Morse: L’invenzione del dolore – Scena undicesima

Tutto è bene ciò che finisce bene? — inserire qui l’immagine dei volontari che puliscono la statua di Indrə Montanellə — Cosa è il bene, alla fin fine? È forse la felicità di tutti, reale, sperata o illusoria? Oppure è la cessazione totale della sua ricerca? Questo sembra chiederci Andrea Frau con l’ultimo episodio di Morse: l’invenzione del dolore.

Che Andrea, unico montanelliano di ferro della redazione Verde, abbia davvero dedicato la figura dell’Occupante, la misteriosa entità che prende il controllo delle creature mortali e ne consuma la linfa vitale, al noto personaggio milanese (sul fatto che fosse noto e che fosse milanese non ci sentiamo di obiettare) e alle sue eh eh eh abitudini, così come sostiene Claudita D’Angel?

Ma bando alla ciance, siamo qui per scoprire come va a finire la saga (completa) più lunga mai pubblicata sulle pagine virtuali di Verde. Qualcosa di mai tentato dalla redazione e che ci ha fatto compagnia fin dal bel mezzo del lockdown a oggi. Potremmo vantarci del folto seguito di lettori, potremmo fare i complimenti a Frau per come ha adattato di settimana in settimana gli episodi per la pubblicazione (settantasette giorni di lavoro ué), potremmo farci prendere la mano e promettere a breve altri romanzi a puntate su Verde! E invece per ora ci accontentiamo di dire che siamo molto orgogliosə di aver dato spazio a questo testo e siamo contentə che vi sia piaciuto. Adesso è vostro. Un inchino virtuale da parte di tuttə lə personaggə.

Solo per oggi, tre illustrazioni al prezzo di una – il super Morse tag team: Sergio Caruso,Marco Cabras e Claudia D’Angelo

E ora andiamo a vedere che è successo a Damiano dopo il rito e il sacrificio di Giuditta Portari…

 

Quando il dolore è il tuo, non senti altro: è il dolore di tutto il mondo. Esiste solo la tua sofferenza, il resto non è contemplato. Ma cosa succederebbe se avvenisse il contrario? Se il dolore del mondo fosse il tuo, se percepissi i tormenti di uno sconosciuto come se fossero tuoi, se si annullassero i confini dei corpi e delle menti? Essere indifferenti alle proprie afflizioni significa innalzarsi a una condizione sovrumana, significa diventare invincibili, inattaccabili. Forse così si potrebbe sconfiggere l’agonia degli esseri umani. Oppure il dolore che proviamo ha un senso e va preservato?

***

L’entità è dentro Damiano e i due finalmente sono un tutt’uno.
«Sai qual era il mio incubo? Ritrovarmi solo, con tutto il tempo del mondo per scrivere, senza più scuse, scavare dentro di me, estrarmi il cervello dal naso con degli uncini di metallo e non trovare nulla. Una volta trovata la pace non rimane nulla da scrivere. Sono i nostri tormenti che ci spingono a scrivere, che ci inchiodano alle nostre miserie. Noi siamo solo amanuensi, burocrati che censiscono quel nulla, lo imbellettiamo un po’ certo, ma sempre di nulla si tratta. Siamo gli sciacalli di noi stessi, onanisti antropofagi, lucriamo sulle nostre tribolazioni oppure semplicemente cerchiamo di trarne qualcosa di costruttivo, consapevoli che non ci abbandoneranno mai. Lambire il tormento, accarezzarlo, sfiorarlo con terrore frammisto a desiderio, tendere a esso, è il nostro modo di essere pienamente umani. Questo pensavo prima di ritrovarti e riunirmi a te. Ora mi rendo conto che tutto ciò è futile e mortale. Un passaggio obbligato, un obolo da pagare, che presto dimenticheremo».

***

«Quando il supplizio giungerà io non me ne andrò. Mi dispiace per quello che patirai a causa mia, ma vedrai che ne varrà la pena».
«Ho paura; cosa succederà dopo la sofferenza? Non potrà esser infinita, vero?»
«Non ho mai avuto il coraggio di resistere, non ho mai avuto la forza necessaria per vedere cosa ci fosse al di là del dolore. Per questo motivo cambiavo costantemente corpo. Ma ora sarà diverso. Ora non sarò solo. Con te condividerò il tormento e il mistero che c’è oltre la soglia».
«Tu non sai una cosa di me, anche io ho un segreto. Quando morì mia madre io non provai niente, piansi perché spaventato da quella sensazione di libertà. Ma ora ho compreso che senza il corpo è impossibile mentire».
L’Occupante, per la prima volta, prova stupore. Damiano percepisce secoli di solitudine e vagabondaggio. Ora, grazie a lui, l’entità ha trovato una casa e potrà finalmente riposare.
«Riuscirò a protrarre la sensazione di gioia di quando nascesti per sempre. Il senso di colpa è svanito».
«Abbiamo ucciso insieme?»
«Li abbiamo liberati, figlio mio. Presto libereremo tutti».
«Riproverò quella sensazione potentissima che provai da ragazzino con il libro di Portari? Quella che credetti essere una sindrome di Stendhal?»
«Sì. E avrai tempo di conoscere il tuo libro e molto altro, fidati di me. In panico è l’uomo senza un piano, no?»
«Avrò nostalgia del dolore?»
«Non si può avere nostalgia quando si ritorna a casa».
«Basta che ci sia un divano in similpelle».
«Ci sarà tutto quello che desideri e che ancora non conosci. Non temere, la paura finirà con l’uomo».
L’entità, in quell’istante, grazie a Damiano, si impadronisce dell’umanità intera. Sente le  paure di tutti, le loro gioie; la loro miseria è desolante, le loro frustrazioni e rabbie potenti, sono obnubilati dal rancore, dal ricordo dei loro cari, dai loro lutti, le scarse gioie nelle loro vite sono oasi di verde sintetico con poca acqua che non ristora, pozzanghere che non riflettono. Damiano si percepisce volteggiare, a ogni sua giravolta avviene una nascita e una morte, un orgasmo, un pianto di felicità, stupore e meraviglia, la gratitudine degli esseri umani dopo un gesto disinteressato, la delusione dopo un tradimento, il senso di colpa, il suicidio, il coraggio. Vede un ragazzo all’ospedale fissare lo specchio e dirsi: ci sarà tempo per piangere e per disperarsi, ora si combatte! Ma come può esserci disperazione se non c’è speranza?
Damiano chiude gli occhi e versa una lacrima, unica e pesante. Tutti gli esseri umani partecipano al suo dolore. Un’iguana ai suoi piedi si disseta con quella lacrima che gli sembra un lago. Si tuffa in quel liquido amniotico fangoso e si prepara a una rinascita.
Damiano è nel corpo dell’iguana. Di fronte a lui c’è Damiano Franzosi, lo scrittore. Il rettile, preso da un’insopprimibile voracità gli si avventa sul collo e lo morde, il sapore del sangue lo inebria e lo esalta.
Damiano caccia e sente il gusto della preda; Damiano è nella morsa, ha paura, sente dolore. Quando cesserà di essere in balia degli istinti e delle passioni? Quando cesserà d’esser preda delle sue voglie, della sua violenza? Quando cesserà di arrecare dolore agli altri? Più affonda i suoi denti su di sé, più sente che tutto scompare: la violenza, il senso di colpa, la paura, quello che chiama amore. È il suo liberatore, il suo maestro. Inizia a sentire un brusio, un rumore di fondo, i pensieri dell’umanità, chi rimugina, rimpiange e maledice. Sente il silenzio e la breve pace dopo l’orgasmo. Si potrà avere per sempre quella condizione? Riuscirà a bloccare e isolare quella estrema sensazione di quiete? Per ora solo brusii, interminabili, chiassosi che si accavallano come in una fossa comune, in una guernica di paure e felicità voraci, chiassose, un’orgia di emozioni, un marasma di carni, confuse, il chiasso degli uomini.
Due vecchi vestiti uguali di grisaglia chiara, prendono pugni di sabbia rovente da terra, aprono i palmi, come a offrirla per gioco in pasto a un vento così impetuoso che toglierebbe il respiro a chiunque, ma la sabbia rimane ben aderente alle loro mani. I vecchi versano la sabbia in entrambe le sfere di vetro di due clessidre.
Un bambino con la faccia dipinta di nero sta infilzando un baccello di vaniglia nel suo amo, si gira e chiede ai due anziani cosa stiano facendo. La coppia risponde all’unisono: «Stiamo distruggendo il tempo».
Detto ciò fanno cadere le clessidre che si infrangono, la sabbia vola via, verso il mare. Il bimbo pesca una testa di manichino e la poggia in una cesta: «Ultimamente non pesco altro», si lamenta, ma per gioco.
Alle sue spalle, tra le dune, crolla un domino di manichini, a ogni caduta, un uomo è liberato e ascende.
Tante minuscole versioni di Damiano assaltano la grande testa, mettono a ferro e fuoco l’oasi artificiale. Il cucchiaio di legno cade nel secchio blu e scompare.
Damiano segue una striscia di luce arancione, i suoi piedi, ridotti a moncherini, sono insanguinati. Gli specchi si sono infranti.

***

Damiano è un bambino, con lui ci sono una donna, un uomo e una bambina. Sono in una spiaggia deserta sotto a un ombrellone. È una bellissima giornata estiva, il mare cristallino è scosso da un leggero maestrale. L’uomo fa un cruciverba, la donna legge un libro, i bambini giocano con la sabbia, creano un castello. Sembra la villa di Portari.
Dietro di loro migliaia di cadaveri accatastati, uno sull’altro, tutti con la solita smorfia di terrore.
Il mormorio in sottofondo è svanito; il vociare dell’umanità si è spento.
Se solo volesse, il bambino potrebbe sentire la desolazione, il silenzio, ma per fortuna lo scrosciare delle onde lo aiuta a rinviare l’inevitabile.
Si godono il momento. Fingono di non sapere cosa succeda alle loro spalle. Finché non toccherà a loro referiscono star così, rimandare il più possibile l’incontro con la realtà che incombe. Quelle che imperversano sul mare non sono onde, ma piccole crepe su lastre di vetro.
È una bellissima giornata estiva.

Andrea Frau

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