Jurodivye è una rubrica di racconti che almanacca sulla radicalità eteroclita e di smarginamento: testi mistici, pornografici, aberranti, equivoci, deformi. Indulgendo alla psichedelia, all’irregolarità, al degrado erotico e mentale, alla pneumatologia, all’anfibologia, alla psiconautica, alla teratomorfia. La cura, bimestrale circa sempiterna invero, è di Andrea Zandomeneghi, che oggi propone Alternatività conflagrante, un testo di Gabriele Esposito illustrato da etere____.
In principio c’era il tutto e il tutto era lei, dottore, anche da studente. Era lei incravattato, bianco incamiciato, inchiodato con il pantalone di fustagno agli alti scranni dell’università degli studi: ultima fila dell’aula anfiteatro, sempre, come tutti i ragazzi importanti. Le teste degli altri al livello dei suoi piedi, e i piedi degli altri al livello delle teste di secondi altri e così via; infine, la bocca che predica e insegna per un’ora e mezza, lì, al livello del mare, di fatto invisibile ai suoi occhi.
Lei, dottore, era quel tipo di studente che – si sa – un giorno sarebbe entrato ogni mattina per ultimo negli uffici e si sarebbe seduto all’ultimo piano di uno degli ultimi grattacieli costruiti in città. Gli ultimi saranno i primi, diceva quello. Grossomodo.
E grossomodo lei si laureò, dottore, si laureò con un giudizio a doppia cifra: niente di eclatante, un punteggio atteso dalla sua cerchia. L’apice della tabellina dell’undici – il numero più famoso d’Italia – per lei rappresentava solo qualcosa di extracurricolare: centimetri, collegati alla prima o alla terza delle tre misure con le quali si descrive – riducendolo, come poi si riduce il maschio ai suoi diciotto centimetri – il corpo delle ragazze: il suo maggior intrattenimento nelle aule, nei corridoi e nei bagni del complesso universitario.
Soprattutto le piaceva marcare il territorio così come fanno i cani. Le era permesso in silenzio, tra il rossore di guance, come a tutti i veri primi del mondo.
Prima dell’atto, con i testicoli ancora pieni e gonfi, lei soleva svuotare la vescica contro quella carne tiepida che da ora in poi avrebbe considerata come sua, per sempre. Se anche il bis con la stessa persona poi magari non ci sarebbe stato, il ricordo sarebbe comunque rimasto perenne: la visione di quel corpo in corridoio, l’odore del piscio nella mente, e poi un altro corpo, stessi odori, identici sapori.
Ora invece, di fianco a te – Francesco – dorme il cane.
L’animale dorme la maggior parte della giornata, dorme tra i propri peli caduti, la birra spanta, la polvere e i goldoni usati da non sai chi né quando. Lì, dorme di fianco a te.
Bevi a canna ampi sorsi di vino rosso, metti giù la bottiglia; ti soffermi sul tondeggiare del tuo ventre. Pensi alla forza di gravità che ti tira i capezzoli, ogni giorno che passa più vicini al centro della Terra. Ricordi gli addominali di una volta ormai ricoperti da grasso e villi grigi, quei villi che con pazienza sempre trascinano frammenti di cenci all’interno del tuo ombelico secondo un fenomeno fisico che non hai mai ben capito. Giocherelli con le dita con la sostanza scura che ci trovi dentro.
Dottore, si ricorda le sessioni di plank in palestra? Il record di quindici minuti in posizione d’asse – il corpo tutto teso – il metallo generato attorno all’intestino, un intestino da lei tenuto sempre in buon ordine come ogni cosa, un clistere quotidiano per allontanare le impurità. Un motto aziendale.
Ora Francesco ti alzi per stirare la schiena, passi i polpastrelli secchi a tastarla, odore di bosco, saranno i funghi che crescono sulla cute; oppure solo un impressione, forse la terra ben seccata sulla pianta dei tuoi piedi, certo non la merda che infesta l’angolo del vicolo. Svuoti il contenuto di una bottiglietta d’acqua sui palmi delle mani, le sfreghi l’una sull’altra. Il prurito ha preso possesso del tuo scroto, devi liberartene senza rischiare di nutrirci gli stessi parassiti che pasteggiano con il tuo dorso. Allarghi i pantaloni, entri e ti gratti con entrambe le mani, fino a che la goduria diventi dolore, fino a che i coglioni ti sembrino troppo rossi, spessi come il cuoio.
Le comunicano, dottore, che l’Esmeralda è in sala d’attesa; le domandano se può passare e così Esmeralda passa, la saluta con un cenno del capo, lei – il capo – ricambia. Esmeralda si infila esile sotto la scrivania, lei dottore sorseggia un vodka martini e chiude gli occhi, sente la mano che le allarga i pantaloni, che si infila tra le carni. Lei reclina il capo oltre il poggiatesta della sedia ergonomica, deglutisce il liquido così freddo da essere rovente e pensa alle movenze di quel tentacolo molle ora poggiato sul suo personale sacco cutaneo, ben depilato ieri pomeriggio dallo staff. Con un click del mouse, invia quell’email urgente.
Francesco, tu più in là, per terra, tieni la roba: sono due pantaloni, tre mutande – di cui un paio senza buchi – qualche calzino, il maglione misto di lana e terriccio per quando fa freddo. Le Lacoste sbrindellate dentro a un sacchetto di plastica dell’Eurospar. E ancora più in là, oltre la stradina tua: il resto della città tua, il mondo tuo, il tutto.
Avevi proprio ragione, Francesco: il tutto sei ancora e sempre tu: il mondo tuo, la città tua – la stradina tua – sono vuoti, e tu lo sai. La scelta fu tua e solo tua. Fare sparire la gente fu un vero desiderio: qualcuno lo esaudì, non sai chi né perché, né tanto meno ti ricordi quando. Scegliesti di rimanere qui, e basta. Chi rimase di là, beh, quello non sei più tu.
Ti guardi nel frammento di specchio che tieni in tasca: se il fisico non ha ceduto del tutto, è di certo per l’assenza di malattie che l’assenza di persone ha facilitato.
L’odore nell’aria, però, è sempre quello dei giorni dell’università: il piscio, l’unica cosa che ancora oggi ti consola, perché oggi lo tieni in ogni momento addosso a te, nei vestiti che non lavi, nei vestiti sempre gli stessi. L’odore ti serve a produrre per associazione mentale gli stessi ormoni che rilasciavi nel sangue dopo ogni coito. L’odore dei tuoi cessi all’università e il calore del corpo: oggi quello dell’animale che è lì con te, tua unica compagnia.
L’Esmeralda finisce quello che doveva fare, giudica la sua performance come buona – tra un sette e un otto – poi, lei dottore, si alza dalla scrivania e conclude la sessione alla vecchia maniera, marchiando il territorio. Esmeralda chiede di poter fare una doccia. Ne ha facoltà.
Lei si risiede, sospira, tira fuori la scatola dei Montecristo dal cassetto e si rilassa ascoltando il rumore dell’acqua che cade sul marmo, nella stanzetta adiacente.
Ti accendi una sigaretta. È di marca, è filtrata, puoi perché ti servi tranquillo dal tabaccaio in fondo alla via, lui non c’è mai così come tutti gli altri, ma la mercanzia sì, c’è. Dalla mercanzia sei circondato, le botteghe sono lì, a disposizione, alcune aperte, altre apribili, nessuno a gestirle.
Tuttavia, Francesco, sono poche le cose che prendi da questo aggregato di materia a tua disposizione. Il fumo, certo, poi qualche pagnotta, bottigliette di acqua minerale da settanta centesimi di euro, spesso naturale, a volte con gas se i frigoriferi li trovi accesi. Un limone ogni tanto, qualche foglia di rucola selvatica per allontanare lo scorbuto, ché il mendicare da soli in una città vuota di gente – ma ben stivata di roba – è un po’ come essere un marinaio in una nave sempre rifornita di frutta fresca dove però non ti puoi fare il culo di qualcun altro quando ne hai voglia, e dove nessuno vuole farsi il tuo. Non c’è nessun corpo oltre alla tua carcassa maleodorante e alla salsiccia di pelo che ti accompagna, qui dentro.
Eppure sei contento. Lo stare seduto in un angolo ti dà tutto quello di cui hai bisogno: giornate intere a fantasticare su quella che sarebbe potuta essere l’alternativa dopo la conclusione degli anni di studio. Non hai idea se il grande aziendalista sia ancora lì, da qualche parte, che si danna nel suo presente rigido, la sua esistenza bloccata, il tempo che certo non gli appartiene.
In fondo, questo presente alternativo è tutto quello che è altro da lei, dottore, lei che è sempre innanzi a un computer aziendale, lei che pulito, scontento e stressato detta ordini a subordinati puliti, scontenti, stressati. Lei che genera profitti, stipendi, che mantiene famiglie di colletti bianchi e famiglie di colletti blu e soprattutto mantiene se stesso e mantiene mogli presenti e passate e mantiene i figli suoi e quelli loro, figli di nessuno che proprio ora intasano le aule della pubblica e privata istruzione – e i buchi di cui usufruiscono – con tutti i fluidi corporei di cui sono capaci. Essi si preparano a diventare lei; sono già lei. E poi certo, mantiene le figlie dei suoi coetanei, le figlie che in termini letterari – in cambio ogni tanto di qualche stato allotropico del carbonio incastonato su montature di metalli ricercati e preziosi – fanno quello che metaforicamente le fanno anche i suoi dipendenti più solerti per avere promozioni, aumenti, Mercedes aziendali. Sorride, getta il sigaro per terra, nel parquet ben oliato. Spegne il mozzicone con il tacco d’una Church’s. Esmeralda in gran tiro lascia il suo ufficio senza salutarla. Arriva la risposta a quell’email, apre e legge.
Tu Francesco sorridi tra le rughe al pensiero di lui, pensi di essere riuscito a evitare tutto ciò, in quell’esatto momento, con una scelta precisa, quando ancora prima di laurearti riuscisti a fare scomparire la gente da questo posto con il solo utilizzo della ragione. Per sempre.
Quando vuoi dai l’ultimo tiro alla cicca, prendi in braccio il tuo cane e inizi a riempire con la fantasia e con gli occhi spalancati questa città vuota. Ti svecchi, ti dai una lavata, siedi comodo in strada e pensi che, ad esempio, avresti potuto campare facendo il pittore. Dipingere con la mente, il colore che solo segue le direttive del tuo pensiero. Un po’ come le relazioni che i subordinati le inviano per i suoi commenti, dottore! Non ti servono tele né pennelli per produrre la tua arte. Devi solo immaginare le fattezze del prodotto finale e lasciarti andare. Ci penseranno i subordinati, dottore.
Chiudi gli occhi e smetti di divagare. Questa città è già abbastanza stregata di per sé che in effetti non vedi un vero motivo per inserirci anche incantesimi del genere. Ma forse per te, ex studente di economia aziendale, una carriera alternativa da poeta sarebbe stata più semplice di quella da pittore? Avresti potuto semplicemente scrivere di notte e nei fine settimana, ed essere felice. E invece andrai in azienda, e farai quel che dovrai fare. E otterrà ottimi risultati, dottore!
No, non hai bevuto abbastanza vino, tu puoi immaginare meglio di così, puoi immaginare meglio di quello che è successo per davvero. Da ragazzo, amavi leggere storie di draghi.
I draghi, sempre loro, sempre noi. Tu Francesco pensi che per ogni drago in circolazione ci dovrebbe essere anche un San Giorgio a contrastarlo, limitarlo, infilzarlo. Scuoiarlo.
Storie di draghi e storie di eroi, quindi, venuti da lontano a portar loro la giusta punizione. Magari usando come arma letale le cose che più il drago bramava. Un drago accumulatore di tesori? Eccolo annegato sotto un’abbondante pioggia d’oro.
Lei, dottore, cosa ne pensa? Salva il file Word, lo rimanda, spegne il computer, scende in garage, accende l’auto, torna a casa.
Un’ombra interferisce con i tuoi pensieri di povero vecchio. Non è il cane, lo senti ancora caldo in braccio; apri gli occhi, non dovrebbe esserci nessuno qui in giro eppure questo corpo, alto e forte qui davanti a te, è presente per davvero. Nudità divina. Gambe divaricate, mani all’altezza dell’inguine, qualche secondo e poi se ne va: scompare per sempre insieme a tutti gli altri. L’uomo ti ha appena dimostrato un po’ di carità: e non c’è denaro ai tuoi piedi ma solo l’odore di un tempo che emana fresco e più forte del solito dai tuoi vestiti.