Barche di un giorno (dispacci dalle isole)

Ci piacciono le tradizioni. Il 21 settembre, che non è l’ultimo giorno di estate ma così negli anni Ottanta ci hanno insegnato a scuola (e così lo insegniamo noi oggi nonostante Google), Simone Lisi ci racconta l’estate. Il racconto dell’estate è la fine dell’estate. Il 21 settembre è la data di Schrödinger delle mezze stagioni. Le mezze stagioni sono delle intere che ce la stanno facendo. Barche di un giorno è un dispaccio dalle isole. La copertina è di Claupatra.

Lo stercorario avanzava tra le infinite e personali difficoltà motorie e altre legate all’ambiente circostante, o almeno così mi sembrava a me, o forse lo stercorario andava bene così, e quella era soltanto la sua andatura standard.
«Non qui, va verso di lui» disse Diana allo scarabeo evitando di toccarlo con il piede, ma indirizzandolo verso di me che stavo seduto su una pietra a cinquanta centimetri di distanza dall’insetto.
«Vai da lui, sì, ecco così. Simo, ti ha riconosciuto e punta verso di te» disse ancora Diana rivolgendosi alternativamente allo stercorario e a me.
Aspettavamo il traghetto per Tilos all’ombra di una tamerice.
Con quel vago senso di ansia localizzato nello stomaco che si ha quando devi prendere un traghetto, un treno, un aereo o qualsiasi cosa che non sia rimanere fermo su te stesso.
Stavo là nell’ombra a guardare lo stercorario per ingannare il tempo. Ruzzolamerda si sarebbe detto da bambini, parola quasi certamente vietata nel mio lessico famigliare, ma ammessa in quanto eccezione che conferma la regola, o perché parola auto-evidente che spiega quello che l’insetto fa.
Diana si era allontana a controllare se si vedesse la nave all’orizzonte, arrivando a un centinaio di metri da noi, fino alla costruzione non finita in cemento armato sotto la quale si accalcavano un gran numero di turisti. Dopo qualche minuto Diana tornò indietro e mi vide con la testa china.
«Che fai? Sei collassato?»
«No, guardavo lo stercorario» le dissi, «è arrivato quasi fino a me. Peccato» aggiunsi «che tra poco dovremo imbarcarci e tutto il suo sforzo per raggiungermi sarà stato vano».
Erano stati i precedenti momenti apparentemente molto faticosi per lo scarabeo, ribaltandosi, rotolando, superando rami e per il suo punto di vista sassi enormi che si trovavano in quei cinquanta centimetri di distanza. Ora c’era quasi. Pensavo fosse attratto dal mio odore, che avesse dato retta a Diana e mi avesse riconosciuto come qualcosa degno di essere rotolato, sebbene non fosse chiaro come avrebbe fatto, ma risultò che si trattava d’altro.
Accanto al mio piede c’era una specie di pianta grassa, una piantina normale, con dei fiorellini normali anche quelli, una pianta da niente che non le avrei dato un euro per comprarla e mettermela in casa, ma lo stercorario sembrava pensarla altrimenti e che fosse arrivato a destinazione.
Non la stava mangiando, come avevo creduto in un primo momento, la stava scopando. Anzi è scorretto dire che lo stercorario stava scopando la pianta, quanto piuttosto i due stavano scopando perché nessuno sembrava prevalere sull’altra. Lo stercorario si era messo in una strana posizione a testa in giù e sembrava provasse piacere, sebbene in un modo poco chiaro, compresso, suo. Dopo qualche momento arrivò sul luogo anche un altro insetto più piccolo e iniziò a camminare sullo stercorario in circolo, su e giù, avanti e indietro, poi la sua partecipazione risultò più attiva ancora ruotando su se stesso in dei giri veloci e frenetici.
Era strano, ma l’unica spiegazione plausibile era che adesso stavano scopando tutti e tre. Li guardai ancora e mi chiesi se sarebbe finita e in che modo, se la conclusione dell’accoppiamento prevedesse un evento ulteriore, ma era davvero tempo di andare, il nostro piccolo traghetto entrava nella baia.

*

Nelle isole in cui mi capita di ritornare ho sempre la sensazione di riconoscere volti e persone che già incontrai in passato. L’uomo che affitta i motorini non è un uomo qualsiasi, ma un sagittario per la contiguità spirituale e fisica tra lui e i suoi mezzi. La donna furba e mite che ci affitta la stanza e sparisce di scena quando l’acqua della doccia smette di funzionare. Un guasto in metà isola dice il vicino di stanza incontrato in terrazza coi capelli ancora insaponati, vicino che ha avuto il merito inutile di stanare la padrona e ascoltare la fandonia. L’uomo probabilmente demente che sorride in modo doloroso al bar del porto, sgranando un rosario e bevendo un enorme “freddo espresso”.
Non sono (soltanto) delle semplici categorie umane presenti in ogni isola greca che si rispetti, ma sono figure specifiche che ho già visto l’anno prima – o forse due o tre anni prima – e che sono rimaste immutate, e che forse, mi piace pensare, immutate resteranno sempre.

Invece nelle isole in cui arrivo per la prima volta ho sempre la sensazione che troverò sulle spiagge più remote e isolate, nei bar o taverne più lontane dal porto, i miei parenti morti e trapassati.
Parenti che non sono veramente trapassati, ma che sono venuti quaggiù, in una sconosciuta isola greca per nascondersi da tutti, dai miei parenti ficcanaso, per nascondersi da me e dai miei racconti su di loro, per nascondersi dallo scorrere del tempo.
Poi le navi di un giorno (navi che pure noi siamo), quelle imbarcazioni che lasciano i turisti solo poche ore, mezza giornata appena, ripartono verso nuove isole e io e te restiamo qui sulla spiaggia a guardarle allontanarsi.
Mi ricordano che i fantasmi sapevano del mio arrivo e si sono spostati in un’altra isola ancora.

Simone Lisi

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