
Claudia D’Angelo 2021
Federica Sabelli è l’autrice del più bel racconto pubblicato da Verde nel 2021 (qua) e questa è una lista. Un’altra lista, “La mia classifica dei 10 racconti (e saggi) migliori dell’anno”, l’agevola Luca Marinelli qua, la riportiamo di seguito per ə bannatə del Royal Banner (sono tantissimə, inclusə buona parte della redazione):
1 – Lucone, Stefano Felici, Minima e Moralia
2 – Mi sembrava cancro e invece era soltanto la Lazio, Stefano Sicignano, Micorrize
3 – cryptofascisti e molto innamorati su Marte, Sergio Gilles Lacavalla, Verde Rivista
4 – Dieci modi semplici per sbarazzarsi della concorrenza, Leonardo Ducros, Altri Animali
5 – Breve Storia sentimentale del signor Stocazzo, Francesco Quaranta, Neutopia
6 – Maradonologia di un Humble Viktor, Antonio Russo De Vivo, Verde Rivista
7 – Uccidendo l’editor a bastonate, Emanuela Cocco, Cattedrale Magazine
8 – Hasta Siempre Ridondante, Alfredo Zucchi, Cattedrale Magazine
9 – Nin”etto”, Pierluca D’Antuono, dal blog personale di Pierluca D’Antuono
10 – Giovanna Cinieri, Cosa c’è per cena, Neutopia vol. VIII, luglio 2021
Il Guru è ancora fermo al 2020, Tina a novembre. Come auspicavamo le cose stanno forse prendendo un’altra piega? Noi ci siamo premunitə con IL LISTONE DI NATALE 2021, le nostre classifiche di qualità dove stiamo raccogliendo i migliori racconti inediti di un anno molto pigro in cui abbiamo scritto e pubblicato pochissimo, ma ne valeva la pena.
Fede, come ama farsi fluidamente chiamare, è partita da un esergo pesante, e con L’arte del trapassare declina mirabilmente la sua personale interpretazione di dialettica della ripetizione con una potente immagine di sollievo in un loop di morte che si fa drone visuale nel collage di Claudia D’Angelo.
E allora due parole su Claudia D’Angelo. Claudia non fa collage, checché la patetica bolla normativista ne dica, Claudia racconta storie. E così da adesso in poi ne diremo. La storia di oggi si intitola “Norimberga 2(021)” ed è dedicata a “Brandon”.
“Visto che m’ero occupato a lungo, perlomeno occasionalmente, del problema della ripetizione, un bel momento ho pensato: perché non vai a Berlino?”
La ripetizione, Kierkegaard
È uno strano stupido inferno. Torniamo a disporci nello stesso modo dell’inizio. Nessuno che faccia mai nulla di nuovo. Il vecchio tira una monetina fuori dall’orecchio della bimba, all’infinito, la madre che non conta nulla e parla ma se la tira via, tira la mano della sua bambina ed è sempre tardi, così dice, ora dobbiamo andare è tardi. E tira via, nessuna moneta, ma il mondo intero e la magia da sua figlia. Nel mio inferno continua a essere tardi per sempre. Un uomo fuma al balcone, e questo dettaglio lo noto solo alla terza o quarta volta che muoio; la strada soleggiata, e io che torno sempre a casa, dopo anni, bastava attraversare la strada e tornavo a casa dopo anni. All’infinito la monetina tirata fuori e quella che credevo la mia distrazione ma non era così, non mi ero distratto per il luccichio della moneta, mentre attraversavo la strada e venivo investito. Questo anche lo capii solo dopo, mi ci vollero almeno una decina di morti, per capire che quella distrazione era un ricordo che afferravo per la prima volta. Lo stesso vecchio che era già vecchio quando ero stato piccolo e aveva tirato da dietro le mie orecchie le sue monetine. Venni investito dall’auto e ricominciai. Potevo forse uscire da quell’inferno, creando il mio spazio santo, ristabilendo la spiritualità del pomeriggio soleggiato, chiedendo perdono per non essere tornato mai a casa. E poi essere morto sul bordo di casa. Ma quella disposizione iniziale, quel dolore mentre l’uomo al balcone urlava, gli occhi coperti alla bambina, il vecchio immobile, l’autista che scompare, era tutto così perfetto e intimo che non feci nulla per far sì che finisse. Potevo solo immaginare il seguito. Che dalla porta di casa mia non uscisse mai più nessuno, perché nessuno mi aspettava. Che mi avrebbero sepolto accanto a mia madre, il giorno di Natale. Quel che immaginavo sarebbe successo dopo, poteva non contare su di me, poteva non aspettarmi.
A me morire continuamente piaceva. Così come mi piaceva il loop, ridispormi all’inizio della strada, la monetina ritolta. e perché, poi, fermare la madre e dirle di smetterla di tirare via sua figlia come se fosse la monetina a sbagliare tutto, il vecchio che prova e riprova a far ridere. e perché non andare dal vecchio e chiedergli di me. di me e di mia madre. ma no, ma come! sei vecchio, non c’è più nessuno. è da un tempo immisurabile che non c’è più nessuno. e perché smetterla di attraversare la strada. o smetterla di distrarmi. io, che so morire, che so chiudere i cerchi delle strade e delle vite, cerchi che sono cinque centesimi tolti alla morte, strappati con la fodera di infanzia ancora intatta, io so quanto sia prezioso che io muoia. che io torni a morire. che lei sia strappata, che l’altra urli, che il vecchio tiri, che l’auto investa e l’uomo al balcone sospiri. e se tengo al mondo, ai suoi salti scomposti, i suoi loop, le sue grida, tengo allora alla mia morte. a che tutto vada, sempre, così. cioè che io, che so invecchiare, invecchi. che io, che so morire e so di morire, torni a morire. è il sacro, e a noi tutti preme…
e c’è odore di bruciato.