
Claudia D’Angelo 2021
Storia dell’occhio, pubblicato nel luglio 2019 (qua), è stato il racconto più letto su Verde nel 2020 e nel 2021. Mentre festeggiamo l’avvenuta e meritata certificazione di long seller e ci chiediamo se non sia necessaria una postilla al racconto considerando l’Alpha mutazione del DelDeb e l’inquietante somiglianza di cui qui, Stefano Felici prende parte al nostro ciclo di racconti inediti natalizi contro liste e classifiche di fine anno aka IL LISTONE 2021 con una *anime memories* più lunga del solito, ambientata nel blocco fra viale Marconi e il fiume Tevere, Roma, dove è nato, cresciuto e vive tutt’ora. Chi segue Stefano sui social sa già di cosa stiamo parlando, per tuttə ə altrə: si tratta di una nuova fase di sperimentazione che conduce verso esiti di scrittura irriconoscibili e entusiasmanti. Antico maestro diventerà il nuovo long seller di Verde? Non lo sappiamo, ma per certo sarà la cosa migliore che leggerete oggi e domani.
La storia che racconta Claudia D’Angelo si intitola RESISTENZA. Claupatra la spiega così: “Se quattro persone si trovano nello stesso luogo e due prendono il sole mentre le altre due si riparano con l’ombrello perché sta piovendo fortissimo non ci si trova di fronte a differenti opinioni ma a ben altro. A differenti forme di percezione, a sistemi neurocognitivi diversi. Si chiama speciazione ed è quello che è successo.”
Ne prendiamo atto…
Fui nero e indomabile nei miei quindici anni.
A scuola andavo solo per il gusto di impormi sugli altri e starmene al sole fra gli oleandri della corte. Le mattine di pioggia, a scuola non andavo: rimanevo a letto, a giocare con la PlayStation; i miei genitori facevano finta di nulla, tanto era il terrore nei miei confronti.
Non avevo rispetto per nessuno. Trattavo con sufficienza chiunque; anzi: gli adulti in modo ancor più strafottente. I professori mi mettevano voti bassi, poiché non consegnavo i compiti, ma nessuno si azzardava a farmi ramanzine. Al contrario, più d’una volta alcune professoresse venivano a chidere scusa per avermi dovuto mettere un quattro, che era stato il consiglio di classe a imporre loro quella condotta nei miei confronti. Queste povere insegnanti, dicevano, avrebbero provato di tutto pur di non farmi ripetere l’anno. E in effetti non venni mai bocciato.
L’unica persona che avevo intenzione di rispettare, in quegli anni così inspiegabili, era un vecchio, un bizzarro signore del mio quartiere: sopra i settant’anni, calvo, dai lunghi baffi bianchi e gli occhiali da sole in montatura tartarugata: di questo signore non ho mai saputo il vero nome: voleva lo si chiamasse il Maestro.
È il Maestro che mi ha insegnato a star dritto con la schiena e il collo, a camminare correttamente poggiando la pianta del piede in tutta la sua larghezza, e a tirare i primi pugni sfruttando la naturale catena cinetica del corpo – quella che parte da due gambe robuste e ben piantate e arriva concentratissima nelle nocche del pugno serrato.
Il Maestro lo conobbi una mattina di Natale, e per puro caso. Ci ritrovammo entrambi davanti a un cassonetto dell’immondizia, immersi nel freddo dell’isolato completamente deserto. Io ero lì per buttare gli avanzi della cena della vigilia e le cartacce degli inutili regali di mia madre e mio padre; lui se ne stava con un sacchetto bianco in mano da cui svolazzavano moscerini e mosche. Mi arrivavano folate di pesce marcio. Per aprire il cassonetto schiacciai il pedale a sbarra, poi lanciai dentro il mio sacco; il Maestro, mentre il mio piede teneva ancora fermo il pedale, vi buttò dentro il suo. Esclamò con una vocina stridula: «Centro». Il pedale ancora abbassato, presi a fissarlo: rideva. Poi mi fece notare che il piede con cui tenevo giù la sbarra stava cominciando a tremare. Ci feci caso. «Sei deboluccio», mi disse.
“Sono deboluccio?”, mi domandai d’istinto: non capii bene il senso dell’osservazione del Maestro fin quando non ebbi chiara la sensazione d’esser colpito da uno schiaffo in piena guancia: quel formicolio acuto di spilli; l’amarognolo in bocca; il naso che scoda di rabbia.
Il Maestro abitava nello scantinato di un condominio di via Blaserna, parallela di via Enrico Fermi – cioè dove abitavo io.
Era poco più di una stanzetta: aveva una brandina con sopra una coperta di lana, verde militare; due sgabelli d’alluminio; un tavolinetto di legno e un frigorifero bombato e cromato, Bosch, sporco ma originale degli anni Cinquanta. Niente tv o libri. Niente di niente. Un fornelletto elettrico e un microripostiglio con dentro un lavabo, una tazza del gabinetto con sopra il soffione della doccia. Mi aveva invitato perché secondo lui possedevo un fisico asciutto e slanciato, e in più non ero tanto alto. Disse che sarei stato l’allievo perfetto.
In quello spazio strettissimo cominciò col farmi fare cento piegamenti sulle braccia. Si mise seduto su uno sgabello. Io di piegamenti ne portai a termine sedici, poi le braccia, che subito s’erano gonfiate di sangue, non mi si piegavano più. Passammo allora ai saltelli sul posto: me ne diede trecento, ma dopo ottanta mi stancai: mi ero fermato sbuffando e il Maestro mi tirò al pronti-via il suo primo ceffone: mi prese orecchio, zigomo e occhio. Lacrimai per un’ora.
Durante il primo anno di allenamento mi insegnò alla perfezione la piccola idea del Wing Chun. Io fremevo per combattere; il Maestro ribatteva che se solo avesse trovato il minimo segno di una rissa sul mio viso, o sulle mie mani, avrebbe smesso di regalarmi le sue lezioni. Proposi quindi di pagargliele, ma di avere in cambio la libertà di combattere: lui sputò in terra. Poi mi disse di pulire. Non avrei mai più dovuto azzardarmi a dire sciocchezze simili.
Mi raccontava però, di tanto in tanto, dopo aver bevuto due bicchierini di rosso ma sempre con l’accortezza di non rivelare mai la storia per intero, di come fra gli anni Ottanta e Novanta, nelle stradine del nostro quartiere di mezzo tra centro e periferia, si andavano a organizzare in perfetta autonomia dei tornei clandestini di arti marziali, cui partecipavano ragazzotti romani di viale Marconi, insegnanti di Karate di Monteverde e i primi, o almeno così dice lui, migranti di massa cinesi, che sembravano tutti facchini del treno più che combattenti. Pare che il Maestro vi partecipasse in incognito. O almeno così ha lasciato intendere più di una volta.
Dopo due anni di allenamento, la mia tecnica era affilata al punto da penetrare le difese del Maestro come una lama nel burro. Il Maestro ne prese atto e un giorno disse: «Da oggi in poi si farà sul serio». Si tolse la tuta felpata e la maglietta bianca di flanella: rimase a torso nudo. Appariva bianchissimo, con grovigli di venuzze rosse sparse per tutto il corpo. Ciuffi di radi peli bianchi facevano sembrare quella carne un vasto deserto artico.
«Guardia», disse. Non ebbi modo di concentrarmi sulla sua postura che immediatamente il corpo intero gli cambiò di forma: era diventato, senza alcun moto visibile, una gigantesca, gonfia statuta di marmo levigato. Ogni muscolo gli vibrava per via del bollore sanguigno. Rimasi stordito e lui mi fu subito al collo: ghignava sotto le grosse lenti scure; un colpo ben assestato sotto l’atlante, col taglio della mano, e svenni scivolando come in un bel sonno.
Al terzo anno di allenamento diventai maggiorenne. Il divario fra me e il Maestro era enorme: capii che il perfezionamento di sé stessi non ha mai fine; e che per diventare forte come lui mi ci sarebbe voluto lo stesso numero di anni che in quel momento ci separava. La cosa, però, non mi portò ad alcuna consapevolezza, non ne trassi alcun insegnamento: io volevo essere il migliore: subito. Ne soffrivo, e il Maestro lo capì immediatamente. Con l’intenzione di calmare il mio spirito, il Maestro disse: «Guarda indietro. Guarda avanti. Guarda oltre. Fai tutto questo nello stesso momento».
Ma io non capii. Non capisco tutt’ora.
Nei tre anni di lezioni ho disobbedito al Maestro centinaia di volte. Soprattutto a diciassette anni. In quel periodo, rissa dopo rissa, vicolo dopo vicolo, arrivai al Grande Torneo Segreto di arti marziali di via Enrico Dal Pozzo – era davvero poco distante da via Blaserna e da via Enrico Fermi. Si teneva ogni anno, in marzo. Partecipai e vinsi. Persino nel combattimento finale, contro un cinese di cinquant’anni che pare avesse girato molti film in America con Jackie Chan negli anni Novanta, riuscii a mantenere intatta la pelle del volto e delle mani. Incassavo i colpi con avambracci e tibie, punti in cui dei lividi erano tollerati dal Maestro, poiché soggetti alla pratica del condizionamento osseo, che eseguivo insieme a lui menando colpi sullo stipide di una porta coperto da gommapiuma.
Il Maestro usciva poco di casa, ma dava l’impressione di essere ben connesso con la realtà del quartiere, e più in generale col mondo della arti marziali. Quando gli raccontavo di scazzottate a viale Marconi, a Trastevere, alla Magliana, persino quando gli dicevo di tecniche strane trovate su internet e gli citavo nomi improabili di combattenti diventati famosi su per qualche video virale, lui, pur non avendo telefoni, TV e tantomeno un computer, sembrava esserne già a conoscenza: non ammetteva però di sapere; bensì sorrideva. Credo sapesse anche di me e di cosa andavo a fare in giro di notte invece che riposare.
Fu di notte che ebbe fine l’esistenza terrena del Maestro. Una notte fra la vigilia e Natale. Avevo diciannove anni. Da alcuni mesi avevo abbandonato le sue lezioni dicendo che avevo bisogno di Thai Boxe. Non lo diede a vedere ma ne rimase molto addolorato. Ci incontrammo allo stesso cassonetto dell’immondizia di quattro anni prima. Lo trovai che era già lì: era in attesa. Schiacciai il pedale a sbarra e buttai dentro il mio sacco. Il Maestro non aveva nulla da buttare. Mi disse: «Sto male e stanotte muoio. Vieni a bere un bicchiere».
Bevemmo qualche bicchiere di spumante. Poi, dopo un poco di silenzio, il Maestro prese a raccontare una storia. Era quella della sua famiglia. Moglie e due figli. Un maschio e una femmina. Diceva che lo studio del Wing Chun gli aveva portato via tutto. Poi si corresse: il demone del Wing Chun gli aveva portato via tutto. Andava specificato.
Si addormentò seduto in piedi sullo sgabello. Lo svegliai e lo feci mettere a letto. Si riaddormentò subito e me ne andai. Il mattino dopo tornai molto presto per scrupolo e preoccupazione. Il Maestro, ovviamente, era morto.
Presi a praticare un Wing Chun sempre più insicuro e violento. I muscoli erano raddoppiati, con essi la potenza; eppure uscivo con i segni del combattimento sulle mani, a volte persino sul volto. La tecnica era diventata più grezza, anche se a me sembrava di sprigionare molta più energia chei in precedenza. Secondo il Maestro avrei dovuto guardare passato, presente e futuro nello stesso momento; ma io continuavo a non capire, a non trovare alcun senso. Nel giro di un paio d’anni i miei pugni erano diventati armi della boxe più che di un’arte marziale orientale. Andavo dimenticando l’Antico Maestro. Il punto più basso lo raggiunsi tirando un montante a un povero ragazzino che voleva farmi vedere il suo Krav Maga.
Tiravo mid-kick micidiali mentre ero al telefono con la mia fidanzata di metà anni Zero. I miei genitori sentivano i tonfi sordi tirati al sacco. Per merenda mia madre preparava pane, emmenthal e salame. Finiti i mid-kick, riprendevo con gli high-kick. Un’ora per esercizio.
La forza, come concetto, mi disturbava. Volevo averne sempre di più. Acquisire forza è un processo meccanico. Per molti versi ripetitivo: è lavorare in una fabbrica. La tecnica era per me il vapore: impalpabile. Oltre il mio mondo. Andavo dimenticando l’Antico Maestro.
Una notte di giugno passeggiavo in infradito lungo viale Marconi, come su un bagnasciuga al chiaro di luna. All’altezza della Feltrinelli, un ragazzo in canottiera e cargo scuri si stava specchiando nella vetrina. Avvicinandomi ne notai i tratti orientali: indonesiano, penso . Sfilandogli a meno d’un metro sapevo già che mi avrebbe attaccato: e così fu.
Il combattimento durò poco. Il tempo di abboccare a una finta di jab e prendere un high-kick sulla tempia. Sono svenuto, mi hanno detto. Quel ragazzo era un messaggio della comunità Thai: torna a fare le tue stronzate cinesi. Con noi non si scherza.
Ci vollero giorni lunghissimi per elaborare quanto avevo vissuto. Ma infine il ko servì a farmi capire cos’è la sconfitta. Provai pena ed esaltazione per me stesso, perché mi sentivo come se avessi perso la mia casa. Potevo rimanere a terra senza avere più preoccupazioni, dacché tutto ormai era perduto; ma potevo anche rialzarmi e cominciare un cammino nuovo, cercare un equilibrio tra me e il mondo; forse esisteva un’altra via oltre allo scontro. L’idea però mi parve un’ammissione di sconfitta, e la giudicai in primo luogo mortificatante. Sentii lo stomaco chiudersi e il cuore battere via via con sempre meno vigore. Un istante dopo, però, ebbi una velocissima immagine mentale: vidi il me dei quindici anni, rapido e sinuoso, come l’arco d’acqua che fuoriesce da un bicchiere lanciato in aria. All’epoca, ogni pensiero mi attraversava alla svelta per far posto a quello successivo. Ci sono stati dei giorni in cui imparavo dal Maestro le posture del corpo come da piccolo ho imparato i colori e le parole semplici. Questo mi bastava e in quei brevi insegnamenti dovevo riversare tutto me stesso. Ero il piccolo demone del Wing Chun. L’immagine mi diede una speranza. Abbracciai le filosofie buddiste e tornai alla mia arte.
Oggi è Natale, e credo di essere a metà esatta del cammino per diventare forte come lo fu il Maestro. Ora che ho perso, sono più calmo e credo di riuscire a vedere il passato e il presente allo stesso momento. Il Maestro però non mi ha avvertito: fondendo passato e presente, senza ancora aver acquisito il futuro, quel che si ottiene è solo dolore. Porto i miei colpi con più potenza, ma sono lento. Recupero l’elasticità dei muscoli con più fatica. Il fiato è corto. Forse la sofferenza è un passaggio obbligato del perfezionamento. La visione del passato, in fondo, l’ho acquisita grazie a una perdita. È stato un guadagno sia repentino che graduale. Per il futuro, non ho idee. Il mio compito attuale, l’unico che abbia senso, è trovare la grazia del movimento nonostante il peso della sofferenza. Un allenamento di gravità moltiplicata. La respirazione, la diagonale d’una gomitata perfetta. L’Antico Maestro dentro di me non ha più voce: è diventato un fascio di movimenti, auree e linee perfette cui dovermi rifare: l’aura contiene la larghezza del movimento, la linea ne detta la direzione e lo spostamento.
Il dolore, Maestro, serve a sigillare la bestia? Da tempo non ho più voglia di combattere, eppure la smania d’essere il migliore è rimasta. Partorirò il mio gemello, una notte di queste, per combattere e salire un livello della Coscienza? L’ultimo scontro sarà contro il demone? È lui che ti ha ucciso? Non si può che perdere?…
Sono queste, ora, le mie domande, Maestro.
Sono ancora nero e indomabile, Maestro.
Porto però i miei colpi da un’altra dimensione.