Continuano le dirette de La Nuova Fahrenheit (qua Jimbo) e proseguono le pubblicazioni di Verdə. La rivista pulsa di vita mortifera, che per quanto mortifera è pur sempre viva. D’altronde ogni organismo vivente *è* in quanto arde del desiderio di vivere e i virus lo stanno dimostrando egregiamente a noi tuttə, che d’altronde ci siamo evolutə talmente tanto con le 30 mila miliardi di cellule che ogni giorno trasportiamo da poter serenamente desiderare le possibilità dell’annichilimento. Contro ogni vitalismo è stata peraltro la nostra linea editoriale per anni. Sul caso Marilyn Manson ci viene in mente soltanto che nel 1996, mentre Francesco Mila nasceva, e all’indomani dell’ingiusta condanna a un mostro sì, ma non di Firenze, il commissario fondava gli Anna Pacciani, duo tastiera e basso con all’attivo un solo concerto interrotto dopo 7 minuti causa sedizione del pubblico anarchico di un CSOA pazzesco di cui restano soltanto gli svaniti ricordi della cui sostanza sono fatte le sorprendenti pagine di Piperita, un romanzo che non abbiamo letto ma così non speriamo di voi, e questo è un sincero consiglio per gli acquisti (qua).
Qua ne consigliano un altro di romanzo che non leggeremo e peraltro ci citano (forse male) (Stefano Quaranta?). Un romanzo che non ci stancheremo mai di consigliare è Morse, che trovate come sempre qua (per chi chiedeva).
L’insurrezione è un’arte, ha leggi proprie che implicano se stesse. L’oplita Luca Mignola ci regala un nuovo ambizioso e geometrico tassello di quel gotico mediterraneo teorizzato alle scenicchie unite due anni fa. C’era ancora la guerra e la Gioventù etrusca era di là da venire. E così vi lasciamo con la Storia dell’insurrezione di Tuzla, una splendida pira incendiata, mezzo scellino bucato e un collage pazzesco di Ottavia Marchiori che dice tutto.
Dunque, pensa il generale, la guerra è finita
si torna alla morte naturale.
Ma in cuore non vuole conforto,
piuttosto entrare ancora nel vortice
della sanguinosa battaglia.
Canto di guerra del CPP
“L’insurrezione è un’arte, ha leggi proprie che implicano se stesse”, la voce di Havor Treblinka si riverbera nel rifugio, mentre leggendo a voce alta tenta così di tenersi sveglio. Sono stato ingannato, si dice Havor Treblinka e guarda il libro con disprezzo, nonostante tutto continua a leggere: “L’insurrezione è soggetta a norme d’azione determinate, le quali, quando vengono trascurate, portano alla rovina di chi le trascura: meditazione e immediatezza – norme individuali, atte a regolare innanzitutto il pensiero del singolo nel discernimento della verità»” L’azione, considera con amarezza Havor Treblinka, non può essere arbitraria rispetto al pensiero.
Il suono di un campanello (forse del luogo dov’è rifugiato) lo costringe ad alzarsi dal pavimento – il luogo è vuoto e, ogni tanto, si sente un fetore come di fieno rancido – e in lunghi passi trascinati arriva alla finestra, sposta il cartone che la copre e guarda attraverso lo spiraglio tra il cartone e il vetro. Niente fuori, soltanto il silenzio e l’ombra dell’abetaia. Torna a sedersi. Non ricorda perché ha fatto ciò che andava fatto, l’amarezza a quel punto lo soffoca. Riprende il libro e legge: “L’insurrezione è un gioco”. Il tono pragmatico del libro (Storia dell’insurrezione di Tuzla, il titolo) si deve alla necessità ideologica, che sta dietro – il retro-pensiero, dicono le filosofie o le psicologie più recenti –, che si vuole legge autonoma. E di fatto, Havor Treblinka legge: “Non si deve mai giocare con l’insurrezione, se non si è decisi ad accettare tutte le conseguenze del proprio gioco. Non si deve…”, ma a quel punto il campanello suona di nuovo. Havor Treblinka fa finta di niente. Chiude il libro. Si stende sul fianco sinistro e attende che la morte lo raggiunga (cosa o chi potrebbe mai scovarlo là dov’è. Dov’è?), anche se sa che la ferita, che gli era stata inferta durante la sua fuga da Tuzla, non gli permetta di morire.
Al ricordo di Tuzla, ripensa con dolore, è legata questa moneta. E è a nulla mi è servito lanciarla via, nasconderla o donarla, la moneta torna da me a ricordarmi che non posso più morire.
Archeologia della moneta
Gli ebrei polacchi portano una moneta dietro l’orecchio sinistro per proteggersi dal vento di pogrom.
In Inghilterra la moneta è lo scaccia-nebbia più potente, e se ne tiene una di sei penny bucata in tasca.
Dopo il battesimo gli estoni fissano alcune monete alle fasce dei pannolini, e gli zingari le dispongono nei capelli dei bambini (dopo averle predate a ebrei polacchi, inglesi, estoni e zingari).
In Romania e in Serbia il fez delle donne è legato al collo con un nastro coperto di piccole monete; ogni moneta – un anno in più che le avvicina alla morte.
In Scozia alcune famiglie conservano e tramandano uno scellino, detto cross’t shillan, ma nessuno sa più che cosa significhi.
In Grecia si lega uno zecchino alla testa dei cavalli e dei muli oppure lo si appende al collo dei puledri.
Nel libro dei Re (XVI, 34) si legge: “Al tempo suo Hiel di Bethel costruì Gerico; egli ne gettò le fondamenta sacrificando Abiram, il suo primogenito, e Segub, il suo ultimo figlio. Restò in vita solo il terzo, il nome del quale è proibito pronunciare”. Il libro, oltre al nome del terzo figlio, omette anche che Abiram e Segub sono anche i nomi di due monete e due cavalli.
Qualcuno suona il campanello.
La vecchia di guardia gli si avvicina. Avrebbe potuto ucciderlo e non l’ha fatto, (forse sa che non può morire?). Sei un’infame, dice fra i denti, ma è «nonostante la ferita mi strazi, me ne andrò» ciò che dice veramente alla vecchia.
«L’hai già promesso tre giorni fa», gli risponde. Poi si caccia una mano in una tasca del grembiule, ne tira fuori una foglia secca di tabacco e se la ficca in bocca. Mastica. Mastica e si sputa in mano parte della foglia tritata, una ragnatela di saliva la tiene compatta, poi la ripone nella stessa tasca.
«Potrei uscire ora da quella porta e non tornare più, è che resteresti sola», dice Havor Treblinka. Coi denti marroni la vecchia sorride e gli si avvicina con una bacinella, riempita a metà d’acqua.
Soltanto il dolore per la pulizia della ferita lo distrae dal fetore della vecchia. Tutta la stanza n’è appestata. Almeno ho questa ferita, si dice l’uomo, orlata di bianco si apre a squarci di carne sui quali il sangue raggrumato è diventato nero – è il verminaio per cui non posso morire.
La vecchia ha mani da uomo, dita lunghe ma doppie, le nocche sporgenti. Ripete ogni giorno la lavanda della ferita, immergendo una pezza logora nell’acqua della bacinella, che puzza almeno quanto la vecchia. Dopo con un dito (l’indice, a volte il medio, a volte in combinazione col pollice) caccia i vermi dalla ferita in questo modo: pima la ferita con l’indice della mano sinistra (per lo più. La ripetizione anestetizza il pensiero o, se proprio si vuole, lo rende automatico), la stessa da cui rumina il tabacco, e con la mano destra raccoglie i vermi e li getta nella bacinella. A quel punto suona il campanello.
«Hai sentito che qualcuno…?», domanda Havor Treblinka.
«Sì», non gli fa finire la domanda. «Là fuori non c’è niente, né lo spazio né il tempo, né la contingenza né l’assenza. Là fuori esiste lui», dice e va ad aprire la porta. La sua voce si affievolisce mentre cammina e Havor Treblinka riesce soltanto a capire «…se comprenderà ciò che andava fatto».
Cattura
Nella sede del Comitato di Polizia Paramilitare (CPP) di Tuzla si raccontava questa storia: “Due asceti di Tuzla videro avvicinarsi due uomini. Entrambi si sporsero nell’eremo e uno di loro parlò agli asceti: ‘A nome mio e del mio amico mi rallegro di voi, che vivete nel ritiro e nell’oscurità’. Alla destra dell’arco d’ingresso dell’eremo, gli asceti avevano posto uno specchio, così che potessero vedere l’immagine riflessa, che è sempre più vera dell’immagine che riflette, di chi veniva a visitarli. I due asceti si voltarono e guardarono i due uomini nello specchio. Così scoprirono l’inganno. Non si trattava di uomini, bensì di due cavalli, che da lungo tempo li insidiavano, per sottrargli l’eremo. Gli asceti gli dissero: ‘Voi, Abiram e Segub, come osate ingannarci assumendo le sembianze di uomini?’. I loro nomi erano stati pronunciati, e gli uomini riacquistata la loro forma di cavallo si allontanarono nitrendo”.
Tra gli uomini del CPP, tuttavia, a questa parabola è stato aggiunto un altro finale: “Abiram e Segub corsero dal loro primo padrone e così facendo lo condannarono. H. T. (questo è tutto ciò che si può dire del nome del loro padrone) fu arrestato quello stesso giorno. Da quel giorno Vladimir Mladić porta in dono ai due asceti di Tuzla due code di cavallo intrecciate”.
Il terzo figlio
“Vladimir Mladić, il generale, – così è scritto ed è chiamato in Storia dell’insurrezione di Tuzla – è di temperamento malinconico. Snello, di carnagione scura, capelli ricciuti e occhi grandi, neri, cui non è difficile attribuire una certa profondità, illusoria come ogni carattere che implichi una prospettiva, ma proprio per questo indispensabile ai carismatici, ai fatali e a Vladimir Mladić.
Il generale non mangia praticamente nulla, eccetto una zuppa di fiocchi d’avena con un po’ di burro e farinata d’avena mischiata a uvetta. È incredibile di quanto poco cibo o bevande sembra accontentarsi”.
Liturgia
«Quando scappammo dalla caserma camminammo tutta la notte. Stavamo in divisa però senza niente. Le armi le lasciammo tutte lì. Avevamo bisogno tanto di un nome come di altri vestiti, le nostre, cioè le vostre divise, ci disgustavano. In ogni senso avevamo bisogno di una copertura. Partimmo che eravamo migliaia di sbandati: di notte pianificavamo la fuga, ci dividevamo i compiti. Poi ci riducemmo a non più di una sessantina, e in così pochi non potevamo insorgere. Ma il numero ci fu in qualche modo favorevole, e forse per questo, a lungo, siamo riusciti a passare inosservati dal CPP», Havor Treblinka sta raccontando e la sua voce attraversa la penombra della cella in cui è rinchiuso in seguito alla cattura (Havor Treblinka nota soltanto allora, forse perché è presente, nonostante tutto, che quel luogo puzza allo stesso modo della vecchia), e riesce a intuire la presenza del generale Mladić – ne immagina il corpo senza l’illusione della profondità, schiacciato, bidimensionale, potenzialmente un’icona soltanto –. Il generale, però, è anche lui presente, e dall’ombra si mangia il prigioniero con gli occhi. Segue le sue mosse: la mano che sul fianco destro preme sulla ferita, mentre con le dita dell’altra gratta nervosamente la moneta che ha in tasca; la testa che si gira di scatto ogni volta che Havor Treblinka avverte un tintinnio (come il suono di un campanello); la bocca e gli occhi pesti; la schiena curva a sopportare da sola il peso dell’idea di insurrezione.
Vladimir Mladić crede fermamente nella confessione, che questa sia spontanea o estorta con la tortura. È divenuto famoso per i lunghi isolamenti con i quali torchia la resistenza dei prigionieri, i quali dopo desiderano ferocemente, come se fossero affamati (e in fondo lo sono affamati, nei casi più ostili non viene dato da bere al prigioniero per due giorni) di parlare – e di farla finita. Secondo il rito, il prigioniero è costretto all’isolamento fino a che il generale non lo ritiene pronto e incline a confessare. Manda allora i suoi uomini (da due a quattro) a svegliare il prigioniero dal sonno in cui riversa il suo desiderio di fuga, sebbene – secondo alcuni soldati vicini a Vladimir Mladić – già nel sogno il generale sia in grado di dare inizio alla torchiatura. Il generale non interroga, non usa il linguaggio, non vuole falsificazioni, piegare il prigioniero nel corpo è più efficace che piegarlo nella volontà, nella parola, nella voce.
A Tuzla, in quella che è senza dubbio la più grande impresa del generale, quest’ultimo aveva ottenuto più confessioni di quante gliene sarebbero servite, tanto che aveva trasformato gli interrogatori in un gioco: aveva iniziato ad accettare scommesse su quanto un prigioniero avrebbe resistito all’isolamento; alcuni scommettono anche sui termini della confessione stessa, e questi miliziani sono ben visti dal generale, che non disdegna le lusinghe di un Blitzkrieg. Nessun prigioniero si è mai tirato indietro dal confessare o ha preferito morire a parlare, poiché la morte sarebbe arrivata in ogni caso e la sua sorte non sarebbe dipesa dal giudizio del generale Mladić, ma dal lancio di una moneta.
Dritto e rovescio
E Havor Treblinka parla.: «Arrivati nelle zone rurali di Tuzla, non sapevamo che cosa avremmo dovuto fare per tornare a casa. Eravamo in sessanta, uomo in più uomo in meno, e così sbandati ci mettemmo a camminare. La città era stata evacuata, a eccezione di pochi che si erano nascosti, pur consapevoli che essere scoperti significava morire», tira il fiato. «Trovammo riparo in alcune case di contadini. La prima cosa che fecero i contadini fu accoglierci e, prese le nostre divise, in cambio ci offrirono una camicia e un pantalone; conservammo solo le scarpe, chi le aveva. A me capitò una blusetta bianca a maniche corte da donna e un pantalone da contadino». Riferisce poi, come se stesse facendo un bollettino di guerra a un suo superiore, non al suo nemico, per quali vie erano passati, quante case erano occupate e quali vuote. I nomi delle famiglie e la loro composizione, le gerarchie – soltanto in quel caso il generale gli concede un commento: «La cosa più importante». Havor Treblinka non bada alla concessione del generale, non soppesa l’onore con l’inganno, e continua: «Attraversammo quasi l’intera Tuzla a piedi, sotto i muri come topi». Tranne quest’ultimo dettaglio, il resto è menzogna, Havor Treblinka mente, non riguardo ai fatti, ma alla loro ricostruzione, compresi nomi e gerarchie – ma soprattutto riguardo ai nomi dei cavalli «I miei», dice «Li ho chiamati Balio e Xanto, divini traditori».
Nota
Il processo illustrato non è arbitrario. La magnificazione fino all’annichilimento, che avviene o tende ad avvenire in tutti i culti, si osserva anche in modo inequivocabile nel caso di Vladimir Mladić.
Una blusetta bianca
L’interrogatorio si protrae fino a notte (o al mattino, la scarsa luce delle prigioni rende il tempo un vuoto incolmabile) e Havor Treblinka non si mette a blaterare di cavalli, di come li hanno sottratti al CPP e quanto sia stato stupido prenderli, invece di continuare a strisciare sotto i muri, nella penombra, in silenzio. «Ci separammo, ciascuno con i propri cavalli, due a testa. I cavalli, però, alzavano polvere, perdevano i ferri, nitrivano. Ci hanno traditi», confessa con la schiuma alla bocca, più assetato che irato. Poi tace, non dice più niente. Si asciuga la bava col dorso della mano. Tra Havor Treblinka e Vladimir Mladić, tra il suo corpo escoriato, piagato, e quello del generale, fasciato nell’uniforme grigia attraversata in obliquo da una due strisce verdi parallele, cala il silenzio. Gli occhi del prigioniero si chiudono per la stanchezza, la fame, la sete, l’impossibilità di morire. Allora suona un campanello. Nessuno sa se nel sogno o nella veglia. Le guardie in automatico si avvicinano alla cella, la aprono e si mettono ai lati, lasciando libero il passaggio. Dopo qualche istante anche il generale Mladić si mostra, pur rimanendo in parte nell’ombra e in parte illuminato dalla luce blanda di una lampadina, che pende dal soffitto fuori della cella. Il prigioniero non si muove, gli occhi chiusi, la testa riversa sul petto, deve essere sollevato dai miliziani e trascinato fuori, dove il generale può guardare Havor Treblinka ancora per qualche minuto, prima che ordini di rilasciarlo.
Adesso Havor Treblinka vaga per le strade di Tuzla di nuovo, allo stesso modo in cui aveva già vagato a ritroso prima, dalla caserma alla prigione, e invano ora. La ferita non gli dà tregua, eppure non può morire. Cerca di ricostruire quegli ultimi giorni: il rifugio, la vecchia, la moneta, il libro, il generale, i cavalli, la fuga e ancora la puzza della vecchia nella cella, la voce di Mladić “le gerarchie sono la cosa più importante”, i miliziani, i contadini, i suoi compagni, l’insurrezione fallita, prima o dopo l’incontro con la vecchia?, prima o dopo il ritrovamento della moneta?, prima o dopo la lettura della Storia della battaglia di Tuzla? e, ancora, “un’arte” o una fuga, il nitrito dei cavalli o il tintinnio di un campanello? La voce del generale, la ferita.
Cammina Havor Treblinka, fino allo stremo. Cerca senza trovarla la casa in cui si è rifugiato, la vecchia. Ma trova soltanto una pira di cavalli. Centinaia di cavalli ammassati uno sopra l’altro bruciano, il fumo e il fuoco si alzano al di sopra dell’abetaia. Per ogni coppia di cavalli conta un delatore, e quasi in cima, nel riverbero delle fiamme, gli sembra di riconoscere Abiram e Segub.
Soltanto alla luce del rogo si rende conto di vestire ancora la blusetta bianca e di conservare la sua moneta in tasca – e capisce che gli uomini del generale che non lo hanno neanche perquisito a quest’ora, almeno loro, saranno morti.
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