A Colpo Sicuro #12: La verità su tutto

“Per la prima volta perfino i miei amici di Verde mi diranno che è troppo, e taglieranno giustamente il pezzo, perché c’è un limite alla pazienza di chi legge. Avrei potuto uscire a farmi una passeggiata al mare, iniziare a fare i quiz per la dannata patente, scannerizzare le fatture per la commercialista e invece no, sono qui a scrivere di un libro che non ho letto e a usarlo come pretesto per parlare d’altro. Parlare di un me che non mi appartiene, che già ora alla fine di questa frase sarà morto. Disconosco tutto ciò che ho scritto finora, diffido chiunque ad attribuirmene la paternità, tutto ciò che avete letto è il testamento di un gemello defunto. Ne nasce e muore uno ogni volta che scrivo qualcosa. Non ho appendici o cicatrici che possano testimoniarlo a parte queste parole.”
Come Raimo con Veltroni. Dopo L’impero del sogno e I fratelli Michelangelo, Andrea Frau, supremo conoscitore ed eterno duellante dell’amico Vanni Santoni, recensisce A colpo sicuro La verità su tutto, nel giorno dell’uscita in libreria. Nessuno legge mai un libro come vorrebbe l’autore, ci avvisa il nostro buon recensore, nell’atto di indirizzo di un pezzo lunghissimo, bellissimo, commovente, impossibile altrove, che dà inizio al conto alla rovescia al 25 febbraio.
Memicchio fritto ad aria dalla Pink Lodge.

È stretching, non yoga.

Conoscemmo Vanni al Cabaret Mistique di Pesaro nel 2009. Il nostro viaggio iniziatico alla scoperta della letteratura contemporanea era appena cominciato. Il panorama delle riviste era un far-west cosmico, affollato da mental coach borgesiani, motivatori orfici, cantori del realismo capitalista magico, piazzisti bolañiani, cartomanti surrealisti, focolarini holdeniani, predicatori che vendevano il paradiso della pubblicazione in cambio di indulgenze. Oggi, tredici anni dopo, lo troviamo con il solito entusiasmo, con quella brama di vivere, quella dipsomania mondana tipica di chi sa che ha i giorni contati. Quella sera a Pesaro, per gioco, ci facemmo leggere il futuro da una zingara. La donna vide Vanni in una teca, in morte apparente, portato a spasso per tutta l’Italia come un santo su un baldacchino da adepti e parenti ingordi, per presentare l’ennesimo lavoro postumo. Ci descrisse la calca di aspiranti scrittori smaniosa di toccare la sua crisalide di plexiglass, per chiedere una grazia, implorare un consiglio, un contatto giusto. Quell’esperienza ci turbò tutti, qualcuno di noi smise di scrivere. La zingara non volle esser pagata. Ma Vanni volle darle 18 euro e 52 centesimi. Un giorno capirai, le disse, capirete tutti. Inutile dire che non ci rivediamo da allora.

Si può fare uno spoiler di un libro che è spoiler dell’esistenza?

Lo spoiler dell’esistenza è risaputo: nulla di ciò che facciamo ha senso perché nulla resta. Ci possiamo affannare quanto vogliamo, disperare per inezie o gioire per insulse vittorie, ma il finale è sempre lo stesso. La morte, la grande sorniona, sarà il medesimo capolinea per tutti. Allora perché facciamo quel che facciamo? Questo dilemma tormenta i liceali da sempre e ora anche Vanni Santoni. La consapevolezza che tutto è vano renderebbe l’uomo inane e apatico, né buono e né cattivo, ma questa consapevolezza, seppur chiara a tutti, viene sopita, messa da parte, disattivata. Non sappiamo se sia istinto di sopravvivenza, di conservazione o riflesso inconscio per preservare la grande illusione che la vita abbia senso. Se avessimo chiara e manifesta, sempre presente, la verità su tutto, assisteremo a suicidi di massa, esplosioni di violenza o morti di inedia e abulia. Fortunatamente il buon senso e l’autoconservazione hanno sempre prevalso. Finora, almeno.

Sì, perché l’autore ha pensato di tatuare su carta il nolaniano memento mori di cui aveva bisogno l’umanità, specie in questo periodo. Vedevamo già, dal 18 gennaio, vetrine andare in pezzi, scalmanati dar fuoco alle città, orge estatiche, ebbrezze paniche tra fiumi di sangue. E lui, il nostro autore, con un campanaccio ad Hyde Park Corner, annunciare l’arrivo dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Per fortuna, un mese prima dell’uscita del libro, qualcuno fece scivolare un biglietto sotto la porta del nostro. Il messaggio recitava:

Art. 658. (Procurato allarme presso l’Autorità) Chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l’Autorità, o presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da lire cento a cinquemila.

Dopo questo avvertimento ci risulta che il libro sia stato ridimensionato e l’improvvido Savonarola sia giunto a più miti consigli, facendo un falò delle sue pagine colme di vanità.
L’opera così rimaneggiata e in parte abiurata avrebbe conservato intatta la sua carica deflagrante, ma celandola con una prosa criptica, “una sinagoga degli iconoclasti a numero chiuso”, a sentire Alfonso Berardinelli, almeno.

Il suo è un Necronomicon dei nichilisti lisergici. La copertina è pura pelle di rospo californiano, per papille temerarie. Il giorno dell’Apocalisse il punto e virgola non ci servirà a nulla. Quando tutto crollerà, intorno a noi, ci saranno gesti di eroismo e amore, di violenza e sadismo, soccorritori e sciacalli, gente che sceglierà di assecondare una delle due pulsioni. E poi ci saranno quelli che hanno letto il libro in questione, seduti con le gambe incrociate a meditare, mentre tutto intorno brucia. L’autore, hibrisifico, decide di aprire gli archivi di Stato a un popolo ancora immaturo, come se avesse investito in futures dell’Apocalisse. Evidentemente non si sente di far parte del consesso umano, non è interessato alla felicità della sua specie, si sente sovrumano, transumano, vedetela come volete, di sicuro si pone fuori o al di sopra, per presunzione o per sincera estraneità. Non è interessato a perpetuare la commedia umana, ma non per pietà. Da grandi altezze la gente sembra minuscola e insignificante. I cecchini e gli anacoreti che vivono negli alti eremi ne sanno qualcosa. Da lì, le questioni umane paiono inezie, così come la compassione. Perciò, quando vi arrabbiate perché i vicini fanno rumore di notte o non fanno la differenziata, quando nel traffico vi tagliano la strada, quando al market qualcuno supera la fila, quando assistete a piccole o grandi ingiustizie, quando vi si rompe il portatile, vi cade acqua sul telefono e perdete il vostro romanzo o le foto dei genitori scomparsi, quando la vostra casa va a fuoco, dovete sapere che sullo sfondo c’è Vanni Santoni che ride serafico, vi guarda e pensa: “Che stupidi ciechi coglioni”.

La verità su tutto. Titolo che è davvero un “vasto programma”, per dirla alla De Gaulle. Ma cosa succederebbe se davvero l’autore ci rivelasse la verità su tutto? Per esempio come diavolo si possa pubblicare uno come Biferali. Dov’era Dio quando è stato pubblicato Biferali? È ancora possibile, oggi, fare poesia, dopo quell’Auschwitz che è stata Biferali? Ecco, forse certe cose sarebbe meglio tenerle secretate non per ragion di Stato ma almeno per decenza. E lo dice chi non ha mai letto Biferali in vita sua. Ma a Verde mancano i villain d’una volta.

La verità su tutto, nelle migliori delle ipotesi, sarà spaventosa. Ma molto probabilmente, considerate le aspettative, sarà deludente. Sarà una verità non letteraria, non perché impossibile da descrivere come gli orrori di Lovecraft; non ci sarà nulla da descrivere. La verità su tutto sarà come la letteratura di Santoni: parte da premesse intriganti ma alla fine dei conti si rivela alquanto convenzionale e dentro schemi conosciuti. Una grande rincorsa seguita da un salto deludente. La verità su tutto va letta, goduta come evasione, senza per forza volerci trovare quello che non c’è. Non entrate in un campo da padel come se fosse una chiesa. È palestra, non madrassa; pilates delle sinapsi, non agnizione tantrica; è stretching, non yoga.

Non fatevi ingannare da un titolo così definitivo. Questa non sarà l’ultima sua fatica. L’autore non è uno sprovveduto, non ci ha detto la verità su tutto tutto. Si è tenuto una, due chicche per i prossimi libri. Insomma, non ha sparato tutte le cartucce. Nella sua pistola non c’è mica scritto One shot Salinger. Dalla sua arma quando spara fuoriesce un foglietto con su scritto: BANG, THIS IS LETTERATURA, BABY.

Giovanni Santoni, come un Lovecraft delle beatitudini, ce ne dà solo un assaggio, un teaser di estasi, perché appunto non siamo ancora pronti e l’ineffabile pace a cui siamo destinati è solo vivibile e non raccontabile. Questo è un espediente consueto: non sono io a non saperlo raccontare, è l’oggetto in questione a non essere raccontabile. Non sono io il pessimo maestro, ma è il discepolo a essere un idiota. Perché donarvi l’Eden se avrete nostalgia della sofferenza? Perché darvi la libertà se non sapreste che farne? Perché dirvi la verità su tutto, se non potete ancora capirla? Perché darvi la mia letteratura se vi accontentate delle vostre misere vite, dei vostri pettegolezzi? Ci si protegge dalla verità, perché la bugia è confortevole, il suo liquido amniotico è rilassante, il venire alla luce è traumatico, si piange, ci si dispera, tutto ciò che abbiamo e che sappiamo non conta un cazzo. Chi è pronto tra di voi, sinceramente, a spendere 18 euro e 52 centesimi, per saperlo? Chi ha il coraggio?

Lasciamo parlare il testo

Ma veniamo alla storia nuda e cruda, a queste Avventure di un uomo vivo. Lasciamo parlare il testo, come ama dire Luca Carelli. Anche se con Santoni l’autore travalica l’opera, con buona pace di Roland Barthes. Pensateci: è meglio il Demiurgo o il suo creato? Potenzialmente non c’è gara, soprattutto per persone dotate di fantasia. A parere di chi scrive, è meglio Santoni dei suoi scritti. Non perché il nostro abbia fatto della sua vita un’opera d’arte ma così, a pelle, sulla fiducia. Il fatto che il sottoscritto non abbia letto mai nemmeno un rigo di Giovanni Santoni è un dettaglio.

E allora, la trama è suppergiù la seguente:

La protagonista, Claupatra Mancini, rimane sconvolta da un video online in cui riconosce la sua ex ragazza Lucia Carelli blaterare di Antropocene ed estinzione di massa. Preoccupata per la deriva millenarista e apocalittica dell’amica si mette sulle sue tracce per farla rinsavire. In questo viaggio incontrerà vari uomini straordinari per dirla alla Gurdjieff, guru e sedicenti maestri spirituali: il rampante Luccone, manager carveriano-thatcheriano, l’editor De Vivo, mistico-menardiano che ha consacrato la sua vita all’editing infinito del Mahābhārata e dei Veda, l’antiscientista cataro Lolli che idolatra i meme sacri della croce e del tao, ideatore del qr code che consente di oltrepassare il Bardo, il luddista shintoista Vena, Raimo, il cattivo maestro Manzi, Vera Gheno che ha reso ancora più impronunciabile YHWH tra schwa e *, Zando, tra Marco Guzzi e Julius Evola, la SCUM mariana Tina Cedola, Lo Sgargabonzi che recita a memoria la sua autobiografia, ovvero una interpolazione tra Il Processo di Kafka e gli atti del processo al Mostro di Firenze, Emanuele Pilia, l’editore dei protocolli dei Savi di Sion da colorare, Carlo Martello, tra Toni Negri e Jodorowsky e tanti altri mitici personaggi. Alla fine del viaggio Claupatra mescolerà tutto ciò che ha imparato in un collage sincretista e si tramuterà in un ircocervo tra Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Loredana Berté. La nostra novella Chiara Lubitsch fonderà la UR-Rivista edita dalla misteriosa Kremmerz Edizioni.

Una nota divertente è la toponomastica creativa, per cui troveremo via Guenon, piazza Aleister Crowley, viale Fleur Jaeggy, un faro dedicato a Cartarescu, vico Jacopo Nacci e molti altri.
Santoni è uno scrittore smaliziato e scafato che sa tenere a bada la sua tachipsichia. La sua ambizione è parlare delle cose che gli interessano in una forma convenzionale. Come Battiato tra un “Cuccurucucu Paloma” e Tulku Urgyen.

Notevole l’eleganza di questo passaggio:

Cleo guarda fuori dalla finestra. Le sembra di intravedere Lilith vicino al pioppo. Torna dentro trafelata, sposta il tavolino, quello con il libro La scala degli idioti di Gurdjieff, Ubaldini Editore, l’edizione con la copertina blu. Esce da casa per fuggire dal samsara delle sue percezioni e nostalgie celesti e canaglie.

Ecco, vedete come in maniera subliminale l’autore inserisce i temi a lui cari. Il misticismo, i pioppi, la musica di Sandro Giacobbe.

Per Matteo Marchesini:

Santoni conosce il lettore e sa benissimo che l’evasione psichedelica, come la letteratura, oggi è la chiave per uscire dal nostro corpo, un’ora d’aria dalla nostra mediocre angoscia. Non deve aprire le porte della percezione ma blindarle e proteggerle da ladri e spifferi. Un romanzo non dev’essere un alito di vento da un tombino che solleva, seppur di poco, il velo di Maya, suscitando pruriti sessuali, ma la mano materna di Norma Bates che ci rimbocca. Una sindone elettrica riscaldante che ci conforta da sciatica e cervicale. Una chiusura lampo sulla tela di Fontana, con tour organizzati nel bardo-Disneyland. Un’evasione controllata, rassicurante e su misura. Questo romanzo è un mago dilettante che ci ruba il naso: l’unica ierofania possibile in un mondo ateo.
Un dio che danza senza musica.
Teologia della malinconia, romanzo innaturale.
È l’agiografia di un angelo minore
animale che amiamo
vagabondo
anima smarrita.

Il libro calato nel reale

In quest’arido deserto senza Dio, retto da telepredicatori persi in ucronie catodiche, vaga un rabdomante che ha sconfitto la sete. Il profeta-autore brandisce il suo bastone, misero scettro, e dopo tanto peregrinare trova le tre vie di fuga: il sogno, la psichedelia, la metafisica. L’impero del sogno, I fratelli Michelangelo e La verità su tutto. Il rabdomante non ha un popolo dietro di sé e non si pone come liberatore, egli ha solo rimesso in luce le tre vie di fuga sommerse dalla sabbia. Non vuole che nessuno lo segua.

In un’epoca senza rivoluzioni, di prudenze pelose ed egoismi imperanti, di disinteresse totale per i nostri simili, ma grande partecipazione emotiva per le sorti di animali, piante e ghiacciai, la fuga psichedelica mistica è l’ultima spiaggia di chi vuol prendersi una vacanza dalla realtà.

Partendo dall’assunto che le esperienze sono Gestalt formativa, se cambiassimo radicalmente la nostra percezione del reale, che uomini e donne saremmo? E soprattutto, che lettori saremmo?

Questo si chiede Santoni, in un delirio sinestetico-lisergico a pag. 155.

Nessuno legge mai un libro come vorrebbe l’autore. Il libro è di chi lo legge, appena il feticcio libro passa di mano diventa di chi lo possiede. Come la bibbia per un protestante dopo la riforma, come il giovane Holden per Mark Chapman. Ognuno ci vede quel che vuole, le sue suggestioni e le sue manie. E allora che senso ha leggere gli altri, conoscere gli altri, se l’esperienza viene non solo mediata, ma inquinata dai propri pregiudizi?
Ma la domanda che ci preme più porvi è: un libro del genere oggi è attuale? Può essere “utile”?

Il crocefisso nell’era della riproducibilità tecnica, il tao nell’era dei meme, il volto di Allah nell’era del selfie. La meditazione è sempre più mero strumento per star bene individualmente, non afflato umanista di liberazione. Lo Yoga di Carrere, i video di Mindfulness, Galimberti su Youtube, gli estratti dell’Angelus di Bergoglio, sono come l’aerobica di Jane Fonda. Video motivazionali che donano un po’ di serenità utile a esser più produttivi, a sopire un po’ di rabbia nel traffico ed esser più tolleranti con il partner. Questo libro, da questo punto di vista, non è né utile, né contemporaneo. In poche parole questo è un libro fallito. Ma quale compito deve assolvere la letteratura, ammesso che debba averne? La letteratura serve ad assolvere l’uomo? Va detto con chiarezza: questo non è un manuale per l’illuminazione, un libro d’auto aiuto, perché come la scrittura, l’illuminazione non si insegna.

Note per il lettore forte: Il libro è debitore de I giorni della Nepente di Pascoletti, Vita, morte e visioni della monaca Elisabetta, Guida ai Super Robot di Jacopo Nacci, I centomila canti di Milarepa, Cagliostro di Arturo Reghini, Il volto verde di Meyrink, La setta di Michele Soavi, Il re del mondo di Guénon, Dio vede e provvede con Angela Finocchiaro, Amo dunque sono di Sibilla Aleramo, il Kulārṇava Tantra, Raâga Blanda di Evola e il gioco di società Guru di Franco Sardo.

La verità su tutto, su due piedi

Un buon recensore per dirla con Cesare Garboli è un morto che fa un’autopsia; per Cesare Cases il figlio di un criminale che gioca a fare il processo con il figlio di un giudice; per Massimo Onofri leggere è vedere, e scrivere è essere ciechi.

E allora, caro Vanni, vuoi La mia verità su tutto?

La verità è che scrivo questa recensione per staccare un po’ da giornate tutte uguali passate a concepire definizioni per cruciverba. La verità è che l’unica cosa che ho scritto che pensavo valesse qualcosa l’ho inviata a tre case editrici ma l’unica risposta che ho ricevuto è stata una supercazzola borgesiana. La verità è che mi sento un non integrato, ma almeno Bianciardi aveva un torracchione da buttar giù; l’unico simbolo che mi è rimasto da buttar giù è me stesso. Ma autodefinirsi un non integrato, atteggiarsi a incompreso è una posa, un alibi per giustificare la propria incostanza. La verità è che se non fosse per i sodali Verdi temo non scriverei più e quindi questa voglia di giocare con loro me la tengo stretta. Perché la gratificazione di like e convidisioni è effimera, un’ossessione da coglioni. La soddisfazione non è veder riconosciuto il proprio lavoro ma riconoscersi nel proprio lavoro. Perché so benissimo che pure in un’isola deserta molti scrittori si censurerebbero e metterebbero la mani davanti alla bocca quando sbadigliano. E quindi il gioco sta tutto qui: scrivere assecondando i miei impulsi senza rifletterci su, godendomi questa meravigliosa autoanalisi fantastica.

Mi sento come il protagonista dell’Uomo dei giochi a premio di Dick. Giorno dopo giorno, senza pausa, scrivo definizioni di cruciverba, con il sospetto che ci sia qualcosa sotto, che questo non sia un lavoro vero, che non possano davvero pagarmi per questo. Hanno intravisto qualcosa in me, sono pericoloso forse, mi controllano, mi tengono a bada, vogliono il mio tempo. Sanno che non mollerò mai questo lavoro per cercare la verità. Nessuno ci darà mai un anno sabbatico per organizzare una rivolta. Che poi, basterebbe un secondo, un problema alla connessione, un attimo di silenzio per scoprirla.

Mi ritrovo a ringraziare il mio cosiddetto lavoro perché evita che io disponga di più tempo. Un tempo che butterei, da sadomasochista, a scrivere, contare le visualizzazioni, affannarmi a contattare case editrici, a elemosinare attenzioni, a combattere la sensazione di solitudine. E anche se riuscissi a trovare asilo per la mia disperazione, a pubblicare l’agognato feticcio in cui marcare il mio dolore, a cosa servirebbe? Ogni persona onesta dovrebbe sentirsi ridicola e in imbarazzo a tenere in mano un proprio libro. La conquista vera non è andar fieri del proprio dolore ed esibirlo ma aver decenza e pudore, altro che scriverne! Dovremmo esser consci che non siamo nulla di eccezionale, niente di nuovo da raccontare.

La verità su tutto è che se ci liberassero dal lavoro dureremo massimo un anno. Il lavoro, anche quello più alienato e inutile, ci tiene lontani da noi stessi. Abbiate paura dei blackout, dell’attimo prima di addormentarvi, del crash dei social e di WhatsApp. Lì, in quel silenzio, si trova la verità su tutto. Ve lo dico per mettevi in guardia ma soprattutto per farvi risparmiare 18 euro e 52 centesimi.

Mi accingo a scrivere questa recensione A colpo sicuro senza aver letto il libro, perché Verde me l’ha chiesta ed è difficile dire no a Verde, per divertimento, amicizia, gratitudine e senso del dovere. Questa mia confessione è un fiume in cui vedo passare continuamente il mio cadavere, il mio unico nemico. Troverò pace solo quando riuscirò a fermare questa visione e darmi sepoltura. Mi sto sottoponendo a un terzo grado e avrei dovuto solo scrivere un pezzo divertente e scanzonato su uno stimato scrittore; mi sto puntando una lampada in faccia, ma non ero pronto, la mia polizia segreta mi ha scaraventato giù dal letto, prelevato da casa scalzo, senza giacca, e la cosa terribile è che io vorrei collaborare, costituirmi e confessare, ma per quanto cerchi non sto trovando nulla, nulla che valga la pena essere raccontato. Confesso colpe non mie, non per darmi un tono ma per espiare tutti i mali del mondo che sento miei. Dentro di me c’è una cava povera e vuota, non riesco a contrarre neanche la silicosi. Il terzo grado continua. Un fascio di luce mi stacca da terra e trasporta su un’astronave in cui esseri alieni mi prelevano, mi sottopongono a una serie di esami per cercare qualcosa che giustifichi la mia esistenza, un barlume di ciò che chiamiamo umanità. Vedo quegli esseri scuotere la testa delusi, mi scaglieranno giù da una Rupe Tarpea. La luce mi acceca ed è un ascensione verso il mio inferno personale.

La verità su tutto è che non ha senso scrivere. E il bello è proprio questo, fare ancora cose che non abbiano senso. E con scrivere intendo fare un inventario delle nostre miserie, una tassonomia dei nostri demoni, un bestiario delle nostre paure. Ma farlo su commissione è un necessario compromesso. Non facciamo altro che arredare il nostro vuoto, abbellire la nostra desolazione. Creare una connessione con chi legge, condividere le proprie sensazioni per sentirsi meno soli, per confortarci, per ricordarci come tutto sia passeggero. Prendiamo l’angoscia più impalpabile, già il fatto di poterla circoscrivere e imprigionarla tra lettere e segni convenzionali ci dà la sensazione di poterla controllare, magari non sconfiggere, ma tenere a bada secondo un nostro codice. Stiamo disegnando la sagoma intorno al nostro cadavere steso a terra. E quasi abbiamo l’illusione di controllare l’imprevedibile. Teniamo il nostro corpo all’interno di un recinto di gesso, ma il nostro pensiero no, quello sconfina, strappa i sigilli e può far a meno del corpo, nostro delicato e provvisorio rifugio, in preda alle intemperie, in cui di tanto in tanto tornare per riposare. Ed ecco che queste parole, come il mio pensiero, sono a ruota libera ed esistono anche senza esser scritte, senza diventare corpo e trovare una casa su queste righe, su questo WordPress che potrebbe come Splinder chiudere domani e andare perduto per sempre, con queste mie inutili parole, a ben vedere così vaghe e trascurabili con l’unico pregio di dimostrare la mia esistenza almeno fino a ora. Un fossile in un futuro disabitato. Un disperato mugolio di un corpo imbavagliato seppellito vivo.

E allora caro Vanni, la mia verità su tutto non è la paccottiglia New Age, rinascimento psichedelico, non è Shiva, la Trimurti o il sesso tantrico.
Oggi il mio tutto è solo il mio corpo e le mie stupide ossessioni. E nessun nome esotico per definirli. Questo e niente di più. E questa, per ora, è la verità.

Vanni Santoni, La verità su tutto, Mondadori 2022, pp 300, 18 euro e 52 centesimi (19,50 qui)

Andrea Frau

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