Cover #1: Mirakuru Garuzu

IMG_0269

Claupatra, Gattini buffi con sfondo verde (2020)

Mentre voi leggevate Spillover e fotografate su Book Advisor i vostri bravi libri estivi a gambe più o meno scoperte (finché Marco Latini non vi bannava per manifesta imbecillità, vostra o la sua poco importa), noi andavamo al cinema a guardare Ema (l’anti boooring Tenet fatto da uomini per soli uomini) e come tante altre volte cambiavamo un po’ per sempre. Il reggaeton è una prigione nella prigione o è ballare arrapate la vita? Nel dubbio agosto chiudeva e come ogni anno, qua in redazione, ci dividevamo in 2 kinds of people: chi dannazione è finita un’altra volta addio Riccione le bare di Bergamo e chi festeggiava il capodanno più laico di senso che c’è, cioè il primo settembre, un tempo peraltro celebrato con post attesissimi ad hoc (qua, qua, qua, qua), ma poi when routine bites hard and ambitions are low and resentment rides high but emotions won’t grow and we’re changing our ways taking different roads: perché il blog è così freddo? Perché come si diceva già qua, aggiornare questo inutile fardello è la parte meno divertente di fare Verde (la più divertente è Vomito, ma ci serve il vostro aiuto). “L’obiettivo è di tornare a stampare, prima o poi”: nel 2019 abbiamo fatto le prove con Nuova Edizione e non, adesso siamo pronte a fare sul serio (ci torniamo).
La palestra, le vetrine, gli scioperi, lo scouting, il dojo: sembra tutto così lontano nel tempo, eppure sta ancora succedendo. A questo inutile fardello, impossibile negarlo, ci siamo affezionate e così speriamo di voi; continueremo ad aggiornarlo tre volte a settimana con rubriche più o meno espresse che vi faranno torcere i pazzeschi più genuini delle vostre scialbe spensieratezze.
Cover, a esempio, riscrive alcune delle storie che hanno fatto la storia di Verde. In principio era Michael Scofield, già tradotto nella nostra L2 e adesso rigenerato da Claupatra D’Angelo, aka Gé-ni-ùs, aka colei che si fece carne e venne a vivere in mezzo alla redazione, la luce vera piena di grazia e di verità, aka la sorella gemella dell’artista collagista in residenza de La Nuova Verde.
Ciao, a mercoledì, guardate Ema intanto e dopo Mirakuru Garuzu leggete Maini, se come tante altre volte volete cambiare un po’ per sempre.

Non sento quella stronza di Teresa da sette anni.
Sette anni passati a evitarla. Ho cambiato città e poi paese per tentare di sfuggire alla sua presenza, così ingombrante da travalicare i confini perché anche qui a Londra non è stato facile starle lontana. Nel mio quartiere si è già meritata l’affetto di chiunque, a partire da Kervar, che da fidanzato ad amico adesso mi è diventato quasi sconosciuto.
Sette anni e in poco tempo già sento le conseguenze della sua ricomparsa su qualsiasi cosa mi riguardi. Pjotr mi chiama dicendo:
«Your credit card is empty».
Pjotr parla l’inglese peggio di me. All’inizio ci mettevo una vita a capirlo, forse l’impegno che ci mettevo nello sforzo di comprenderlo era già un sintomo dell’amore che provavo.
Non mi fingo nemmeno stupita: «I know, I’m sorry».
«What… ehm…» È sicuramente deluso ma non vuole dirmelo. «That’s ok, it’s your money».
«No, I should have tell you».
Non mi dice che non ha comprato niente di tutta la lista di cose che aveva stilato per la cena del suo trentesimo compleanno, cerca di guadagnare e farmi guadagnare buon umore dicendo:
«You know what? I rather prefer a kebab».

Mi racconta la storia della carta di credito sghignazzando ogni tanto, e in mezzo a quelle risate trattenute ho paura di scorgerci qualche singhiozzo. Me lo immagino riempire il carrello fino ai bordi e poi vederlo svuotarsi e trasformarsi nello scheletro di un edificio mai finito, un mostro ecologico abusivo tra i turisti increduli e infastiditi alla vista di quella miseria. Come si sarà sentito con gli occhi dei clienti e dei commessi addosso?

Nel rincasare nota la valigia in corridoio già sigillata. È un po’ spaesato per questa mia eccessiva diligenza.
«Are you leaving tonight?»
«Tomorrow morning».
«A kak ty?» mi chiede in russo.
Non so proprio cosa rispondere. So solo che devo ancora fare un regalo al figlio di Teresa.

Ho ricevuto il messaggio di Teresa tre settimane fa, mentre ero a lavoro. Nell’anteprima della chat riuscivo a leggere soltanto: Ciao Margherita, come stai? Il secondo messaggio diceva: A tal proposito volevo invitarti… Il terzo: Ti lascio il mio numero.

Non ho aperto la chat. Controllavo il cellulare tra un’ordinazione e l’altra per sapere quanti minuti di distanza mi separavano dai suoi messaggi, finché i minuti non sono diventati un’ora e poi un’ora e mezza e poi sono stati coperti dai messaggi di Pjotr che mi inviava ricette pazzesche per il suo compleanno.

«Vuo’ fatica’ o no?» mi aveva ripreso Sasa’ a un certo punto, non tanto per accusarmi, ma per tenermi in guardia: se lo notava lui che ero distratta figurarsi i capi. Ho spento il cellulare per non avere grane e distrazioni. Quasi 2000 km di distanza e Teresa mi faceva male come se fossimo una di fronte all’altra. Perché cazzo mi aveva scritto?

Ho aspettato di tornare a casa perché Pjotr leggesse il messaggio al posto mio, non avrebbe capito molto e mi avrebbe aiutata sentire la pronuncia inesatta, il tono divertente delle parole asettiche di mia sorella.

«What does it mean?»
Che è una stronza.
«Come on!»

Ha avuto un figlio, mi invita al suo primo compleanno.
Pjotr ha sorriso, era sinceramente felice per me, finally le due gemelle riunite, ha fatto lei the first step, adesso tocca a te fare il secondo.

Pjotr non conosce mia sorella, quando ci siamo incontrati io mi stavo disintossicando da lei, Teresa non era mai stata nemmeno nominata, come se non fosse mai esistita, non avevamo condiviso il liquido amniotico. Mi ci sono voluti due anni per rivelargli questo segreto, non una confessione ma un pensiero distratto, detto per puro caso.
Aveva scovato il mio bracciale di resina a forma di fiore, coi petali scheggiati. Si era stupito della leggerezza di quel gioiello apparentemente pesantissimo; visti i petali, aveva detto:
«Such a pity!»
«Yeah, my sister broke it».
«Your what?!»

Anche io avevo rotto il suo bracciale, gli avevo anzi fatto fare una fine ben peggiore: una caduta da sette piani di altezza: irrecuperabile. Lei allora aveva scaraventato il mio per terra, sul pavimento, una distanza direttamente proporzionale a quello che provava per me: la lunghezza di una gamba – e la sua è pure corta.

Io e Pjotr siamo dei fan dei programmi tv sulla sicurezza negli aeroporti. Sappiamo quali espressioni facciali generano sospetti, quali posizioni del corpo mandano in allerta i poliziotti. Li abbiamo studiati bene, e quando siamo andati in Russia dai suoi ci siamo esercitati un po’ con gli sguardi di intesa mentre eravamo fermi in fila, ma poi ci era venuto da ridere e abbiamo annullato la missione.


Adoriamo gli aeroporti, sono delle piccole città a statuto speciale, delle false anteprime di quello che ci aspetta fuori. Il fatto che ci siano tanti gemelli di un luogo in tutto il pianeta ci confonde ma allo stesso tempo ci conforta. È così con tutti i nonluoghi: i cinema multisala, i centri commerciali, la redazione di Cadillac. Ce li immaginiamo come tanti luoghi paralleli in cui le nostre vite prendono direzioni diverse: c’è un centro commerciale in cui noi possiamo permetterci di comprare da Tod’s anziché da Primark; c’è un aeroporto in cui prendiamo un biglietto prima classe per le Maldive, un altro in cui, zaini in spalla, ci fermiamo a dormire sulle sedie di ferro per poter prendere il primo aereo del mattino, il volo più economico per l’India e iniziare il nostro viaggio a piedi attraverso l’Oriente.

Mi concedo, come sempre quando sono in aeroporto, il privilegio di starmene seduta a un bar per ordinare una colazione cornetto + cappuccino a soli 8,89 sterline. Li prendo e nel portafogli noto la mappata di euro che mi serviranno per comprare il regalo al figlio di Teresa. Mi siedo in un punto strategico, lontana dal bancone, con le spalle coperte dalla vetrina di un negozio di gioielli e lo sguardo sulle partenze.

Chissà che aspetto avrà Teresa, sarà invecchiata in modo diverso da me? Durante il primo anno senza di lei avevo preso a fotografarmi il viso tutte le mattine per vedere se cambiava, se la lontananza aveva avuto degli effetti sui miei connotati, se mi aveva resa finalmente un’altra e non la stessa. Non averla davanti agli occhi mi era d’aiuto, anche se il mio naso, la mia bocca, le curve degli zigomi, persino le gambe non potevano non rievocarmi lei: il mio aspetto era un ricordo mobile che mi portavo dietro e vedevo riflesso sui finestrini delle auto, sulle vetrine dei negozi, negli specchi dei bagni, una persecuzione: mi era impossibile volermi bene. La stesse cose che da piccola mi confortavano, cioè poterla vedere su qualsiasi superficie riflettente quando eravamo separate, dopo la nostra rottura sono diventate motivo di pena. Giocavamo a teletrasportarci nel momento del bisogno guardandoci in uno specchio. Parlavamo nella mente convinte che l’altra potesse ascoltarci, ricordavamo la voce dell’altra e la ripetevamo nella nostra testa: avevamo sempre la risposta pronta.

Adesso non riesco a capire il motivo per cui vuole vedermi, se me lo domando sento la sua voce dirmi che è perché mi vuole bene, ma non è così. Che bisogno c’era di invitarmi alla festa di compleanno di uno sconosciuto? Non so niente di suo figlio, eppure probabilmente ha i miei stessi occhi. A Roma c’è un bambino che porta parte del mio DNA, che probabilmente acquisirà il mio stesso modo di fermarmi a riflettere – che è uguale alla madre, con l’indice sulla tempia – e io non so assolutamente niente di lui. Che regalo potrei mai comprargli? Mi ha sfidata, è chiaro che mi ha sfidata con quest’invito: non andare è un’ammissione di sconfitta. Sa che non ho il coraggio di vederla, che non sono pronta, come lei, a fare la pace. Se però mi succedesse qualcosa, se mi sentissi male, se il mio comportamento venisse interpretato come sospetto e, che so, venissi arrestata per qualcosa che non farò?

Le porte dei gate si aprono e risucchiano i passeggeri. In un altro aeroporto partono per altre mete, più o meno desiderate. La mia recita è costata, oltre al ritardo di un’ora e mezza del mio aereo, il ritardo di altri tre aerei. Mi hanno chiesto anche scusa, si sono sbagliati, hanno male interpretato. Io speravo di svignarmela ed essere in uno degli aeroporti paralleli in cui resto a Londra, invece parto, partiamo. Teresa mi starà aspettando? Le scrivo:

Ciao Terry, sono Maggie. Non potendo utilizzare il teletrasporto come ai vecchi tempi, arriverò con un ritardo previsto di quasi due ore.

Claupatra D’Angelo

Pubblicità

One thought on “Cover #1: Mirakuru Garuzu

  1. Pingback: Una settimana di racconti #135 #136 | ItaliansBookitBetter

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...