Che fai, ragazzo sullo schermo, con quel rasoio? Pubblico Jurodivye numero sei. Il primo redattore a rispondere alla chiamata di A.G.Z, non poteva essere altrimenti, è Andrea Frau, “più valente redattore della storia di Verde, colui che questa storia ha scritto e che ha contribuito a farvi leggere” (cit. imperitura). Mancava da un anno, ne sono sembrati dieci. Il baratro sotto la pelle: la tua opera qui non è conclusa, Capitano, noi vogliamo continuare a leggerti e così speriamo di te.
Schizzo d’artista di etere____.
Il grosso coltello dal manico dorato e glitterato è la sua foto profilo.
Vi piace osservarmi mentre mi tagliuzzo, vero?
Passo delicatamente la lama sul mio collo, mi accarezzo come vorreste fare voi, il mio coltello è la vostra mano. A volte mi chiedete un tocco delicato, poi più profondo, come se voleste stringermi a voi e lasciare una traccia del vostro passaggio. Il mio sangue è la testimonianza del vostro amore, è pulviscolo di supernove, la scia di un miracolo che si rinnova, radiazioni che mutano il corpo e mondano il cuore a distanza di anni, la polvere dopo il crollo della torre di Babele, l’eco delle trombe dell’Apocalisse.
L’ex piccolo attore prodigio vandalizza la propria candida pelle e frotte di Magi accorrono per omaggiarlo con i loro doni.
Alle sue spalle i poster dello show televisivo vecchio di vent’anni, un pupazzetto con le sue fattezze, action figure e un cofanetto dvd impolverato pubblicato dieci anni fa.
Più mi taglio più escono pop-up, lucine al neon come quelle dei negozi diroccati nelle strade deserte, e colori squillanti in modo irritante, come make-up eccessivo su cadaveri, musichette chiassose come gingle che risuonano a ogni morto portato in obitorio, e commenti, apprezzamenti, insulti, desideri irrealizzabili come quello di replicare la scena del cane andaluso.
Sono in guerra, le vostre notifiche oscene e tenere mi bombardano, ma io mi sento al sicuro nel rifugio della mia stanza.
Tutte le persone che soffrono meriterebbero i premi che ricevo io. Almeno così il dolore avrebbe un senso.
In un baloon la richiesta: «Puoi inciderti il mio nome sulla coscia?» Il ragazzo fa uno sguardo finto innocente, sembra dire: «Certo che sei un monellaccio…» e poi sorride, non riesce a tenere la posa ingenua a lungo, fa una smorfietta compiaciuta, sordida, e inizia a marchiarsi la dedica. Il committente entusiasta lo gratifica, rinnova l’abbonamento, dona mille gifts ed eiacula un torrente di faccine adoranti ed entusiaste.
Pensate al ragazzo come a un animale marchiato, auto-schedato come un prigioniero del lager, niente di più sbagliato… Egli ama segnare sulla pelle i nomi di chi lo desidera, è una statua che brama lo sfregio del turista, una fonte battesimale abbandonata in cui piscia il barbaro, un monumento vivo, una religione morta con adepti zombie ostinati. Sarà monito del tempo che tutto corrompe.
Vorreste toccarmi, sfiorare la mia pelle, tendete la mano verso di me come Adamo ne La creazione, ma non riuscite ad arrivare a me; il ramo col frutto si allontana sempre più, repliche de supplizio di Tantalo.
Quando mi ferisco stabiliamo un contatto, entriamo in intimità, sono alla vostra mercé, soffrite per osmosi, voi siete il taglialegna che piange ogni volta che abbatte un albero. A ogni colpo d’ascia un singhiozzo. Dal tronco squarciato cola una resina appiccicosa, luminosa, il boscaiolo preme le sue labbra sulla corteccia e sugge il nettare con voluttà. Siamo condannati a recitare queste parti, non possiamo sottrarci. Qualcun altro si masturba mentre assiste al nostro dramma. Chi osserva i voyeur?
Siete rabdomanti, la mia mano è il vostro drone, cosa cercate dentro di me? Un’acqua che appaghi la vostra sete? Cercate forse la mia anima, oppure la vostra? Siete come proto-coroner che fanno autopsie per procura; vi esercitate forse per il futuro? Volete mappare il corpo umano alla ricerca del dolore? State tracciando col coltello un labirinto per imprigionare il mostro che vi sentite dentro? Sono grida d’aiuto in braille per demoni ciechi? Sono come un donatore di organi, non dovrei fare domande, mi basta sapere che vi sono utile, che vi elargisco momenti di pace, non mi dovrebbe interessare altro. Vi prometto l’anonimato, come fa Dio con chi lo invoca. D’altronde il mio è solo un corpo, carne sacrificabile, nulla in confronto al vostro piacere. Un piacere condiviso è diluito, disperso, il piacere egoista, assoluto, invece è totale, non si preoccupa di nessun altro. I sensi di colpa sono misere dighe che possono solo rallentare l’ineluttabile inondazione. Dopo l’orgasmo ci sarà solo non pensiero, silenzio, per un attimo, poi arriverà una notifica, uno squillo, una lucina, un nuovo abbonamento a strapparci dalla pace, proprio come quando nascemmo.
Il mio corpo è la vostra tela bianca, sfogatevi pure, non abbiate paura, sperimentate il vostro tratto più violento, gli schizzi più audaci. La Venere di Milo godette quando le spezzarono le braccia. La Pietà riprese vita, ebbe una scossa da defribillatore, quando fu vandalizzata. Gesù sulla croce ebbe un’erezione. Siate cavernicoli, sono la vostra grotta, adornatemi con le vostre pitture rupestri. Scene di caccia, di morte, di nascita, voglio vedermi attraverso i vostri occhi. Quando tra mille secoli mi disconnetterò, quando il mio piacere si estinguerà e la mia pelle si esaurirà, allora osserverò il vostro seme secco sul vostro ventre, fossile di voluttà e piaceri antichi. E in sottofondo le risate finte dello show che fu.
Le lacrime non solcano più il mio viso, hanno lasciato il posto a rigagnoli di sangue che attraversano le mie gote, perle rosse che scendono sul collo e vanno a spegnersi nel mio petto idratando un cuore rattrappito. Fisso lo schermo, milioni di pixel, fosfeni e fantasmi, mentre quasi impassibile, con piccoli gemiti di dolore, più scenografici che genuini, affondo delicatamente la lama sulla mia fronte con un’incisione leggera, sottolineo di rosso una ruga, non per cancellarla, ma per evidenziare l’errore. La mia crescita è stata un bug.
Che fine ha fatto il bambino che ero? Seguo le linee delle rughe con il coltello, cerco di annullare il tempo, riavvolgo il nastro come facevate con le vhs in cui registravate i miei episodi.
Cosa pensate quando mi incido sul viso? Pensate che lo faccia per i vostri peccati? Sono il vostro Gesù Bambino? E voi, sadici vouyeur, non siete colpevoli, siete solo parte del grande disegno. Godete a vedere una ex celebrità in disarmo e annientata? L’autolesionismo può essere catartico se sorbito assieme. Come vi giustificate, cosa vi raccontate? O come nell’amplesso, quello violento e ferino, vivete l’attimo, senza porvi alcuna domanda Cerca forse giustificazione il cacciatore che addenta la sua preda o il vulcano che erutta e distrugge il villaggio?
Il vostro cazzo glitterato da goccioline di seme luccicante vorrebbe deturpare il mio dolce visino? Sono passati vent’anni dalla sit-com, ma il mio viso è rimasto lo stesso, solo le guance più scavate e gli occhi cerchiati. Quando ancora uscivo da casa mi riconoscevano, settanta chili in più, sformato, repellente, ma con lo stesso volto. La mia faccia è una spiaggia immacolata in un pianeta devastato; un adorabile cucciolo su un corpo gonfio di tumori; un amore sincero in un mondo come questo.
A molti di voi piace che non parli nei video. Non siete curiosi di sentire la mia voce? Inconsciamente nessuno vuole che Dio risponda alle sue preghiere. Non volete neanche che metta della musica, l’unico sottofondo dev’essere il lieve rumore della lama che affonda nella mia carne.
Altri invece mi chiedono di ripetere i miei tormentoni e io vi accontento mentre fingo di soffrire: «Sono il solitooo» mi esibisco con i miei soliti urletti frivoli, «incorreggibile, davvero», «lo sai che soffro il solletico, mascherina!» e voi impazzite. Ah, se le vostre madri sapessero… La tenerezza di un tempo profanata. Chiesa protocristiana occupata da senzatetto che si fanno di crack. Putto violato e sconsacrato.
Ma che succede ora? Che fai, ragazzo sullo schermo, con quel rasoio? Ti stai davvero tagliando per me, cosa vuoi che faccia? Ti guardo rapito, non so che fare. La tua sembra una danza, i tuoi lunghi capelli si muovono a tempo di una musica che non c’è, ti ferisci dopo ogni giravolta, volteggi zampillando piccole stille rosse che macchiano lo schermo. Mi muovo anch’io, sincronizzato con te, come se conoscessi i passi della tua misteriosa danza, a ogni piroetta mi ferisco, fendo l’aria e me stesso, goccioline rosse macchiano anche il mio riquadro. Finalmente ti ho trovato. Riconosco il tuo volto. Specchio che riflette il mio passato. La mia lama è spuntata, non posso più ferirmi. La mia opera qui è conclusa, ora che sul mio corpo c’è un’unica, solenne cicatrice. Una mano pietosa stende finalmente un sudario sullo schermo del mio computer e posso andare.