Indifferenziata #1: Evanescence (Grazia Palmisano)

Oggetti introvabili #1 – Mona J. Wimbledon

INDIFFERENZIATA è la nuova rubrica di “racconti inadulterati” che contiene tutti i contributi arrivati in redazione dal 1 dicembre 2020, pubblicati senza lettura, selezione, editing o revisione alcuna. Come Vomito ma fatto meglio. Facciamo parlare i testi, rispettiamoli. Il summenzionato lavoro di redazione non viene d’altronde percepito come necessario o importante, se non nella trita e ormai defunta visione dell’universo letterario che vuole le riviste come filtri (leggete “gatekeepers”) per “l’editoria che conticchia”. La “gente” dopotutto vuole pubblicare, bisogna accontentarla prima che si svegli una mattina e decida di fondare una rivista propria.

Annunciata a dicembre sulla nostra pagina Facebook (qui) e varata oggi nella migliore tradizione di casa del “quanno ce pare”, INDIFFERENZIATA è stata accolta in redazione e dal nostro pubblico come l’ennesima bottata di un percorso di studio e di ricerca impossibile da descrivere nella contingenza.
Era molto di più naturalmente, e ai sensi che non percepiscono il disegno di un esito perfetto e dalla coerenza affilatissima non indicheremo il modo in cui abbiamo ripetutamente modificato i connotati della bolla più sfigata del precariato cognitivo, peraltro inutilmente e per sempre, ma triggheriamo l’avvertimento della messa in posa del tasto reset della nostra rivista e della meccanica fuori dal dojo.

Assistentə civicə della cara editoria indipendente, state avvisatə: i giochi sono fatti e qua sono finiti.
Ancora prontə a esordire su rivita, campionə?

Dunque, oggi diamo il benvenuto a Grazia Palmisano con Evanescence. Nata a Martina Franca (TA) nel gennaio del ’67, trasferitasi a Torino nel ’91, a Corsico dal 2009. Scrive il primo racconto a 28 anni, poi più niente fino a 36, continuando a fasi alterne. Legge molta narrativa, parecchia saggistica. Le piace la musica, quasi tutta, ama scoprire in qualsiasi ambito. Irrequieta, scontenta, pigra, dinamica, suscettibile, permalosa, curiosa, intuitiva. 

L’illustrazione è della piccola Mona J. Wimbledon che accompagnerà tutta la rubrica e i nostri venerdì futuri.

 

 

La voce, nell’esofago, nel cervello, intorno alle braccia, nelle scarpe; i violini, lei al piano, e io, qui, che la guardo.
A te non frega niente, devo fartela piacere, devo dirti di lei. A te che ascolti De André, Joy Division, Gronge, Scritti Politti, Bauhaus, Diaframma e Sister of Mercy. A te che avrai misericordia di me, del mio ascoltare, del mio amare Amy, All that I’m living for, lei lo sa cosa ho dentro, la pepata di cozze diceva un mio ex, coglione. Tu no, sei il maschio cortese, gentile, premuroso, testardo, educato, eloquio forbito, intelligente, un gran cazzo e una testa da femmina. Tu che rispetti ogni cosa di me tranne me, tu che non capisci che ogni cosa di me non è me. Sei pratico, concreto, calmo, determinato. E sì, hai ragione, non so scrivere, il tema centrale era convincerti della bontà di ciò che ascolto e già sono sulla tangente che ti sfiora e non ti tocca. Calci, su calci, e calci, violenza, prepotenza, dimentica, ascolta, non dire altro. Tu non c’entri con la violenza. La musica, non ti dirò altro, solo musica. I racconti non si scrivono così, devi avere un tema, devi essere ordinata, dialogo, pause, ritmo, precisa, scandire, coinvolgere, standard, basica. Io no, sono acida, la mia musica è standard, banale, mi servirebbe la tua, ricercata, sconosciuta, nomi di gruppi mai sentiti, stimolare la curiosità, inchiodare le orecchie, bam bam bam chiodo chiodo prigioniero. Tu bambina non puoi, la bambina che non sta mai dentro e vuol sempre uscire e finisce sempre fuori, fuori con te, a passeggiare e a non concludere niente. Ti piace tanto camminare, ci vuole movimento, dici, hai ragione, dico, e resto a casa. Non si scrive con la musica nelle orecchie, non si parla con il cibo in bocca, non si va avanti col passato tra i piedi. Amy lo sa che non posso lasciarlo andare, Amy mi capisce, lei lo sa cantare come sto, io non lo so dire come mi sento. E vuoi scrivere? Dici, hai ragione, dico, e accendo il computer. Dovevo incontrarti prima, ma la vita va come va, dove va, a meretrici va, ecco dove va, non dire così, dici, hai ragione, dico. Amy esiste perché io la vedo e la ascolto, io non esisto perché non mi vedi e non mi ascolti. Sii te stessa, dici, cosa vuol dire? Dillo con parole tue, dici, quali sono le mie parole? Suoni che non si sentono, note che non si leggono, il vuoto in cui respiro, lo spazio in cui esisto. Ma non vuol dire niente, dici. Hai ragione, dico. Smetto. Non è vero, non sei tu a dirlo.
Avevo trentadue anni e tu non c’eri, avevo trentadue anni ed ero sola, ne avevo quarantadue, ti ho incontrato, non sono più sola, ma sono sola. Non lo sapevo che ero brava, me lo hai detto tu, me lo dici da undici anni, ma non ti credo, lo dici solo tu. Non mi dici mai niente di cattivo, lo dico io e poi dico che lo hai detto tu. Dopo undici anni con te, ancora non riesco a tollerare la tua gentilezza, il passato tra i piedi, inciampo e cado e resto a terra, tu cammini e dici cose gentili, mi abbracci, mi aiuti ad alzarmi e ti odio per la tua cortesia, per il tuo farmi vedere che sì, sono stati davvero stronzi con me. La musica, le parole, io e te. Ora che ho te il passato si solleva dal fondo e parla con voce rauca e bastarda. Tu sei stato la mia pasta di Fissan, il bruciore in questi undici anni se ne è andato ma prima è diventato forte insopportabile indimenticabile e la pelle l’ho cambiata, fa più male questa nuova o quella vecchia? E’ meglio il presente o il passato? Il successo la gloria i soldi via dall’ufficio, un futuro radioso, solo nella mia testa. Non hai talento, non sei nessuno, chi ha bisogno dei tuoi sfoghi? Tu, solo tu, nessun altro all’infuori di te. Musica e parole, suoni silenzi litigate andataeritorno.
Non cambierò mai, Baby K, ma che ascolti? Anche se resto non ha senso vivere a metà, anche lei lo sa, lo sa Amy e lo sa lei, loro sanno come sto, perché tu non capisci? Hanno le mie parole, e io sono rimasta senza. Loro sanno come dire quello che voglio dire. Chiudo gli occhi e salto fidandomi di un battito, anche se non guardo so che mi prenderai, sempre lei sì, hai indovinato. Ora non strabuzzi più gli occhi, quanti pianti quante liti, io e te, Tu che ogni volta mi rivuoi, non vuoi che vada, non voglio restare, io devo scappare, sono stanca, di te di me di noi di tutto di vivere, mi aiuti? No, tu la vita la ami, non mi aiuterai e io ho troppa paura, facciamo tutto insieme ormai, come farò ad andarmene da sola? Se non ci sei tu è difficile, mi aiuti? No. Non mi aiuti. Hai la mia vita, quella vera, quella che neanche vedo, e non vedi quella che vedo io, quella finta che voglio cancellare, non sai usare la gomma su un disegno che non vedi. Tu hai la mia vita loro hanno le mie parole io ho te. Possesso, prepotenza, violenza, abitudine, noia, sforzo, sopravvivere, non vita non morte agonia. Esagerata, no, tu non me lo hai mai detto, me lo hanno detto nei quarantadue anni prima che incontrassi te. Tra il soffritto di cipolla e la puzza di brodo, esagerata, cosa vai cercando, la vita è tutta intorno a te devi solo guardare, guardavo e non vedevo, fai come tutti, vivi e basta, giorno per giorno, io non sono tutti e ogni giorno è un’impresa titanica impossibile sovrumana, non posso, trovati un hobby, palestra, yoga, fatti una scopata, pulisci casa, fai la spesa, le solite cose che fanno tutti, io non sono tutti. La polvere di mesi sui mobili che non c’erano, le suole consumate di scarpe mai usate.
I vulcani eruttano non esplodono, le cimici puzzano, il sole è caldo e la mamma è buona. Vero vero vero falso. Non sei la tua storia, piantala di avercela con i tuoi, hanno fatto il meglio che hanno potuto. Il meglio sarebbe stato se io non fossi qui. Non dire così la vita è sacra. Basta Marta, Marta sui tubi ti dico, rido, mi prendi per mano, mi copri il viso di baci, quanto sei dolce, non ti sei ancora stancato? Che altro devo fare per allontanarti, allontanati come tutti, io non sono tutti, dici, hai ragione, dico, mi alzo, ti abbraccio. Nessuno può salvarmi, è vero, dici, solo tu puoi, non rispondo.
Salvarmi, da cosa, perché, per cosa. Seghe mentali, lavora di più e pensa di meno, fatica e tante ore di straordinario e vedi come ti passano le fisime. La voce di mamma, non sa niente di me, un emerito cazzo di niente, lei che ho cercato di odiare e che invece amo ancora, che è qui tra i piedi, ci inciampo, la scanso, e non sparisce mai, maledetto parto maledetta gravidanza. Così è troppo, più soft, non troppo alti i toni o diventano inascoltabili, rompono a sangue le orecchie, calma, piano, onde quiete di un mare tranquillo al chiaro di luna, l’odore della notte, del rosmarino, i trulli, i grilli, i gerani innaffiati a tarda sera, la cena in frigo, tutto a posto, nessun problema, non sentire non soffrire non capire.
C’erano pomeriggi d’estate, tutti andavano a dormire e l’unica musica era quella delle cicale, a decine, nel campo di grano, fra gli alberi di ciliegio, io, le cicale, e un libro giallo. La mia vita, ogni tempo è stato la mia vita, e non è ancora mia, non lo è mai stata, nessun tempo ho abitato come questo con te. Non sei tu, non siamo noi, sono io forse, la crisi di mezza età, ho avuto crisi a dieci anni, a quindici, a ventotto, a trentadue, a quarantadue, a cinquantuno e anche ora, cinquantatré unità di crisi. Anni e anni nel canale di uscita, in stallo, senza completare il parto. Non sono mai nata. Diventerò pazza, mi faceva paura la follia, la morte invece la cercavo. Nel suo giardino di rose rosse la vedevo, splendida donna ossuta, vestita di seta e broccato, i capelli lunghissimi, neri, gli occhi azzurri, di quella tonalità che mi inquieta, che dice pericolo. Somigliava a Amy, sovrana assoluta, donna magnifica che non sono riuscita a essere. Dieci anni, arrampicata sul bidet per arrivare all’acido muriatico, e se poi brucia e non muoio? Lo rimetto a posto. Saggia stupida bambina, dovevi farlo allora, era più facile, ora sai troppe cose e rompi rompi rompi, sempre tre volte, rompi. Non essere ombelicale, coinvolgi, non travolgere, non sei Clarice Lispector non puoi usare uno stile così privo di stile, devi trovare un tuo stile, è questo, sai scrivere ma non mi piace quello che scrivi. Imparare studiare provare esercizio esercizio un due tre valzer danza liscio. Un topo nel sacco di grano, tuo padre che lo insegue, bestemmia, lo becca, lo schiaccia col piede, hai paura ma non vuoi che lo uccida, è morto, il raccolto è salvo, tu no. Tuo padre suonatore, tango polka mazurca Orietta Berti la sua amata che pazzo. Fisarmonica, musica, mani pesanti e sorrisi leggeri. Cinghiate frustate mani callose contro la guancia, che sarà mai non è colpa loro, dimentica; all’epoca si usava così, perdona, e falla finita, sono cresciuti in mezzo alla guerra, al fascismo. Tu non sei la tua storia, io non ho una storia. Sosa wave progressive anche lui sa chi sono, percuote, batte, ritmo, basi, cervello fritto, mi piace come sfrigola ogni cosa in questo progressive, dimentico, non penso, non vivo e tutto va bene. Poi finisce, la vita ritorna, i rumori la giornata lo stomaco la vescica la figa i soldi l’affitto le bollette il governo le malattie la povertà gli stronzi.
Ogni cosa è evanescente, Amy lo sa, io non lo so tu sì.
Tolgo le cuffie, ti do un bacio, andiamo a dormire amore mio.
Ho caldo, le emozioni eruttano, le cimici sono sparite, il sole è tramontato, e tu, madre, mi hai solo partorito. E tu vita, non mi hai conquistato. Tu mondo, mi hai stancato e io ho stancato te.
Ti abbraccio, ti accarezzo il viso, mi sistemo meglio nel nostro lettone, chiudo gli occhi, tengo le mani sulle tue e posso andarmene.
So che riuscirò a non svegliarmi, questa volta ce la farò.
Ti ho lasciato un biglietto elettronico, ti arriverà una cartolina domani alle dieci, ho scritto Sei stato l’uomofemmina più adorabile che io abbia mai incontrato, non soffrire troppo e la prossima cercala normale.
Non ne voglio una normale, voglio te, penserai.
Sono andata via, questa volta ce l’ho fatta.
Musica musica, per sempre musica.

Grazia Palmisano

 

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