
Mona J. Wimbledon, Mi piacciono tante altre cose oltre le zuffe, collezione privata 2022
IL LISTONE DI NATALE 2021, aka le classifiche di qualità dove abbiamo raccolto i nostri migliori racconti inediti dell’anno appena trascorso (non a caso non citati nella lista più ingiusta eppure più attesa dalla bolla), si chiude oggi con un testo consegnato in indecoroso ritardo e che qua si aspettava con una certa ansietta, ma ne valeva la pena.
Nonostante non ci nomini in Trema #1, amiamo appassionatamente e unitamente Claudia D’Angelo. I nostri primi contatti risalgono al marzo 2019, quando per un mese i nostri racconti accompagnarono i suoi pazzeschi collage. A giugno 2019 Gravicoma ci fece scoprire la scrittrice oltre l’illustratrice. Nel marzo 2020 Claudia ci ha rifatto il logo ed è diventata artista in residenza di Verde. Due mesi dopo, anche grazie alle dirette de La Nuova Fahrenheit (qui e qui), è entrata in redazione.
In due anni Claupatra non si è fermata mai e ne ha fatte di tutte, incluse regie podcast. Storie tante, tutti suoi collage lo sono, ma pochi racconti (uno, due, forse tre), motivo per cui accogliamo con gioia e sollievo Tebaldo deve morire, una pazzesca sinfonia napoletana dalle sfumature shakesperiane ispirata a un caso di cronaca in cui Cla, fumosamente implicata, riesce a scavare un punto dentro a un vicenda torbida e là dentro sostare con una grazia invidiabile: a noi è piaciuto molto e così speriamo di voi.
La copertina, causa promessa redazionale, è di Mona J. Wimbledon.
Christian e Mirko si odiavano per colpe irrisolte dei loro avi. Il loro odio era un’eredità sinistra e contorta che i due avevano cominciato a covare in fasce, avviluppato insieme ai sogni di ricchezza con cui erano stati nutriti. Lo vedevo nella guerra di autoveicoli e scarpe che si facevano le famiglie, nella ricerca spasmodica dei nuovi outfit da sfoggiare. Non che sia una pratica esclusiva dei Balido e degli Spagnulo, ma mentre il “nemico” contro cui ostentare ricchezza è spesso ignoto o mobile, per loro non esisteva nessun altro di fronte cui vantarsi. I Montecchi e i Capuleti di Pianura, la guerra fredda degli smartphone.
I due ragazzi non erano da meno. Si erano pavoneggiati, avevano mostrato i loro meravigliosi piumaggi targati Emporio Armani e Adidas, avevano comparato le loro potenti tecnologie in base alle dimensioni e alle lunghezze e a quanti buchi di fotocamere riuscivano a contenere. Ed erano finiti spesso a darsele nel cortile della scuola o nei parchi privati dei signori ricchi, dove entravano per dare mostra dei loro mezzi, inquietare le loro notti a suon di motore truccato.
Dei due, io conoscevo Mirko da quando era un bambino. Lui e la sua famiglia erano i miei dirimpettai. Nei giorni in cui i Balido erano troppo indaffarati ci portavano Mirko impacchettato nel suo passeggino. Mia madre doveva badare ai suoi figli e a quello dei Balido in cambio di paste gratis che puntualmente buttava via perché, diceva, «sono fatte con oli riciclati». Mirko era con me quando imparavo a tessere le mappe concettuali. A cena guardavamo insieme Tom&Jerry, gatto Silvestro & Titty. Non si faceva distrarre, però, dai colori in tv, a meno che uno dei gatti non finiva nei guai ed esplodeva oppure volava via nel cielo dopo essere stato gonfiato come un palloncino. Così anche io, per farlo divertire, gonfiavo la bocca e facevo finta di volare via spinta da un vento invisibile. Lo divertiva da matti.
Ho incontrato di nuovo Mirko al doposcuola del centro giovanile, in piena sfacciataggine puberale. Io e miei compagni avevamo occupato l’ex albergo con l’intenzione di “fare del bene”. Un tentativo ingenuo eppure onesto di offrire un’alternativa ai ragazzi del nostro quartiere. Tredici anni mi separavano dal Mirko nuovo che mi si presentava. Bullo, piantagrane, appassionato di truffe e punizioni. La sua banda era composta da ragazzine dalle unghie affilate e squadrate e i giubbottini impellicciati; di ragazzini con la brillantina e la bocca a cuoricino. Si intendevano di musica, calcio e scopate. Ne parlavano ad alta voce o li trasmettevano dai cellulari sotto forma di messaggi vocali, video passati su Whatsapp. Si riunivano nelle aule vuote del centro per condividere tutto ma proprio tutto a gole spianate. Mirko decideva anche chi tartassare, chi “mettere sotto”. Gli bastava un piccolo insulto rivolto a chiunque che la banda faceva il resto. Solitamente era “ricchione”; “rottinculo”; e altre allusioni sulla presunta mancata virilità.
Eppure era un ragazzo tutto sommato “promettente”. A scavare sotto alla sua pelle olivastra e ai suoi capelli gelatinati si intravedeva un barlume di delicatezza, una sensibilità sempre più difficile da preservare. Aveva una morale, sapeva quando il gioco diventava troppo duro e quando era il momento di darci un taglio. Sebbene sbuffasse durante gli incontri e le lezioni e si ribellasse in tutti i modi che gli erano possibili, non usciva mai dalla stanza. Era consapevole di quale sarebbe stato il suo destino se avesse continuato a essere lo stronzetto che si era dimostrato. Soprattutto, non sembrava voler continuare la vita di suo padre ed ereditare l’autolavaggio dove trascorreva già tutti i pomeriggi delle sue estati. Per cui si “impegnava” per quanto riusciva, e nel frattempo sfruttava gli anni d’oro di lotte e sevizie spensierate. A meno che non dovesse condividere il suo spazio vitale con Christian.
Christian. Un coglione in erba. Il classico bulletto senza rimorsi dalla sessualità incontenibile. Alcuni di noi lo conoscevano già, si rivolgevano a lui con vergognosa condiscendenza. Gli concedevano tutto. A loro difesa non volevano farlo scappare, «o peggio». Io lo conoscevo per fama, perché le sue imprese avevano viaggiato di bocca in bocca. Christian aveva delle capacità non umane, da ragazzo selvaggio cresciuto nel bosco; dotato di istinti felini, agile e scaltro, inafferrabile e indecifrabile. Non aveva una banda, ma diversi “alleati” che nelle situazioni più difficili accorrevano per dargli man forte. Una colonia di gatti che come lui avevano la necessità di sfogare rabbie represse. Fu in assoluto il ragazzino più impegnativo del centro. Talmente impegnativo che ci arrendemmo e smettemmo di provarci con lui. Ahimè sì, lo abbandonammo. È stato Christian ad aver contribuito al crollo del centro, a sua insaputa. La lenta e profonda rassegnazione che ha portato alla chiusura della nostra utopia è iniziata con la defezione sul campo da pallavolo dell’ex albergo di via Bixio. Christian Spagnulo, una tanica vuota ai suoi piedi, metà della banda di Mirko zuppa di benzina.
Era uno scherzo!
Fu una grande sconfitta.
La verità era che avevamo bisogno di educatori, era un lavoro troppo grosso per dei ragazzi – quali eravamo. Il senso di giustizia e il senso di colpa che ci muovevano non erano abbastanza. Nelle nostre riunioni apartitiche e battagliere asserivamo la necessità di costituirci come comunità ufficiale, ma escludevamo ogni sostegno politico. Il nostro progetto aveva lo stesso odore dei bagni en suite al piano terra.
La muffa e la stanchezza ci avevano sfiniti al punto, però, che quando nel novembre del 2017 il Comune mandò l’ennesimo rappresentante in missione per allisciarci, gli offrimmo le nostre pance indifese e ci lasciammo accalappiare.
Federico, l’educatore che avrebbe dovuto guidarci, pensò che sarebbe stata cosa giusta organizzare una messa in scena per il 6 Gennaio dell’anno successivo, in modo tale da dare qualcosa in pasto sia all’amministrazione comunale sia «alla nostra comunità». Inutile dire che era di Posillipo. Ci aveva assicurato che il teatro avrebbe fatto miracoli. Il potere del palcoscenico è inimmaginabile, andava oltre i nostri pensieri. A spiegarlo non aveva lo stesso effetto. Il teatro si deve v i v e r e. Anche Christian e Mirko ne avrebbero giovato – soprattutto loro. «Perché i due ragazzi si liberino, Cesare deve morire».
Non eravamo così sicuri di come sarebbe andata, ma gli lasciammo carta bianca. Lo mettemmo in guardia su Spagnulo e Balido, gli illustrammo la situazione difficile, il conflitto atavico. Annuì, recepì, e sentenziò: «vada per Romeo e Giulietta allora, ma con un po’ di Raffaele Viviani dentro, soprattutto perché quello lì…» e indicò Christian, «è la sua goccia d’acqua», visibilmente ammaliato dal volto di nero a metà del teppista più temuto del centro.
Mirko, secondo l’occhio allenato di Federico, doveva essere Romeo. Aveva lo sguardo giusto: freddo, ceruleo, misterioso. E il capello lucido che abbagliava. Per Christian aveva invece esitato, sembrava volesse affidargli il ruolo di Mercuzio, il cugino e migliore amico di Romeo. Poi per fortuna rinsavì e lo battezzò Tebaldo. Il principe dei gatti.
«Faremo una cosa alla Baz Luhrmann», disse Federico strofinandosi le mani. I ragazzi avrebbero dovuto riscrivere l’opera come meglio credevano, utilizzare il linguaggio che potesse farli esprimere al meglio di loro stessi. Spiegò loro che recitando avrebbero potuto osare – coi personaggi, con le battute, con le scene. Avevano di fronte la grande opportunità di dirsi quello che volevano e allo stesso tempo di essere chi volevano, nessuno decideva per loro, nemmeno i propri genitori. Con nostro grande stupore, mentre Christian scelse di interpretare un capo mafioso, Mirko optò per l’autolavaggio.
«Romeo è umile», si giustificò.
Non ci fu chiaro come, ma Mirko e Christian non si scannarono durante le prove. Forse complice il fatto che recitavano per due fazioni diverse, e che Christian dopotutto partecipava quando gli pareva, ma a parte qualche accenno di azzuffata si ignorarono quasi del tutto. C’era sempre qualcuno del gruppo che li richiamava all’ordine e loro, stranamente, obbedivano. «Uagliù, facciamo i seri, qua si fa arte». Si sbollivano come due macchinette del caffè su un fuoco spento. La forza del gruppo, non so se era questo l’intento di Federico, ma la forza del gruppo stava funzionando.
La sera del 6 gennaio del 2018 sedevo in prima fila insieme ai miei compagni. Le persone che assistevano allo spettacolo erano all’incirca una cinquantina. A presenziare, il vice-sindaco e l’assessora alla cultura, che fece un breve discorso sull’importanza dei progetti nati “dal basso” e ci dedicò un lungo applauso. Ci sentivamo sporchi e lusingati. I ragazzi comunque erano contenti: da dietro le quinte, già imbellettati, ci lanciavano fischi e sorrisoni.
C’erano solo due ambienti: l’autolavaggio e il balcone di Giulietta; così come poche scene, tra cui: l’uccisione di Mercuzio, l’uccisione di Tebaldo, la famosa affacciata alla finestra, la morte dei due innamorati. Tutto era comunque legato in modo diverso, nuovo, a tratti inspiegabile, eppure interessante. Ricordava un po’ troppo una puntata di Gomorra, ma le famiglie camorriste dei Montecchi e dei Capuleti ci risultava logico. Qualcosa di buono l’avevamo fatta, pensai.
Nel vedere Mercuzio ucciso da Tebaldo pensammo immancabilmente a quando Christian entrò coi suoi alleati e terrorizzò la banda di Mirko. Adesso con quanta accortezza brandiva un pugnale inesistente e lo infilava nello stomaco dell’avversario. Fu così liberatorio, per noi, vederli tutti su quel palcoscenico. Vestiti con pantaloni di finta pelle e maglioni di pelliccia colorata, gli occhi pittati con ombretti sgargianti e matita nera. Un esercito punk-tamarro al massimo della sua potenza. Erano bellissimi. I ragazzi si rizzavano sulle selle dei motorini e declamavano i loro versi, una sinfonia napoletana dalle sfumature shakesperiane. Le minacce e le parole d’amore le dicevano in dialetto. Le riflessioni, i monologhi, erano un misto di italiano e grandi gesti. Sembrava un successo, il nostro successo. Federico, in piedi accanto al palcoscenico, aveva il volto assorto e per niente stupito.
Finché. Christian e Mirko. Uno di fronte all’altro. La scena che tutti attendevamo. Non avevamo assistito alle prove di quella scena, probabilmente non c’erano mai state, non eravamo nemmeno sicuri che sapessero cosa dire o se si erano conservati il momento per scagliarsi l’odio con più foga. L’intera palestra era in un silenzio di ghiaccio.
Mirko cominciò. Con la pistola finta stretta in una mano, gli disse
m’è fattə nu sgarrə e iə tə sciarmə.
Christian rise.
Ua frà, tə si impegnatə pe sta battuta.
Mirko lo spinse, e per poco Christian non cadde dal palco.
Noi in prima fila ci agitammo, ma Federico non sembrava preoccupato.
E iə chest stevə aspettannə, annanzə a tuttə quantə,
gli rispose Mirko.
Christian reagì estraendo l’arma invisibile dalla cintura e puntandogliela contro. Mirko la scansò, gli diede un calcio e lo disarmò. Poi lasciò la presa attorno alla pistola e con le spalle e le braccia aperte verso il nemico disse:
a mani nude, si tienə e pallə.
Christian non se lo fece ripetere di nuovo, si scagliò con tutta la sua forza contro Mirko, come in una mossa di wrestling, e lo fece cascare a terra. I due si contorcevano, si univano e disunivano, al centro del palco. Presero a tirarsi i capelli, le braccia, e quando Christian affondò i denti nella caviglia dell’avversario ci alzammo di scatto.
Federico aprì la mano verso di noi per fermarci. «è così che deve andare», si permise di dire, davanti alle facce aperte e scandalizzate del vice-sindaco, dell’assessora alla cultura e di tutti gli astanti.
Romeo e Tebaldo erano arrivati ai pugni, delle strisce di sangue puntellavano il palco.
E fernutə?
Gli disse alla fine Christian, che gli stava sopra, a cavalcioni sulla schiena.
O sai ca vəncə iə. Vəncə semp iə.
Mirko si arrese, smise di muoversi e fece un breve cenno con la testa.
Allora Christian gli diede uno scappellotto e si alzò.
Signore e signori
disse sorridendo al pubblico, con un rivolo di sangue che gli usciva dalla bocca.
Stavotə Romeo…
E poi avvenne. Un colpo di scena che sgonfiò in un secondo i nostri petti in prima fila. Romeo aveva impugnato l’arma, come da copione, contro Tebaldo. In quel momento non lo sapevamo, ma era una pistola ad aria compressa. Voleva vedere, parole sue, se infilandoglielo nel culo si sarebbe gonfiato.
Il pallone non era scoppiato ma era volato dritto dritto in ospedale.
Mirko: in galera.