FELICI. Per una letteratura minore

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Federica Sabelli 2021

Care e cari, è un eufemismo. Noi e voi non abbiamo niente da spartirci, si capisce. Ieri pomeriggio, durante il consueto scrolling alla ricerca di foto piccanti di editorialə della bolla, siamo “inciampatə” in questo e non essere citatə nemmeno tra parentesi ce lə fa girare molto stortə. Soluzione? Prendere quota per sfuggire alla bolla. Il board de La Nuova Verdə ha deliberato che il 2021 sarà l’anno dei nostri ombelichi. Chi ha capito per il momento ha capito. E chi non ha capito: il maggio 2022 è lontanissimo, ma Stefano Felici ha già un pezzo critico in vita. Per una letteratura minore. Lo ha scritto Federica Sabelli che tra le altre cose sostiene che “Il cibo è stranamente politico nella narrativa feliciana” e lo sapevamo e che, così lei, “non vi è mai stata scrittura più femminista e anti-sillogistica di quella feliciana”. È uno di quei patetici scherzi alla Verdə? Ai posteri.
Domani sera alle 19 nel noto gruppo Facebook “Book Advisor” conversiamo con Marco Lupo attorno a Hamburg. Qua torniamo mercoledì cazzi e pazzi.

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si…

Il cerchio non è mai stata un’unità perfetta. La trasformazione ha gradi di qualità che la avvicinano più o meno alla distruzione. Il cibo, se vogliamo, non si distrugge. Ma la sua trasformazione in merda è senz’altro una piccola forma di distruzione dell’utile.

Il cibo è stranamente politico nella narrativa feliciana. È un dispositivo di potere o un accesso allo straniante. E il potere è straniante. Il family banker può vietare il sonno e i rapporti sessuali, ma è la privazione dei grassi che rende tutti nervosetti e li fa cedere al mefistofelico mascolino. All’eliogabalo bancario. Non l’umiliazione, non la sottomissione, ma la rinuncia ai lipidi crea il ribaltamento da maschio a femmina, perché è ciò che immediatamente agisce e modifica il corpo. È la chimica del corpo, la folle giostrina degli ormoni, la danza macabra dei trigliceridi.

Felici e la sua dieta perenne, la sua dieta espletata solo su carta. Il maschio che cede, il maschio tenuto per le palle, non si è mai trattato di misoginia, si è sempre trattato del maschio a dieta.

Il governo su ciò che non puoi governare: la tua fame. Una fame politica.

Estratto da Il progetto Ms:

I suoi amici hanno preso entrambi un branzino, mentre lui si è fatto portare dei gamberi belli grossi, ha detto. Erano una decina, e li ha spolpati di gusto, succhiandone le teste, nelle quali risiede quella poltiglia al tempo stesso amarognola e dolciastra. Il suo amico, il proprietario del ristorante, gli ha detto che i gamberi erano surgelati. Lui ha risposto che se l’aspettava, e che non era un problema; ha anche aggiunto che di gamberi ne mangerebbe, per quanto gli piacciono, di vivi, di crudi, e di morti in decomposizione.

Si potrebbe obiettare che il cibo funzioni qui in modo ben diverso da, mettiamo, un Brasilesss che spolpa una costoletta. Ma questa obiezione non afferra l’intero. Si tratta, né più e né meno, di seguire fino alla fine un processo che altrove è interrotto: la decomposizione. Questa interruzione non significa che in altri racconti la decomposizione non avvenga, ma soltanto che non vi è bisogno di renderla esplicita, di seguirne l’andamento. Il cibo negato all’assistito del family banker verrà buttato e si decomporrà. I panini che Tiziano è costretto a comprare ai capi di Cazzotti e Megapinne non potranno fare a meno di marcire. Ogni alimento si avvicinerà (verrà avvicinato dal tempo) al suo grado qualitativo più infimo. Ma a Felici importa poco del cibo marcio, egli vuole fissarlo piuttosto nel suo grado di qualità maggiore. Qui, la sua empietà, la sua cattiveria. Il cibo sbranato senza gusto o il cibo appena pronto ma che non può essere gustato. Tutto questo cibo che viene negato ancor prima della sua decomposizione, che viene negato nel punto più alto del suo essere.

No, non si può godere la vita. Mancherà l’energia, mancheranno le chilocalorie necessarie. Il corpo si consumerà dapprima bruciando i grassi rimasti, e dunque i muscoli… e infine tutto il resto. È sottile, come movimento, ma bisogna coglierlo.

Da shotgun:

«All’assalto!», carica la formica Generale. Cominciano a salire dal pendio erboso della mia gamba decomposta. Seduto, in una pozza acida e salina, imploro la quiete a un quadro dai toni rossastri. Che ne sarà di quelle macchie ingenue, mi chiedo. «Delle uova ben cotte», dalla cucina. «Mangiale tu», iniziato alla cerimonia del pasto delle formiche-soldato.

In questo passaggio lo spostamento di camera dal cibo all’uomo è esacerbato. Le uova, in cucina, sono pronte. Attendono che l’uomo le mangi. Che se ne serva. Ma rimangono lì, perché l’uomo è mangiato a sua volta dalle formiche. È diventato il pasto.

I più maligni potrebbero aver notato che i ribaltamenti nella prosa feliciana sono due: da maschio a femmina, da maschio a cibo. E dedurre da questo che dunque la femmina sarebbe cibo, sarebbe carne. No, non vi è mai stata scrittura più femminista e anti-sillogistica di quella feliciana, ma questo non è l’argomento del nostro saggio.

Qual è allora l’argomento? Anche l’anziano protagonista di Ricette si sta decomponendo. Il suo corpo sembra avariarsi in parallelo con il suo linguaggio. Ma vi è una scena portante in cui ordina un piatto di riso in bianco. Qui, a differenza di altri passaggi in cui la lingua s’è ormai deteriorata al punto da risputarlo fuori dal mondo logocentrico, viene capito e l’ordinazione presa. La scena finisce così, non con il piatto che arriva.

Ci sono cibi sani e cibi grassi. Ci sono cibi salvici e cibi che ostacolano l’uomo.

Cosa rappresenti il riso in bianco per Stefano Felici non lo sapremo mai. Un indizio potrebbe arrivarci da un altro racconto, Il minimo:

… cibo, solo quello in offerta; frutta e verdura le prendo al mercatino, a quattro isolati da casa mia, in orario di chiusura, verso sette di sera. Per una settimana, visto che un pacco da un chilo era in offerta a 1,49 – ne ho presi cinque –, ho mangiato del riso bianco parboiled insaporito con brodo lungo di sedano, cipolla e carote – presa una cassetta intera una sera al mercatino, per un manciata di monetine di rame.

Il riso in bianco rappresenta quel minimo che basterebbe al giovane protagonista per stare bene. Minimo spreco di energie e soldi, minimo risultato. Di cui però non si potrà dire che non garantisca una vita degna.

Vogliamo rifuggire alla tentazione di leggere i vari racconti come un susseguirsi disciplinato, come una vita ordinata e causale che giunge alla sua fine biologica. Non vi sono mai stati elementi in comune che si dispiegano lungo la famelica linea narrativa; soltanto cibi in comune.

Cibi minimi e vapori oleosi.

È un’ossessione pudica, un gioco riservato come un movimento digestivo, non afferrabile con certi organi di senso. La vista non coglie i singoli chicchi di riso, che però si sommano di racconto in racconto travalicando la scena, la storia, per restituirci l’inganno. Il trucco di tutto questo cibo che non sfama mai.

La fame che sovreccede, che trascende ovunque la prosa. La fame è qualcosa che l’uomo riceve con il suo corpo. La mia fame – pare dirci Felici – esisteva prima di me, io sono nato per incarnarla. Esiste dunque una verità eterna della fame? Se sì, è nella narrativa feliciana che va individuata.

In Flugt un uomo si convince ad abbandonare il lavoro, la moglie, la casa. Si lascia dietro la sua vita pigra e acquista un camper per rintanarsi nella foresta. Ci interessa poco la causa di tale innesco. Quello su cui invece dobbiamo fermarci è il suo primo gesto da uomo libero: fare provviste. Lo attende la foresta brada, lo attende l’ostacolo alla sua conservazione. Avrà fame.

Senza nemmeno pensarci si dirige verso l’angolo degli alimentari. Riempie il cesto di plastica con scatole di legumi e carne essiccata e in gelatina. Poi va a prendere un altro cesto. Lo riempie di soli barattoli di aringhe affumicate sotto sale.

Non facciamoci confondere e non interpretiamo questo gesto come un mero riflesso auto-conservatorio. È qualcosa di più e di meno. È un’agnizione. In cui l’uomo riconosce la sua componente biologica, la sua tragedia del finito, la sua schiavitù al cibo, al filo della sopravvivenza. Ma riconosce altresì che questo non basta. Che si dovrà mangiare in un certo modo – il più sano possibile – e solo una certa quantità di cibo per volta. In cui scopre che lui, Essere limitato, dovrà limitarsi a sua volta. Legumi e pesce. Il pesce compare altrove. Nel romanzo in uscita per Wojtek (maggio 2022), di cui non possiamo dire granché al momento, il protagonista ha una relazione profonda e spirituale con l’orata. È il primo cibo che egli abbia mai imparato a cucinare (e questa non è autoconservazione, ma cura di sé e accesso alla conoscenza dei propri gusti) ed è il cibo che desidera negli anni di giovinezza e povertà. È anche, e qui saremmo tentati di spingerci oltre e raccontarvi più di quanto possiamo, il cibo con cui viene ricattato. Interessante che egli, potendo da adulto mangiare qualsiasi cosa, non rinneghi mai l’orata, non spezzi mai quel legaccio ai suoi tristi trascorsi. È un’orata elettiva. Come dire: tutto ciò che eleggiamo, lo eleggiamo per uno scopo. Spesso lo scopo è punirsi.

Qualche lettore potrebbe avvertire che il nostro saggio stia prendendo un via d’interpretazione cristologica. Ma noi ci limitiamo a seguire il cibo nel tessuto narrativo di Felici e senz’altro vi troviamo l’elemento cristologico. Un cibo escatologico (e sì, scatologico). Un’alimentazione redentrice – e non si segue certo una faticosa routine di allenamenti solo per svagarsi. Parlavamo appunto di agnizione, e non a sproposito. Del dramma assoluto e improvviso in cui ci si riconosce in sé stessi. In cui si scopre, come in Il segreto di una buona pasta, che il corpo s’affatica e si piega frustrato. Comincia a non avere più la solita malleabilità, la consueta plasticità a cui ci eravamo appena abituati. La stessa docilità ai nostri sforzi. Forse non si potrà più giocare a calcetto, l’ora tremenda è allora giunta, si presta attenzione alla propria pancia rotonda e soda, perfettamente convessa.

Ma ancora con la storia della pancia? Ti ho detto: è perché mangio come un porco dopo le partite. Solo dopo le partite. Un kebab e un frappè. Uno dopo l’altro. La gelateria sta attaccata al pizza-kebab e io non ci posso fare niente. Mangio per rabbia.

E anche:

Ancora con la stronzata dell’età. Sei un coglione pure tu. Non sai che in serie D ci gioca gente di quaranta, quarantatré anni, che ha la pancia che quasi mi doppia. Se tu mi dai un briciolo di fiducia e mi fai allenare a dovere, io ti arrivo in serie B di futsal nel giro di due, massimo tre anni…

L’uomo: non senza qualità ma senza energie, fiaccato nel fisico. L’Oblomov del calcetto. Non dovrebbe mangiare eppure mangia. O, con un simile movimento inverso, dovrebbe mangiare ma non può. Non vi è mai, nei racconti di Felici, misura esatta. L’equilibrio è interrotto. I personaggi si troveranno in bilico tra un costosissimo dispendio di energie e nessun sostentamento da un lato, e un’abbuffata e un’inerzia indolente dall’altro. Vi sarà troppo poco cibo per assicurargli energie per la sua impresa o troppo cibo che congestionerà il suo corpo e gli impedirà di agire. Gli eventi lo prosciugheranno, o sarà il cibo a guastarlo. Si tratta di quantità sempre storte, sempre scorrette. Alla fine, che siano troppe o troppo poche le calorie, le forze dell’organismo, l’universo intorno a lui dissiperà queste energie eccessive o residue, l’entropia lo rosicchierà.

«Mi sono congedato dall’umano così facilmente?» scrive Felici in Il picco del buio perpetuo. Il protagonista è ossessionato – ma no, non è la parola giusta, perché vi è ancora l’idea che sia un’azione attiva –, è succube di un’immagine precisa: uno stambecco. Fin quando, uscendo dalla doccia una notte, non si ritrova trasformato egli stesso nell’animale. Noi siamo quello che mangiamo? Certo il ragazzo non ha mangiato carne di stambecco, ma vi si è nutrito in altro modo. L’ha assimilato, digerito. E ne è stato assorbito a sua volta. Il corpo mutato in animale, mangiato e mangiabile. La metamorfosi avviene sempre prima a livello fisico.

È certo qui un cibo simbolico, più che materiale. Altrove invece simbolico e materico trovano lo stesso spazio di realizzazione. Pensiamo a Il cachi (in uscita prossimamente): il cachi è il frutto da cui si tiene lontano il protagonista del racconto, il frutto che crea nausea e repulsione. Un cibo traumatico, troppo invischiato con il suo passato. Eppure il giovane decide di testarsi, di assaggiarlo. Si sforza, certo dapprima è solo uno sforzo psichico, ma ecco che i muscoli si comprimono, riflettono quella fatica. Le sue papille gustative rispondono immediatamente. Il corpo è teso e sfiancato. Riportato all’indietro, a una dimensione non corporea ma metafisica. E qui ha luogo l’incontro con il padre, in questo aldilà dolciastro. Si parla della madre, che non comparirà. Presente nella sua assenza; e dopotutto come non pensare che il cachi, il più colloso dei frutti, non sia un leggero rimando alla placenta? Non siamo psicanalisti, tuttavia. E qui ci fermiamo.

Sebbene, in ultima analisi, notiamo che la disgregazione dell’icona, dell’archetipo (insomma, la fine del sogno), si compie a causa e proprio per il favore della disgregazione del tangibile. Una disgregazione ludica, di un bambino che si sfida. Si ritorna infine al proprio corpo, più lucidi nel riconoscerne la presenza. Un materico per vendetta della disaffezione del nostro mondo al materico.

Esiste l’evento-cibo? Felici sembra dirci: sì, ma esiste solo per essere sconfessato. Il regno del servibile viene reso inutile – come dicevamo – nel punto più alto: quando supplica di essere adoperato.

Il corpo implora il ritorno all’inorganico, diceva qualcuno, e noi aggiungiamo e sosteniamo che ciò avviene perché è sottoposto a un regime di organicità, perché è all’organico che guarda costantemente e che tradisce appena deve o appena può. Allora rinnegare il cibo o abusarne a dismisura diventa il modo per dire: nonostante tutto, un corpo deve pur esserci (o esserci stato).

Corpo del Brasilesss, nerboruto, che stacca a gran morsi una bistecca (certo, a un primo livello potremmo identificare l’uomo bellicoso con il mangiatore di carne, e il mangiatore di carne con il primitivo, il primordiale, ma saremmo, appunto, solo a un primo livello); corpo dell’anziano che si porta lentamente il cucchiaio alla bocca, sbrodolandosi. Il cibo è caratterizzante del corpo, dello stereotipo, che nasconde uno spirito contrario a sé stesso, infedele. Dunque cibo come struttura di rinvio, di rimando, che smaschera però i segni. Ne mostra il lato bugiardo e classificatorio, tassonomico.

La fame si affaccia vuota d’ogni intento, come una certa spietatezza del tutto.

Il vecchio ha l’aria di un pazzo mite e pensoso. Mi guarda stretto. Cerca qualcosa e non la trova. La fame gli rende un’aura da mendicante. Inforcare spaghetti è l’unica attività motoria che lo riporta alla gioventù: uno squalo vorace che nuota in un acquario di pesci lenti e succosi. Un diavolo senza pietà, con gli schizzi di sugo che gli decorano la fronte, le guance, la barba sporca e dura che pare di legno. Avido come un serpente. Il cibo è il suo oro e non gli rimane che quello. Così, impietosito ogni giorno alla stessa maniera, gli cedo metà del mio piatto; e alla fine patisco lo spettacolo, più che la fame.

Vogliamo tuttavia ricordare che, seppure abbiamo citato esclusivamente racconti, non sono esenti da questa nostra analisi certi saggetti transermeneutici di Felici come Krishna:

Se si ha la fortuna di conoscere una persona che ha sempre fame – che spilucca, che scrocca, che apre e chiude un qualsiasi frigorifero abbia a portata di mano, a ogni ora del giorno o della notte – allora possiamo dire di aver visto, di questo mondo, la sua gran parte. Una persona affamata è persona viva, energica; a caccia di calorie. Persona rara. E noi – appunto, se fortunati – rari per rarefatto riflesso. Sazi per simpatia. Se il giuoco metabolico è corretto, la persona viva sarà snella in proporzione a quanto ingurgita…

Persona rara, scrive Felici, e questo vale in parte anche per lui. Magari il gioco metabolico potrà presentare qualche vizio, incepparsi di tanto in tanto durante il percorso, ma non è questa una prova ulteriore, se mai servisse, della natura politica, straniante, del cibo?

Con un gesto di ripudio della piena funzionalità, il cibo ci riporta al nostro stato di conglomerati, uno stato che prevede il vincersi, il perdersi, l’ingrassare.

Federica Sabelli

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One thought on “FELICI. Per una letteratura minore

  1. Flugt è un instant classic, me lo consigliò un amico durante il mio Phd a Friburgo e, rileggendolo a distanza di anni, lo riscopro come testo seminale per molte altre scritture a venire.

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