico e narrativo con un’attenzione – questa la peculiarità – al fenomeno della possessione – De Martino ama dire che si tratta del «seguito stilistico» di Hotel Oasis, ma il collegamento tra i due testi è tutt’altro che solo formale. Dicevo che però, al di là dell’immaginario erotico arricchito e galvanizzato, la lettura dei due romanzi aveva «fatto di più» anche se non me ne accorsi subito, non ne fui immediatamente consapevole. Questo «di più» consisteva nell’assimilazione della prospettiva antropologica (nello specifico dell’antropologia erotica magrebina) e nel suo utilizzo come strumento di scardinamento (tramite relativizzazione) del paradigma della normalità. Me ne accorsi durante lo scorso autunno, mentre stavo preparando un intervento per un raduno letterario organizzato in un castagneto sacro dalla rivista Terranullius, avevo da poco iniziato a tenere una rubrica dal titolo Jurodivye (gli stolti in Cristo, i folli sacri, che imperversano nelle pagine di Dostoevskij) su Verde Rivista, una rubrica che si riproponeva di «almanaccare sulla radicalità eteroclita e di smarginamento: testi mistici, pornografici, aberranti, equivoci, deformi», e i ragazzi di Terranullius mi avevano chiesto di parlarne. Non ho mai letto quell’intervento perché per una serie di circostanze non potei partecipare al raduno, ma iniziava così: «La normalità è fatta di limitazioni. Il pudore e il decoro ad esempio. Uno steccato entro cui il normale è circoscritto. Nel mio percorso letterario ad un certo punto mi sono detto: proviamo a sfondare questi due limiti per accedere a un umano più ampio, per quanto a prima vista solo sul versante estetico. Poi ho capito che era la normalità stessa a dover essere sovvertita per accedere alla integralità estetica e questo può procedere per quattro vie che ci vengono in parte indicate proprio dallo sfondamento del decoro e del pudore: il mistico, il popolare, lo psichedelico e l’etnografico. Sovvertita la normalità l’umano esperibile aumenta vertiginosamente, e così anche la dicibilità – ciò che può essere espresso – dell’umano. Un umano integrale.» Ecco, per «etnografico» intendevo l’antropologia sessuale magrebina e dovevo questa alla lettura di De Martino. Penso che in fondo la sua scrittura vada nella stessa direzione della mia, alla ricerca dello «umano integrale».
*Il breve testo qui riprodotto e anteposto ai Prolegomeni di Gianni De Martino figura come postfazione al romanzo (del medesimo autore) La città dei jinn, volume di prossima uscita per La Nuova Carne Edizioni.
Lo schizzo d’autore in copertina è di etere____.
Greg Mullins – professore di arti liberali presso l’Evergreen State College situato a Olympia, nello stato di Washington – ha scritto un libro intitolato Colonial Affairs: Bowles, Burroughs, and Chester Write Tangier (University of Wisconsin Press, Madison, 2002). Egli rivaluta la “letteratura interzonale” di questi tre scrittori in relazione alla teoria queer e postcoloniale. Ogni scrittore riceve un intero capitolo di esame analitico, con letture approfondite dei loro testi principali, in cui Mullins pretende di trovare prove di ciò che definisce “desiderio coloniale” e “nostalgia coloniale”. Tra gli altri esempi di “desiderio coloniale”, Mullins cita anche un mio scritto del 1983, “An Italian in Morocco” (pubblicato in Schmitt, A., and Sofer, J. Sexuality and Eroticism Among Males in Moslem Societies, Harrington Park Press, Binghamton, NY,1992, pp. 25–32).
Colonial Affairs è un sottile ritratto letterario degli autori citati ed è anche un resoconto complesso e sofisticato dei modi in cui il colonialismo e la sessualità si strutturano a vicenda, in particolare come ciò si riflette nella letteratura scritta a Tangeri, in Marocco, dove si sa che i costumi sono, diciamo, un po’ diversi. Sì, ma in che modo? Nel quinto e ultimo capitolo, “Translating Homosexuality”, Mullins solleva alcuni punti interessanti in merito alla disponibilità dei ragazzi locali ad avere «affari» di sesso e rapporti amorosi con gli stranieri, ma arriva a conclusioni discutibili, come dire che Bowles, Burroughs, Chester e De Martino (si parva licet, dal momento che mi tira in ballo) hanno perpetuato o incarnato “le strutture e gli stereotipi del discorso coloniale”.
Sembra quantomeno inverosimile. Nell’atto di voltare le spalle all’America e immergersi nel crogiolo di Tangeri, dove le demarcazioni tra lingua, cultura, nazionalità e sessualità erano in costante mutamento, il loro progetto (e denominatore comune) era principalmente quello della scoperta di sé, o addirittura una decostruzione totale del sé, al fine di raggiungere un luogo al di là, la vera “interzona” del subconscio. Si trattava di riordinare la realtà attraverso la scrittura. Erano (e sono) sforzi letterari animati da un sogno di accoglienza e di fraternità nonostante la barriera delle classi, dei sessi, delle lingue e delle razze che difficilmente coincidono con il “modello mecenate/cliente del commercio sessuale”.
Anche la topografia sfuggente e irregolare di “An Italian in Morocco” (con riferimenti a Tangeri, ma specialmente a Essauira-Mogador dove ho abitato come residente dal 1967 al 1976, la mia “interzona”) è stato un viaggio verso l’Altro. Con la maiuscola perché, come suggerisce la psicoanalisi, non è gli altri, ma l’alterità, ciò che è veramente altro negli altri: l’estraneo e lo strano, l’inquietante (Unheimliche), lo straniero che è in noi stessi e negli altri. Ho così ripreso “An Italian in Morocco” in forma romanzesca, e scritto La città dei jinn, per La Nuova Carne Edizioni. Dove, tra il molto altro, si potrà vedere (perlomeno così credo) che il viaggio in Nordafrica, nell’Interzona, non è animato da alcuna forma di “desiderio coloniale”, come suggerisce Mullins, ma ha più in comune con le “suole di vento” e la “ragionata sregolatezza di tutti i sensi” di Rimbaud che con l’“orrore” che il colonialista Mr. Kurtz lamenta in Cuore di tenebra di Conrad.
Ora Andrea Zandomeneghi mi chiede un testo “psichedelico e/o etnologico e/o impudico” da pubblicare per la rubrica Jurodivye che tiene su Verde rivista, e suggerisce che potrei fare “un racconto con digressioni ma anche un piccolo trattatello.”
In effetti La città dei jinn, stilisticamente il seguito del mio precedente Hotel Oasis (Mondadori, 1988), prende spunto dalla ricerca etnografica sul campo del protagonista, bianco ed europeo, e contiene osservazioni antropologiche, incarnando la tendenza radicale della nuova etnografia. A differenza degli anacoreti della scienza che non utilizzano il proprio corpo e le proprie emozioni come strumento di ricerca, si produce un sensibile spostamento. Anche qui, nella Città dei jinn, come notava Georges Lapassade recensendo Hotel Oasis, “invece di verificare delle ipotesi da dimostrare o respingere con esperimenti, si parte dall’esperienza vissuta per elaborare delle ipotesi”. La città dei jinn illustra questo rovesciamento e lo evidenzia fin dalle prime pagine con il racconto di una rottura esistenziale e una brusca entrata sul campo, Mogador, con il suo erotismo segreto. L’esistenza serve da trampolino di lancio a uno studio etnografico che costituisce in questo etnoromanzo – che è anche un viaggio attraverso la gioventù e una interrogazione sulla scrittura, la morte e il passare del tempo – il momento della riflessione.
Anzitutto si osserva che parlare di «sessualità» in paese islamico, è già operare una traduzione da una lingua all’altra, da una civilizzazione all’altra, e ancor più da un’età del mondo, perché la nozione di «sessualità» (“questa rottura permanente della spina dorsale”, si dice nel romanzo) data dalla metà del XIX° secolo in Europa e appartiene a un insieme discorsivo segnato da quello che Michel Foucault ha indicato come l’emergenza della scientia sexualis, il «sapere sul sesso», in opposizione a civilizzazioni dove il sesso non è la posta di un sapere, ma di un’ars erotica. Fino a tempi recenti, nella lingua araba e la concezione islamica non vi sono le nozioni di «sessualità», di «istinto sessuale» e ancor meno di «rapporto sessuale» secondo i canoni di un discorso medico e scientifico europeo. Occorreva quindi articolare gli affari di sesso narrati nel romanzo in base all’universo del discorso in lingua araba, che per dire gli affari di sesso impiega perlomeno 2500 termini, secondo Al-ma’ajim al-jinsy (lessico sessuale, Beyrouth, 1991). Tutti termini provenienti dal deserto beduino e che non hanno niente a che fare con il discorso medico-scientifico.
Qui s’impone una digressione linguistica e a bassa intensità psicoanalitica, diciamo. La lingua araba e il testo coranico usano il nome comune «sesso». Si tratta del termine «farj» che l’Enciclopedia lessicale del Lisân definisce così: “Difetto tra due cose, quello che si trova tra le due gambe. Si dice che è la mancanza tra due cose, l’interstizio, il buco che fa paura. Lo si chiama farj perché non è tappato; è la parte cieca, la cosa dell’uomo e della donna.” Solo Allāh l’Uno è Al-Ṣamad, letteralmente “il non fissurato”, senza cavità, buchi o riserve da riempire. L’etimologia del termine «farj» raggiunge grosso modo il concetto di sesso in italiano, parola che deriva dal participio passato del verbo latino secare (secatum, sexatum, sexum), che vuol dire separare. Ora il termine «farj» indica un “vuoto” originario comune alla costituzione mitica dell’uomo e della donna, ed è un sostantivo che non diventa ma aggettivo in lingua araba per dire «sessuale» o per creare la parola «sessualità». Per questo quando occorreva tradurre, a partire dal discorso scientifico e medico europeo, i termini di sessualità, di sessuale e di rapporto sessuale, si è fatto ricorso a un altro termine, quello «jins».
Il radicale «jins» désigna «l’assonanza» e «l’apparire dello stesso genere e specie». È con questo termine che si tradurrà ovunque la nozione di «rapporto sessuale». Si dirà per esempio «relazione jinsyya», letteralmente «relazione generica», modalità che non esisteva nella lingua, i testi e i discorsi arabi fino al XX° secolo. Il termine «jins» – che peraltro somiglia al genus latino, dal quale deriva genere e gender – permetterà in epoca moderna lo spostamento degli affari di sesso nel registro genitale e comportamentale com’è apparso nel discorso scientifico dell’Europa del XIX secolo.
Quanto alla parola «farj» (buco, vuoto), con l’apparizione del gender (dunque del rapporto sessuale), questa non designa più nel mondo arabo il sesso dell’uomo e della donna, ma solo l’organo sessuale della donna. Lo ha notato incidentalmente lo psicanalista franco-tunisino Fethi Benslama, a proposito della traduzione di un delirio sulla donna-apertura-vuoto-voragine. In tal caso, il termine arabo «farj» sarebbe, oggi, l’equivalente di «fessa», con il significato di vagina o vulva in uso come voce popolare dell’Italia meridionale per indicare i genitali esterni femminili.
In questo fiorire lessicale degli affari di sesso in lingua araba, un concetto prevale da sempre per indicare l’universo dello scambio attorno al sesso: quello giuridico di «nikâh», che indica la domanda di matrimonio come coito-godimento-legale. Secondo la giurisprudenza malikita, nel capitolo degli affari di compravendita, si tratta della “domanda e successivo acquisto dell’apparato generatore della donna, con l’intenzione di goderne”. Sarebbe il solo modo, in teoria, con cui è lecito fare l’amore in terra islamica. Tutto il resto, secondo la giurisprudenza islamica, è «al faisha», “abominazione”, un crimine-peccato. Dal termine giuridico islamico «nikâh» deriva il verbo niquer, termine pied-noir e in gergo dialettale darija, che significa “scopare”. Il protagonista di La città dei jinn lo apprende dal suo amico Aissa quando vanno a scopare sulla spiaggia di Sidi Kaouki, nei dintorni di Mogador. Apprende che atto e parola sono designati dalla stessa parola quando si tratta del gorgo vuoto del godimento. Il sesso maschile è peraltro considerato un «amâna», un deposito virile valorizzante e vuoto, affidato ad Adamo dal Creatore. Ora, la parola corrisponde all’«amen», vale a dire al «così sia» della liturgia cristiana e islamica (âmîn). Insomma, con il cazzo o zob del compagno in mano, l’io-narrante di La città dei jinn, apprende che l’affare del sesso prima della sua riduzione scientifica comportamentale, non separa il sesso e il linguaggio. Tanto è vero che in ambito popolare si dice che il cazzo non vuole pensieri. Dunque, Amen!
Non a caso, per interrogare «il sesso» in questo universo mediterraneo e popolare del Nordafrica islamico, il protagonista si mette all’ascolto delle parole scambiate tra gli uomini e i ragazzi in un bar, o meglio in un caffè moro, che egli definisce, con riferimenti al sufismo e alla letteratura bacchica, “taverna della rovina”: un luogo proibito alle donne e ai bambini, dove i maschi si radunano fraternamente scambiandosi cibo e pipe di kif o sigarette, mamme gli uni degli altri, e si “toccano” di continuo per rassicurarsi, tra i fumi del kif, e non senza ironia, della loro virilità, ovvero la «rjoulia» (rajûla, da rajel, “uomo, signore”). Una pratica, quella del toccarsi tra “signori”, che rende tali formazioni sociali estetiche, nell’accezione di aisthesis, ovvero di coinvolgimento dell’esperienza sensoriale e corporea nella produzione di senso ed esperienze omosociali. La mascolinità allora si compie tra pari, tra ‘fratelli’ (akhwa o ikhwa, sing. khou) nell’ attesa del raggiungimento della autonomia e del matrimonio, che preme come un macigno nelle aspettative e nelle rappresentazioni pubbliche di questi giovani che si divertono a fare «mujûn».
Si tratta di una forma di “libertinaggio” che giunge fino alle facezie e alle arguzie, insomma al witz e a quello che Andrea Zandomeneghi chiamerebbe “testo impudico”. Tra i ragazzi del Maghreb il mujûn ha dei codici ben precisi. Comporta infatti, per esempio, l’asservimento volontario del più piccolo al più grande (“Vammi a comprare le sigarette!”). Ci si abbraccia, si cammina a braccetto, e questa intimità prossemica diviene intimità culturale. L’erotismo tra uomini vi gioca un ruolo importante. Ma la nozione di omosessuale per designare in modo univoco una persona non esiste. Quello che noi chiamiamo omosessualità viene spesso vissuta come una sessualità di sostituzione, un ersatz, o eventualmente una bisessualità “attiva”. Porgendo l’orecchio ai discorsi che si fanno in arabo, ci si accorge che è molto ricco e ricopre realtà differenti e ben distinte. C’è la realtà di quello che penetra (louat) e di quello che si lascia penetrare, detto «assas, atai, zamel».
Ricordo che Franco Buffoni, Ordinario di Critica Letteraria e Letterature Comparate, nel suo libro-saggio Zamel (Marcos y Marcos, 2009) osserva giustamente che il termine «zamel» ha origini nobili perché si trova anche nel Corano e significa ‘l’uomo che trema per il freddo’. Ed è riferita al Profeta, che aveva appena ricevuto dall’arcangelo Gabriele il gravoso incarico di salvare l’umanità. Dunque, è terrorizzato e chiede alla moglie Kadija di coprirlo con coperte, perché si sente zamel. Poi, il termine, nel linguaggio volgare magrebino, è passato a indicare l’omosessuale, ovviamente passivo (l’omosessuale attivo viene considerato uomo e basta). Al punto che insegnanti e maestri coranici evitano di leggere quel versetto agli allievi”. Ho notato anch’io che quando a scuola si narra che il Profeta divenne preda dell’Angelo e fu colto dal freddo, piegò la testa e disse: “Copritemi, copritemi!”(ZML, ZML!) tutti si mettono a ridere. L’insistenza sulla suddivisione attivo/passivo è una caratteristica tipica delle società a struttura sociale patriarcale contadina. Un equivalente della parola «zamel» con il significato offensivo di “frocio” si trova nel “recchione/ricchione” del Sud italiano. Dove, per ritorsione, l’attivo viene chiamato ironicamente “o’ maschio ricchione”.
Vi sono quindi gli “attivi” e i “passivi”, perché l’aspetto versatile delle pratiche di sesso tra uomo e uomo in Occidente sembrano meno evidenti che in Maghreb e nell’Oriente. E la differenza morale è enorme anche se a priori il soggetto non è messo sulla piazza pubblica. La morale vi dirà che sono quelli che amano farsi penetrare a essere i veri pedé, pervertiti, etc. L’importante è quindi farlo senza dirlo né renderlo visibile. In una società non della colpa interiorizzata, come quella europea, ma della vergogna («hchouma») se una cosa non passa nel discorso e non è vista in pubblico, è come se non fosse mai accaduta. E talvolta, specialmente in ambiente popolare, riesce anche a sfuggire al linguaggio del Potere o biopotere e anche al controllo (democratico e progressista, si capisce) dei guardiani dei bisogni e bisognini della gente. Il protagonista di La città dei jinn dice: “È fare come uno che distrattamente scrive un rigo e poi senza indugio lo cancella.”
In una società chiusa, una vera e propria risorsa vitale è costituita dalla dissociazione. Uso il termine “dissociazione” non in senso patologico, ma mutuandolo dagli studi sulla trance e gli stati modificati di coscienza di Renato Curcio e di Georges Lapassade. La dissociazione psicologica e culturale è un risorsa vitale, antropologicamente fondata, a cui si ricorre per sopravvivere quando il corpo e la propria sensibilità sono sottoposti dal potere a un’amputazione relazionale e alla torsione di ogni senso e di ogni linguaggio.
In paese musulmano, la dissociazione a cui ricorrere per tenersi in vita è avere rapporti omosessuali e poi negarli, come se non fossero mai avvenuti. In Maghreb tale forma di dissociazione, quasi un annullamento del tempo, è rinforzata anche dalla tradizionale separazione del tempo in «jidd» (serio, utile) e «hazl» (leggero, futile). Jidd è la famiglia, la religione, la moschea; hazl sono i festini tra celibi, il bar, i viaggi, le fiere paesane o moussem. Una stessa persona può fare o dire cose illecite (haram) durante un festino tra celibi, ad esempio bere alcolici, usare parole grossolane, fare l’amore con una prostituta o con uomo o un ragazzo. Ma poi, finite le vacanze, ritornato dallo spazio ludico nell’altro spazio, quello della famiglia, può non riconoscere quelle parole e quegli atti come propri. Non c’è alcun problema, come diremmo noi, di coscienza, perché ciò che non viene nominato non esiste. Come scrivere un rigo e poi, distrattamente, cancellarlo.
La dissociazione dell’omosessuale maghrebino può essere simile a quella poeticamente proclamata da Rimbaud, quando dopo gli “amori di tigre” con Verlaine, seguiti dal famoso processo di Bruxelles “per rapporti immorali”, proclama: “je est un autre” “io è un altro”. O a quella del giovane Torless nel romanzo di Musil, quando durante un rapporto omosessuale con Basini che in collegio si è infilato nel suo letto, sentendosi trascinare via, si attacca come in trance a un pensiero: “Questo non sono io! Non sono io! Domani sarò di nuovo me stesso. Domani”. Si tratta una dissociazione comune in Maghreb, dove molti hanno attrazioni multiple, ma non si definiscono come bisessuali, né omosessuali. Si considerano uomini e basta anche se scopano transitoriamente con dei ragazzi, in attesa del matrimonio, per gioco, per piacere. E poi vi sono anche ragazzi che hanno affari di sesso solo con gli uomini.
L’omosessualità in quanto tale non esiste nel modo in cui la intendiamo in Europa, e si fa una larga distinzione tra la pratica di atti omosessuali e essere omosessuali. In effetti, percepita dall’esterno, come una fase transitoria, il tempo della gioventù, prima del progetto matrimoniale, non viene assimilata a una omosessualità strutturale ma piuttosto di ordine congiunturale. Questo sdogana in parte l’inculatore (liwāṭ) da un punto di vista morale e religioso e costituisce uno dei punti più importanti della delimitazione degli affari sessuali tra uomini, per molti ragazzi più importante anche della delimitazione eterosessuali/omosessuali. Regna quindi il silenzio, dovuto anche all’emergenza della piccola borghesia precariamente installata al potere, paurosa di tutto e preoccupata di salvaguardare, perlomeno in apparenza, la morale tradizionale. Una morale ancorata a una mentalità patriarcale di origine arabo-beduina e all’islàm giurisprudenziale degli ulema e dei mullah, in preda alle loro superstizioni metafisiche.
Il tradizionale veto religioso che colpisce le sessualità extramatrimoniali nelle società islamiche e il timore di dover contestare quello che “è scritto” (maktub) nei testi fondamentali, fa sì che non si vedrà mai qualcuno dire in televisione, nei libri o nei giornali in lingua araba: “Gay, ecco i vostri diritti”. Condannata dai testi fondamentali e dal Corano al pari della “fornicazione” e dell’adulterio (zina), l’omosessualità non ha posto e su di essa, nonostante la pratica diffusa e la tradizionale bisessualità araba e mediterranea, regna una specie di calma vittoriana. Una calma solare e solo apparente. Perché ogni tanto il puritanesimo persecutore si risveglia e mette in galera a suon di botte e processi spettacolari uomini e ragazzi visibilmente gay, bisessuali e transessuali, in base all’articolo 489 con pene fino a tre anni di reclusione. Malgrado le trasformazioni sociali, politiche ed economiche, l’ideologia religiosa pretende di fossilizzare i rapporti intersessuali in qualcosa che resta immutabile nel tempo, limitato e paternalistico.
Insomma, si trattava di attraversare una cultura e una società arabo-islamica del “si fa ma non si dice” – scissa e come straziata tra arabizzazione e occidentalizzazione – con i suoi riti sessuali e le sue convenzioni non meno obbliganti dei riti e dei codici europei, anche “gay, ai quali il viaggiatore cerca di sfuggire. Il protagonista non è partito per il Nordafrica solo per condurre un’inchiesta etnografica sulle pratiche sessuali locali: è partito per viaggiare, o come si legge nel romanzo, per vivere: “Volevamo solo vivere, non conoscevamo sogno più bello e più crudele di questo”. Ma nel corso del viaggio si confronta con la realtà di una dissociazione più intensa che altrove tra le pratiche sessuali reali e i discorsi. Emerge così una società in cui la denegazione della vita sessuale reale è sistematica. Ufficialmente l’amore dei ragazzi e la bisessualità popolare e mediterranea dei maschi (una “omosessualità etnica”? ) non esiste, ma – come accade anche con la canapa indiana e l’hashish, invisibile e quindi “inesistente” per chi non la cerca – se cerchi un cazzo o un culo con cui avere a che fare ti accorgi che le omosessualità ( per usare un termine europeo dall’odore di cloroformio) sono ovunque: non concentrate in una minoranza sociale e visibile in luoghi specializzati come in Occidente, ma diffuse e sommerse in tutta la società. Sommerse e invisibili come i jinn, creature avviluppate nell’Ombra che vivendo al buio sviluppano nuovi organi. Questa omosocialità diffusa è la rivelazione fondamentale tanto del mio racconto che delle osservazioni di etnometodologia maghrebina inseriti in La città dei jinn. L’etnografia è già nelle pratiche reali prima che nelle riflessioni e la teorizzazione. Non si tratta di “desiderio coloniale” o di legittimare ideologicamente pratiche non assunte come avrebbe fatto André Gide utilizzando Nietzsche per giustificare gli amori omosessuali del protagonista de L’Immoraliste. L’etnografia a cui approdiamo con La città dei jinn è infatti parte integrante di una più generale strategia di sopravvivenza e si articola tra la vita, la scrittura e la riflessione.