Ricette #8: Cenone di Capodanno

Il nostro desiderio era solo quello di riunire l’intera redazione di Verde a casa di Luca Marinelli per un cenone di Capodanno “con los uevos”. D’altronde il Commissario non è più così giovane e, al di là degli approcci “giovanili” alla gestione della rivista (roba che fa “cringiare” pure la redazione di Crack Rivista), questo potrebbe essere il nostro ultimo anno con lui. Prima del trapasso.
Le cose non sono andate proprio come previsto, a cominciare dal fatto che Marinelli non si è fatto trovare in casa. Vai a sapere dove si è cacciato. Alessio “Doc” Mosca si è isolato in quel di Chieti, fresco della delusione per il “racconto più bello e più snobbato del decennio” (qui). Claudia D’Angelo ha dichiarato di non potersi presentare perché “lei festeggia sì il Capodanno, ma quello cinese”, mentre Andrea Frau ha detto che in Sardegna c’è un fuso orario “ottùsu” e a casa sua lo spumantino non si stappa fino alla notte del 2 gennaio.
Quello che segue è il triste cenone di fine 2020 di Verde Rivista, consumato con piattini e bicchieri di plastica all’interno del macinino di Pierluca D’Antuono, in sosta con quattro frecce e riscaldamento “a palla” nel parcheggio accanto alla fermata metropolitana di Anagnina.
Quattro piatti, quattro autorə. (Contiene: Federica Sabelli, Stefano Felici, Francesco Quaranta)
In sottofondo, dall’autoradio, uno sconvolto Flavio Giurato sembra pregarci di abbatterlo.

Memino sobrio di P i n k  L o d g e .

 Antipasto – Francesco Quaranta

Quando a Pierluca D’Antuono gli viene il solletico di un’idea, lui deve grattarlo subito, grattarlo a due mani proprio. Ma mica le sue di mani, eh no, gli devi prestare le tue, gliele devi offrire – più o meno metaforicamente – altrimenti se le prende lui. Insomma, se gli viene l’idea lui deve cacarla fuori seduta stante.
Come quella volta che stavamo sulla Yaris rubata alla sua ragazza («La porto dal meccanico che fa un rumorino antipatico, senti: skraa skraa skraa», aveva detto lui alla sua bella). Io ero un po’ distratto, guardavo Roma scorrere dietro il finestrino, la capitale brulicante di vita pre secondo lockdown. Mi sentivo ispirato, in vena di grandi cose, lì per lì dissi una cosa del tipo: «Dovremmo fare un cenone di natale sullo stile delle Ricette di Felici».
Quel pazzo di Pier inchiodò in mezzo alla strada, letteralmente in mezzo a un incrocio, in pieno giorno non so se mi spiego, vecchietti in bicicletta, scolaresche per strada e un traffico della Madonna, e lui inchioda! Io andai quasi a sbattere la testa contro il cruscotto, perché Pier è un complottista delle cinture di sicurezza fermamente convinto che siano state progettate da qualche strangolatore pazzo su larga scala appartenente al New World Order, e sull’auto di Elisa le ha disinstallate personalmente con il suo fido cacciavite da taschino. «Se capita un incidente è molto più sicuro afferrarsi le ginocchia e chiudersi a palletta», diceva sempre. Per la frenata, il telefono mi cadde di mano, lo schermo andò in frantumi e insomma, anche se non ne vado fiero, una bestemmiella mi sfuggì.  «Pazzesco!», strillò lui stringendo il volante in maniera morbosa. Poi aggiunse: «Quara! Ho appena avuto un’idea broom broom! Gli dèi mi hanno parlato da pari e mi hanno concesso la loro ispirazione! Il Cenone di Natale con le Ricette di Felici!»
Da quel momento, per tutto il resto del viaggio tra curve fin troppo strette e frenate al limite dell’omicidio colposo, non fece altro che incalzarmi come un ragazzino di cinque anni per convincermi a chiamare gli altri.

Crostino vegano alla Crisi Bierde

Ingredienti per otto persone:

    • Tofu, 200g
    • Concentrato di pomodoro, 20cl
    • Brodo vegetale, circa due bicchieri
    • Vino rosso Negroamaro, 3 calici
    • Una cipolla
    • Un gambo di sedano
    • Una carota
    • Sale e pepe quanto basta
    • Sfilatino di pane
    • Burro di sesamo

Vediamo un po’ sta bolla vegan che ha da offrire… Praticamente dobbiamo prendere il tofu, esatto il tofu, l’equivalente alimentare della prosa di Simone G., e lo rompiamo come se fosse un macinato. Nel frattempo, prepariamo un abbondante soffritto, mi raccomando il soffritto deve essere aggressivo per compensare il tofu, mortacci sua, è un soffritto sul quale ci dobbiamo piangere, tipo il calendario di Verde Rivista. Poi via a rosolare il tofu (possiamo leggergli qualche passo de Gli Estivi per ammorbidirlo un po’). Sfumiamo poi tutto con il vinello e facciamo ritirare, che non so cosa voglia dire ma lo scrivono tutti nelle ricette. Pierluca direbbe che è una cosa che ha inventato lui. Il passo successivo è quello di aggiungere il brodo vegetale in cui abbiamo sciolto il concentrato. Pensate questo passo come un giro di editing pesante e non richiesto.

Quella volta salirono tutti in macchina: Sabelli, D’Angelo e il suo ragazzo sul sedile dietro, Felici svaccato nel bagagliaio a giocare al Game boy accanto al Doc Mosca, e Marinelli praticamente in braccio a me.
E io l’ho pensato, mentre sfrecciavamo sulla Tiburtina con questo educatore al volante che aveva la bavetta alla bocca e gli occhi spiritati e si lasciava sfuggire una risatina sommessa da scrittore piacione, mentre faceva il pelo ai ciclisti e trovava da infilare l’auto in sacche d’aria che non sarebbero dovute esistere e in qualche modo riusciva non fondere il motore rifiutandosi comunque di ingranare una marcia superiore alla terza, ecco ho pensato: stai a vedere che vuole farci fuori tutti insieme, stai a vedere che ha trovato la scusa per chiudere questa benedetta rivista una volta per tutte. Questo farabutto, sono mesi che ci mette i bastoni tra le ruote, che si fa venire idee “geniali” e poi non le sviluppa, che ci fa leggere ed editare quei racconti di merda che arrivano in mail e poi non li legge mai! E adesso vuole chiudere tutto con il botto! Bierde necrologio!
E poi, come se mi avesse letto nel pensiero, stacca gli occhi dalla strada e mi poggia una mano sul ginocchio: «Molto peggio Quara! Molto peggio!»

Facciamo cuocere il “ragù” per una quarantina di minuti abbondanti. Intanto tagliamo delle fettine di pane e mettiamole a tostare. Guarniamo con un ricciolo di burro di sesamo e una cucchiaiata della nostra salsa. L’antipasto è pronto.

Roma è una bellissima città. Peccato che ci viva Pierluca. Lui è il mio mentore il mio caporedattore il mio faraone un incredibile case study il mio migliore amico. Ma soprattutto un gran coglione.
Inchiodò di nuovo lanciandosi in un parcheggio acrobatico, ma questa volta, per via dell’inerzia dovuta alla massa dell’intera redazione a chiappe strette, la povera Yaris non fu così reattiva e “baciò” il sedere di una Mini verdastra. Scoprii che ogni membro della redazione aveva una bestemmia preferita.
Dopo averci fatto giurare con il sangue di non dire nulla a Elisa, Pierluca pronunciò due frasi preoccupanti quanto sibilline, disse:

        • «Adesso avete tutti il Covid ehehehe coff coff I have a 29 centimeter tampon for you all!»

 

      • «Mille altri anni di Bierde! Infinite stagioni di Verde Rivista, forever! La Nuova Nuova Nuova Verdeeee! CENONE ITINERANTE DI BIERDE IN DIRETTA FACEBOOK QUARA LO VOGLIO ON LINE SUBITO!»

Entrée – Stefano Felici

Alici fritte ma non frittissime alla Stefano Trucco

Prendete delle alici dal pescivendolo e ve le fate aprire a metà. Glielo chiedete per favore, gli dite che vi trema la mano, che non siete precisi, che ci avete i vostri “cazzi”. Insomma, ci pensi lui.
A casa, un po’ di sale e un po’ d’olio. Poi sbattete tre uova e preparate del pangrattato. E lasciate tutto lì. Fermi. Perché le alici fritte ma non frittissime alla Stefano Trucco, nell’ordine, sono: una potenzialità, un dispositivo, un velo di maya, un oggetto quadrimensionale, una brana, un lacerto metafisico, un grido ineffabile, la chiave del mio cuore, un pesce narrativo, un canto natalizio, il romanzo di Giulio Mozzi, l’infanzia foggiana di Pietro Luca D’Antuono, tutto quello che un uomo può dire sull’indicibile femmineo, la risposta alla Grande Domanda, praticamente un’artificiosa connessione col Naturale Indomito; la verginità perduta, un canto di Natale è stato detto?, il primo vagito dell’Uomo, l’anello di congiunzione tra Dodò e lo pterodattilo, la fame insaziabile di MM, il veleno e l’antidoto, la sceneggiatura perduta del Fellini più oscuro, l’ora impronunciabile delle tenebre.

Sentite che sapore queste alici che sono un dispositivo, ormai, così marinate e non-fritte solo per colpa di un passaggio, un passaggio e mezzo mancante. Che buone. Che acquolina. Pure una vegana come Federica potrebbe gustarle, e invece lei mi dà i pizzichi avvitati sui fianchi e mi chiede di farle il cous cous con le carote, anche a Natale. Ma stavolta la stronza non l’avrà vinta.

Contorno – Federica Sabelli

La notte Stefano sogna il calcetto. Lo capisco perché scalcia, come i cani quando sognano di correre. E pure perché ripete la formazione della sua squadra delle elementari. Di Giacomo in porta… Felici… Felici attaccante.
Ride. Contento come il bambino che era.
Il fatto è che Stefano è ingrassato. Non lo chiamano più da due anni per giocare a calcetto. E allora si sfoga sul cibo. Più non lo chiamano, più mangia.
La mattina, al culmine della vulnerabilità, si mangia un cornetto alla crema inzuppato con tutte le dita nel cappuccino. Non vuole che nessuno lo guardi. Ci manca poco che si nasconda in bagno.
Dopodiché ci sono quei momenti di narcisismo compensatorio: si guarda allo specchio, completamente nudo, si massaggia il suo pancione. Sottovoce lo sento che esclama “A li cazziiii”. Ha anche una leggera erezione. E mi costringe a guardare. “Guarda che bell’uomo, senti che pagnotta.”
Se non lo assecondo, si mette a piangere. Se lo assecondo, dice che non faccio il suo “bene”. Ancora più tragico se mi scopre a mangiare un triangolino di cioccolata: prova a giustificarmi, dico che è un calo di zuccheri, ma lui grida che gli nascondo il cibo perché è grasso, che non lo trovo più attraente, che lo odio, lo voglio lasciare…
Ho capito che l’unica cosa che avrebbe potuto frenare questa altalena emotiva androgina pazza di Stefano era: la paura. Così gli ho prenotato le analisi del sangue. È stato un colpo basso, lo so, me ne assumo la responsabilità. Ma non potevo più vederlo così. Come era prevedibile, colesterolo alto, altissimo. Più alto di ogni frequenza acustica toccata dai pianti di Stefano.
Dieta. La condanna dall’alto.
Dieta per un cuoco significa che è meglio che non si avvicini proprio ai fornelli. Niente soffritti, niente mantecatura al burro. Per evitare tentazioni mi sono messa a cucinare io.

Insalata alla Stefano Felici a dieta

500 gr di insalata in busta
25 gr di noci
1 barattolo di fagioli cannellini
1 barattolo di mais
5 pomodori datterini
No sale, no olio. Solo un filo di salsa di soia, di quella col tappo verde ché è meno salata.

Stefano mi odia, ma non può sfogarsi sul cibo. Si sfoga invece scrivendo quelle sue ricette crudeli. SEI LA NEMICA DELLA MIA VITA, dice. E scrive dei miei presunti abusi, come un diario pazzo. Che devo fare? Niente. Non devo fare niente. Posso solo continuare a preparargli queste insalatine scondite e mangiarle con lui, sacrificarmi anche io. Dargli il buon esempio. In qualche modo sta funzionando. Ha ripreso a scrivere. E ha pure perso 3 kili.
“Ti amo Ste!”
“Stronza.”
Ma in fondo mi vuole bene, penso.
E nei suoi sogni ultimamente ha fatto anche qualche goal.

Portata principale – Pierluca D’Antuono

Cara redazione,
leggo oggi 24 dicembre 2020 la vostra – concedetemelo – freddissima email ricevuta il 16 dicembre scorso attorno a, cito testualmente, “una iniziativa finalmente redazionale” da “evadere” il giorno di natale “prossimo venturo”. Riconosco lo stile prefettizio di Claupatra dal “ghiaccio dentro” ogni singolo segno di interpunzione, scelto peraltro con perizia degna di ben altra causa. Mi sforzo di ricordare l’ultima volta che La Nuova Verde ha ritenuto di usufruire dei miei servigi editoriali e letterari, ma nulla mi torna in mente se non gli improperi con cui un anno fa mi venne mostrata la porta virtuale della rivista da me fondata quando i sei ottavi di voi erano ancora in età di obbligo scolastico in almeno due casi “inevaso”. So da fonti anonimi e solidissime che il clima “là dentro” è “serenissimo” da quando Quara se la comanda con “piglio argentino millennial”, qualsiasi cosa significhi, e sorrido ripensando a L’Alcide.

Non porto rancore né risento degli eventi passati e nutro per voi un affetto che si è cristalizzato attorno a una lettera riservatissima ricevuta dal Guru il mese scorso che non posso né ho voglia di rendere pubblica in questa sede. Rileggo l’email mentre in fila da Giufà pago le tre copie di Binari acquistate nonostante un whattsapp di supplica di Elena di Terra Rossa di aspettare le petit cadeau che Giovanni avrebbe confezionato personalmente per la mia famiglia. Non funziona così, penso innervato nel solito fascio di imbarazzo e fastidio di fronte alle premure fuori scala degli uffici stampa italiani nei confronti della bolla, abbozzo un vocale impastato di Campari ma non rispondo. Sorrido e ripenso a L’Alcide, la rivista romana più bella dai tempi di Torazine, e con alla testa un cerchio talmente perfetto da rendere Giotto un sottoprodotto merceologico coglione del neoplasticismo più commerciale a cui il gusto grafico dei copertinisti della bolla sembra essersi nostro malgrado arreso, mi decido a tirare via queste due righe che consegnerò all’attenzione di Federica Sabelli senza rileggerle né autorizzando alcun intervento di editing o correzzione dele bozze.

Nella primavera del 2005 ero più giovane del Baby Marinelli di oggi e non sapevo nulla di me, se non che mai avrei temuto l’onda nera della Chefstapo che in quei giorni andava armandosi minacciando gli ultimi libertari di sinistra sopravvissuti al congresso di Venezia di Rifondazione (noto nelle cronache parlamentari come “Il congresso della mozione dei bonghi non violenti”) di immediata fucilazione nei tinelli intonsi colmi di libri rubati a Piazza San Silvestro dei nostri patetici appartamenti privi di sedie e lampadine sulle consolari della Capitale.
L’Alcide nasceva allora in seguito a un gentelmen’s agreement tra un manipolo di individui decisi a urlare al mondo che per nulla avremmo rinunciato al nostro diritto di cucinare male e mangiare di merda.
Mi chiedo da anni se ci sia qualcosa che mi interessi meno del fare cucina. Sarà che umilmente in un oceano di stronzi squali assassini mi sono sempre definito un aspirante lettore privo di velleità autoriali, arrivo a capire il motivo per cui centinaia di migliaia di patetici cyborg impazziti arringano ogni domenica la corsa di 22 facce di merda dietro a un pallone, ma l’idea che un maschio alfa si infili un ruvido camice bianco tagliato male per officiare un’inquietante cerimonia edipica “all’armi bianche” sull’altare degli elementi naturali sacrificati alla violenta lobby non fluida dei designer mondiali, be’ amiche care e gentili amici, semplicemente “non ci arrivo”.

Nell’appartamento che Elisa e io abbiamo appena acquistato a Grottaferrata (già li sento i soliti noti stronzetti della litweb ridacchiare sulla scelta urbana fatta in base al semplice assioma che noi non gentrifichiamo i quartieri neofighetti della patetica movida romana e finché “la Capitale” non avrà un governo illuminato alla portoghese, noi “la Capitale” la rimbalzeremo), 70 dignitosissimi metri quadri sopra al Cinema Fellini in pieno centro paese, abbiamo ricavato 20 m2 di librerie costruite su misura là dove un Felici come un altro avrebbe impiantato una tristissima componibile Mondo convenienza non firmata ma “dai prezzi imbattili”.
Durante il trasloco ho riscoperto le mie quattordici copie de L’Étranger e le diciassette di Woobinda. Edizioni diverse acquistate o rubate in giro per lo stivale negli ultimi venticinque anni, sono i titoli più importanti della mia educazione letteraria e sentimentale e quelli che più mi hanno insegnato in vita: il primo a leggere e a voler leggere, il secondo a copiare e a rubare male dagli altri.

Cara redazione, da quei giorni de L’Alcide sono passati anni lunghi come epoche geologiche e attorno a noi è cambiato tutto meno che noi stesse. Io perseguo a ritenere coglione il desiderio di cucinare in casa quando là fuori il mondo, che sempre meno conosciamo, è pieno di trattorie e ristoranti dove Signori come me la vita hanno deciso di non subirla ma di agirla. Se un giorno desidererete incontrarmi ancora, mi troverete là.
Eppure in questa inutile notte di vigilia, mentre preparo l’Encrypted mess che sapete,
trovo il tempo per dropparvi la mia ricetta natalizia per il nostro cenone verde di famiglia:

Tempeh Aldo Nove saltata alla Heineken

      • 1 confezione di Tempeh
      • 6 Heineken da 66 cl

    Se avete voglia e trovate che abbia senso, azionate la vostra piastra a induzione sui 2000 watt. Procuratevi una padella. Buttate i tempeh nella padella. Saltate il tutto con schiuma abbondante di Heineken calda.
    Se trovate che nulla in questo momento abbia senso, chiamate la Pizzeria Frumento.
    06 780 0150 consegne fino a 3,5 km da Via Alfredo Baccarini 31/A. Aperto fino alle ore 23.

    (…) Landini, per cortesia, dì una cosa di sinistra! Quando ti deciderai a difendere il nostro sacrosanto diritto di cucinare male e mangiare di merda senza il timore che la Chefstapo ci fucili nelle nostre cucine? Anche perché nella nostre non ci sono sedie e la lampada è fulminata e se ci è ancora consentito preferiremmo non sostituirla, grazie! (…)
    Dall’editoriale de L’Alcide 0, aprile 2005.

La Redazione

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...