
La guerra è finita
Andreea Simionel è nata nel 1996 in Romania. Dal 2007 vive a Torino. Suoi racconti sono apparsi su Tuffi, Narrandom, Effe, Altri Animali, Il Foglio, Clean, inutile, Nazione Indiana. Con Le esistenze esordisce dritta dritta nella Gioventù Etrusca, il modello sincretico della Nuova Verde in cui convergono le scenicchie già inconciliabili, confederate nella grande dodecapoli della Litweb: non un genere, né una tendenza, ma una dimensione di autrici e autori lazialə, toscanə, umbrə, campanə, dal gusto ellenico. Etruschə.
La guerra è finita, leggete in pace.
Sono una scrittrice, ma ho smesso di scrivere. Ho anche smesso di fumare. E comunque, non mi è mai piaciuto, e non penso di aver mai imparato. A fumare, dico. E non penso di aver mai sentito il gusto di una sigaretta. Ma tutti gli altri scrittori fumavano, allora anch’io: prima le sigarette normali, anche se non ero sicura di saperle fumare, e non riuscivo a liberarmi dell’ossessione che ci fosse qualcuno nella stanza a guardarmi ogni volta che soffiavo, come se soffiassi troppo, e ogni volta che inspiravo, come se inspirassi troppo; poi le sigarette rollate, ma non le sapevo rollare. Tant’è che un giorno, mentre mi sforzavo di scrivere e inspirare e soffiare con la sigaretta tra indice e medio, ho sentito qualcuno nella stanza ridere e indicare la mia sigaretta e dire: sembra un cannone.
E comunque, finalmente me ne sono andata. Prima di andar via, ho raccolto la carta e le penne, il portacenere e le sigarette sulla scrivania. Addio, ho detto, e ho messo tutto nel sacco nero. Anche la scrivania, ce l’avrei messa. Dove pensi di andare?, ha detto qualcuno nella stanza. Non puoi andartene, non potresti farlo neanche se lo volessi, il tuo posto è qui. Ho raccolto i libri e i giornali, i riconoscimenti e le foto. Ho messo tutto nel sacco nero. Anche la stanza, ce l’avrei messa. Resta, ha detto qualcuno, non lo sai che il tuo posto è qui? Ti amo, non lo sai che ti amo? Addio, ho detto, e ho chiuso la porta. Ho preso il sacco e l’ho buttato nel Po. L’ho guardato scivolar via nell’acqua finché ho potuto.
Per festeggiare che non scrivo più, e che non fumo più, mi sono rapata i capelli. Così, tanto per. Ai proprietari della fattoria non ho dato il mio nome. Paolo, ho detto, mi chiamo Paolo. A loro va bene Paolo. Da allora provo gusto a parlare di me al maschile. Così, tanto per. E uso verbi e vocaboli che finiscono con la o: sono andato, me stesso. E faccio sempre attenzione a usare parole per così dire benigne, che non vogliono nulla da me e mi lasciano in pace, e sto invece alla larga da quelle maligne, che vogliono da me una desinenza e un’identità.
In questo posto in cui sono andato/a, non c’è una scrivania, e non ci sono carta e penna. Bene, meglio. Invece ci sono cinque cavalli. Uno è marrone e uno è bianco e uno è caramello e uno è nero e uno non ha colore. E comunque, sono tutti stupidi. Vanno a sbattere contro i muri, o contro il recinto elettrificato che divide lo spazio dei cavalli dall’orto con le verdure, e certe notti si liberano dalle loro stalle grigie e al buio vanno a sbattere uno contro l’altro.
La prima volta che ho visto i cavalli, non so perché, mi sono precipitato/a contro il recinto. Che cosa fai?, hanno urlato i proprietari della fattoria, che cosa cazzo pensi di fare? Come ti viene in mente di fare una cosa del genere?, mi hanno chiesto poi, quando mi hanno raccolto e riportato indietro. Non devi mai avvicinarti a un cavallo, se non sai niente di un cavallo, e soprattutto non lo devi fare da davanti o da dietro. Davanti si imbizzarrisce e si impenna e ti salta sul petto, dietro ti arriva un calcio. Ti devi avvicinare di lato, hanno detto. Da quel momento cerco sempre di avvicinarmi prendendo la traiettoria del centro, ovvero della pancia, e la pancia dei cavalli mi sembra una cosa mostruosa, solcata da gigantesche vene e come dire tonda, e tesa, e piena, e tutto l’intero cavallo, a dire il vero, mi sembra una cosa mostruosa, da cui vorrei stare alla larga il più possibile tutto il giorno, e con cui sono costretto a stare il più possibile tutto il giorno.
Al mattino raccolgo la merda. Odio raccogliere la merda. Questa cosa di raccogliere la merda è la più odiosa in assoluto, più odiosa che scrivere o fumare. Ce l’ho ovunque, ormai, mischiata a fango e terra secca sotto le suole, infilata in strisce di nero sotto le unghie, impressa nell’odore dei vestiti. La raccolgo con la pala e la porto dentro la fossa del compost. I proprietari della fattoria credono molto in questa cosa del compost. Difatti molto spesso, la mattina presto, dietro il grande cancello in ferro, c’è una piccola folla che fa la fila e mi chiede del compost da comprare. E mentre aspettano mi lanciano occhiate. Il compost per la vendita è in fondo, oltre la merda fresca dei giorni prima. Mentre si scava bisogna fare attenzione a non uccidere con il lato affilato della pala dei grandi mostri che sbucano all’improvviso, e hanno una sorta di chiocciola e un corpo roseo da larva che si dibatte. Mostri, dico, mi fate schifo. E più di una volta, vedendoli affiorare di sorpresa dal compost, non ho resistito alla tentazione di farne fuori uno o due. Così, tanto per. Ma un giorno sono stato/a colto sul fatto dal proprietario della fattoria, che ha fermato la mia pala e ha detto: noi dobbiamo ringraziare i mostri. I mostri producono, i mostri ci tengono in vita, i mostri ci salvano. Da allora ne metto qualcuno nel sacco destinato alla vendita e lo consegno ai clienti dietro il cancello. Ecco i vostri mostri, dico, mostri che non siete altro. Loro sorridono e pagano, non capiscono la mia lingua, allora non c’è gusto, e ho smesso.
Al pomeriggio pulisco gli zoccoli dei cavalli, a uno a uno. Odio pulire gli zoccoli. Questa cosa di pulire gli zoccoli è la più odiosa in assoluto, più odiosa che raccogliere la merda. Devo avvicinarmi di lato e chiedere la zampa bussando due volte sul fianco e tenerla in equilibrio leggermente piegata sulla mia coscia ed eseguire l’operazione nel più breve tempo possibile, prima che si spazientiscano e comincino a menare le zampe in tutte le direzioni per liberarsi. State ferme, puttane, dico, e loro scalciano. All’inizio avevo paura dei calci, e il proprietario e la moglie del proprietario non la smettevano di dire che la cosa peggiore che si può fare è avere paura dei calci, che i cavalli lo sentono. Alla fine, ho smesso.
Tra il mattino, quando raccolgo la merda, e il pomeriggio, quando pulisco gli zoccoli, rollo le sigarette. Rollo sigarette affilatissime. Però non le fumo. Le metto una accanto all’altra in fila ordinata. Un giorno il proprietario mi ha sorpreso mentre lo facevo, e io mi sono precipitato a prendere la spazzola e lo zoccolo del primo cavallo che c’era. Lui però ha detto: lascia andare. Ho pensato che mi avrebbe di nuovo offerto di cavalcare, e che questa volta, per punirmi, mi avrebbe costretto. Invece ha chiesto se poteva fumare una delle mie sigarette rollate. Ci siamo seduti sulla panchina. Mentre fumavamo non mi sono pentito/a di fumarla, siccome sapevo che non avrebbe giudicato il modo in cui inspiravo o soffiavo. Infatti, siamo stati in silenzio a guardare la strada distante oltre il cancello. A un certo punto ha detto: io so chi sei, tu sei quella tale scrittrice. Per la prima volta mi ha parlato non dall’alto, come aveva sempre fatto, per rimproverarmi e darmi ordini e ricordarmi che non sapevo nulla della terra e delle piante e dei cavalli e dei mostri del compost e dello sterco, ma dal basso, con il timore che incute chi sta più in alto nelle cose della vita. E per un attimo ho avuto paura del suo tono di deferenza. Infatti, gli ho detto: no, ti sbagli. Io sono Paolo. Ha schiacciato il mozzicone sotto la punta dello stivale. Ha guardato in là, strizzando gli occhi sotto il cappello, e ha detto Paolo, e ne assaporava la consistenza. Se ne è andato con le mani sui fianchi, cantando Paolo Paolo Paolo.
Quando finisco di spalare la merda e pulire gli zoccoli guardo la moglie del proprietario che cavalca. È questa la cosa peggiore, peggio ancora che raccogliere la merda o pulire gli zoccoli, perché sogno. La moglie del proprietario della fattoria è brutta, e sembra ridotta per via degli anni, e ha una lunga treccia nera che le ondeggia tra le spalle, e zoppica. Ma quando sale sul cavallo, con la sua treccia nera e i suoi pantaloni attillati impolverati neri e gli stivali neri, diventa bella. E ogni volta che la guardo cavalcare sogno di esserci io, in groppa al cavallo marrone, che è il peggiore o il più cattivo o il capo o l’alfa degli altri quattro ed è anche il cavallo preferito della moglie del proprietario, e sogno di indossare dei pantaloni attillati impolverati neri, come quelli della moglie del proprietario, e gli stivali alti fino al ginocchio, e un cappello di paglia, e sogno di avere una capigliatura bionda da leone che mi svolazza intorno, e tutto sommato sembro un’amazzone. E sogno, mentre cavalco, di saltellare su e giù sulla groppa del cavallo, e che i ruoli siano invertiti, e dietro il recinto ci sia la moglie del proprietario che mi guarda e pensa: con quanta grazia ed eleganza saltella sulla groppa del cavallo. E questa cosa delle esistenze possibili è la cosa peggiore di tutte. Tant’è che un giorno il proprietario della fattoria mi ha chiesto: vuoi cavalcare? Ma io non sapevo se avrei saputo cavalcare, e come avrei fatto a salire sopra queste cose mostruose, con la mia testa che arriva a metà dell’altezza della loro pancia, e le mie gambe che sono un terzo delle loro. E comunque sono sicuro/a che odierei cavalcare, più che raccogliere la merda e pulire gli zoccoli e guardare la moglie del proprietario che cavalca. Allora ho detto no, no grazie. Poi però mi sono pentito/a, e ho smesso di sognare.
E mi sembra, ogni giorno che passa, di imparare a smettere. E le cose che faccio ogni momento sono orrende, e prima o poi dovrò smettere di fare ogni cosa, perché le esistenze si accavallano. E magari proprio mentre spalo la merda, o mentre ho uno zoccolo da pulire in mano, o mentre guardo la moglie del proprietario che cavalca, mi viene da grattarmi sotto il berretto, in mezzo alla testa, dove prima avevo i capelli, ma non posso, perché i miei capelli non ci sono più, sono amputati e non sono reali, mentre le mie mani sono occupate da cose reali, come lo zoccolo del cavallo o la pala piena di sterco. Allora penso: che cosa buffa questa, che prima i miei capelli e le mie carte e le mie penne e la mia scrivania c’erano e ora non ci sono più, mentre prima i cavalli non c’erano e ora ci sono, e tutto mi sembra un gioco di realtà passate possibili e future che si accavallano. Allora alzo la testa e c’è qualcuno che mi guarda e sorride e fuma la sua sigaretta e questo non è il posto per te, mi dice, torna. Allora gli chiedo: che cazzo vuoi?, chi cazzo sei?, vattene. E spalanco le braccia, e gli mostro la terra intorno, i pomodori e le galline, e gli dico che basto a me stesso/a e che sono orgoglioso/a di esistere. Ma basta un soffio di vento che scuote l’aria, e le esistenze sfumano.
Finché un giorno, avevo appena finito di spalare la merda e di pulire gli zoccoli e di guardare la moglie del proprietario cavalcare e stavo per andare a chiudermi nella mia stanza a pensare alle esistenze, quando è successa la cosa peggiore di tutte. La moglie del proprietario è scesa dal cavallo bianco e mi è venuta incontro. Anche lei, come la folla dietro il cancello al mattino, e come il proprietario, si portava addosso quel sorriso buffo, io so chi tu sei. E ha srotolato il tubo per innaffiare le piante, e mi ha trascinato/a per mano dal cavallo bianco, legato in un cantuccio tra due pareti. Oggi lavi questo, ha detto, indicando la sua peluria che non era più bianca, però mettiti così, di lato, e l’acqua non troppo fredda, se no gli fai male, e non troppo calda, se no gli fai male, e non toccargli i fianchi, se no gli fai male, ché lo picchiavano da piccolo sui fianchi, quei bastardi, e lo marchiavano col fuoco, e il getto non troppo forte, se no si sente attaccato, e non troppo debole, se no gli fai il solletico, e soprattutto, mai mai mai puntargli il getto contro. Punta in alto, e quel che arriva arriva come pioggia. E fischietta, ha detto porgendomi il tubo, fischietta così si sente a casa. Ho fischiettato, girandogli intorno, e qualche volta il suo fiato mi solleticava il collo. Ho puntato il getto in alto, e l’acqua è scesa dal cielo come pioggia sulla peluria sporca del cavallo bianco. E questa cosa di lavare il cavallo bianco mi ha dato fastidio più di tutte le altre cose, più che pulire gli zoccoli e raccogliere la merda e guardare la moglie del proprietario che cavalca e scrivere e fumare, ché l’acqua è una cosa che o c’è o non c’è, e mi è sembrato che l’esistenza dell’acqua scendesse a imbrattare anche i miei vestiti, che conservavano solo un vago ricordo dell’odore della merda, e qualche goccia è arrivata a bagnare anche le parole, e la carta e le penne, e il mozzicone di sigaretta nel portacenere sulla scrivania.
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