Casual Friday #57: Dora

gatto meditazione

Emma Grillo

Fare rivista non è un pranzo di gala, bisogna razionalmente crearsi un sistema e testarlo ludicamente ma coerentemente come entomologi della qualità. Che la qualità poi, che cosa sia, per parafrase quello, non l’ha capito ancora nessuno, non importa perché il tema oggi è quel gran bastardo stracciacazzi del tempo e non di canoni ma di cannoni spirituali si parla.
Il cannone spirituale è la mossa segreta di uno dei nostri Simone. Fosse qua questo venerdì ce lo spiegherebbe lui il tempo. Simone invece non è più lui e non vuole essere più lui. Il suo fulcro ideologico sta tutto qui: “Per quanto mi riguardava poteva anche continuare ad avanzare l’orda perbenista che sicuramente avrebbe presto deciso di cancellare le scritte sui muri dei cessi.” A lui chiediamo che cos’è la coerenza. Lui risponde: “Non è fuoco la fiamma che aleggia sulle candele, vero fuoco è la vampa che intera consuma la vita di falena”. Noi cerchiamo su Google e troviamo una poesia persiana. La risposta soffia nel vento. Ci collochiamo nel punto più distante possibile dalla nostra storia. La nostra storia è un Nastro di Möbius. C’è un modo per mettersi al riparo dalla propria storia?
Ardo è l’anagramma di Dora. Il resto è detto tra le righe di questo racconto dedicato al passato di Verde che si riprende una rubrica storica del venerdì. Non ricapiterà per i prossimi 25 anni.
L’illustrazione è di Emma Grillo.

3285421236 3285421236 3285421236 3285421236 3285421236 3285421236 …certo che sfiga, quando hai bisogno di una penna non ce l’hai mai a portata di mano e anche il cellulare è scarico e niente foto cazzo. Faccio così un copia e incolla mentale compulsivo per memorizzare il numero, perché Dora fa i pompini. Di tutte le altre ormai non me ne fregherà più niente, perché come lei sicuramente non li fa nessuno, una con un nome così. Fra quelli degli autogrill dove mi fermavo con i Vecchio Stampo quando andavamo in trasferta, prima che questi si sciogliessero nei Fedelissimi e io li mandassi a fare in culo, fra quelli del multiplex, fra quelli di Casa Risparmio, fra tutti questi sicuramente i cessi della stazione sono sempre stati quelli di maggior affidamento e qualità. Una che è capace di scrivere un messaggio del genere, diretto, chiaro, esplosivo, antiretorico, una che va al sodo, che sa cosa fare e come farlo, e poi con un nome come quello. Mi potrei anche innamorare di una così. Quelle che trovavo sui giornali erano sempre a rischio contraffazione: “sesta naturale, accessoriata, riceve in ambiente climatizzato sudamericana elegante e dominatrice, completa… amazzone, statuaria, chiamami”. Dietro a quei messaggi e a quegli aggettivi ho sempre pensato si nascondessero delle transessuali, non che non mi abbia mai stuzzicato l’idea di rivolgermi anche a una di loro, creature anfibie, ibridi nerboruti che sanno meglio di qualsiasi donna come far godere un uomo, punti G, spelonche del piacere che nessun essere femminile sarà mai in grado di conoscere, perché loro stessi lo hanno provato prima su sé stessi, e la massima disinibizione, performance che una donna non sarà mai disposta a fare in una semplice prestazione a pagamento. Ho trovato una volta in un annuncio una certa Joanna “completa, disponibilissima” che fra le altre cose proponeva un servizio di “pulizia completa” che io chissà perché ho interpretato come essere leccato e succhiato alle palle con la massima dovizia e una certa “Grotta del piacere” che con la stessa logica ho associato a un anilingus fatto come dio comanda.

Ma per il momento avevo deciso di mantenermi nel solco della tradizione, anche per non dover ammettere a me stesso la mia omosessualità latente, sulla quale non sono mai stato troppo convinto del resto, quindi sono sempre andato alla ricerca di vere donne e Dora, il suo nome, il suo semplice messaggio che lessi in quella mattina porporina e disperata nel cesso della stazione era la garanzia della sua purezza femminea: “Dora fa i pompini 32854212326”, tutto lì. Ebbi la certezza che il numero memorizzato fosse quello giusto, completai la mia minzione, mai pisciata fu più provvidenziale, perché quella mi fece incontrare Dora e me ne potei così uscire dal cesso e dalla stazione con fare disinvolto e l’animo gonfio di propositi, speranza e lussuria.

Iniziai da subito a pensare – la chiamo o non la chiamo? Immaginai la sua voce nasale rispondermi che abitava nella Zona Demolizione Nord, dove finisce il perimetro della ex-quinta motorizzata, la caserma dismessa che ora è diventato una specie di parco naturale suburbano, nonché la piazza principale di spaccio della mia città di merda. Sentii che questa era un’inferenza data dalla mia esperienza passata con tutte le altre. La stragrande maggioranza di quelle che trovavo grazie agli annunci sul “Corsaro verde” o nei cessi dell’autogrill vicino alla tangenziale, quando ci fermavamo con i Vecchio Stampo di ritorno dalle trasferte, erano moldave, ucraine, qualche sudamericana e una volta mi capitò anche una cinquantaseienne di Sala Consilina. Con loro era tutto pianificato alla perfezione, nessuna allarme, nessuna sorpresa. Andavo in uno dei quei palazzacci in calcestruzzo che si ergevano sulla ex caserma, quelle mi accoglievano con un “ciao bello”, mi squadravano un po’ e poi mi chiedevano se gradivo un caffè, avevano quasi sempre la moka. Anche io le squadravo mentre tiravano fuori la loro caffettiera bisunta. Scorrevo le gambe, i tacchi che spesso indossavano, i fianchi, le tette che trasparivano dalle vestaglie con le trine, la cinquantaseienne di Sala Consilina, mi sembra di ricordare si chiamasse Carmela, indossava anche una specie di cuffia e sembrava dire minacciosa con il suo sguardo altero che se la fosse tolta si sarebbe distaccato anche il suo viso. Le donne dell’Est Europa avevano quasi sempre dei lunghi colli, come nei dipinti di Modigliani, colli torti di certi colli, con una pelle lattescente che per quanto mi riguarda non è che sia mai stato il mio ideale, ma è altrettanto vero che una volta fissato l’appuntamento non potevo darmela a gambe, anche perché avrei dovuto pagare la chiamata e avevo il timore che scendendo lungo le scale, in caso avessi dato buca a una di loro avrei dovuto fare i conti con il suo sgherro che immaginavo sempre nascosto nell’androne del palazzo e che quello uscendo fuori dal buio come un ossesso mi avrebbe pestato a dovere per la mancata prestazione. Le sudamericane invece sorridono sempre, sprizzano ottimismo da tutti i pori della loro pelle creola, sono in gambissima, assomigliano in questo loro entusiasmo contagioso e nei loro gesti e sguardi sicuri e decisi a quelle donne manager che danno ordini ai subalterni nei cubicoli delle società di consulenza delle quali sono alla direzione. Una di loro aveva sul terrazzo l’albero di natale con le luci colorate intermittenti tutto l’anno. In un’occasione mi sono trovato al cospetto di una nera, non lo aveva specificato nel messaggio che trovai nel cesso di Casa Risparmio il suo colore della pelle, mai fidarsi dei cinesi. Il numero di telefono di quella che si faceva chiamare Solange era accompagnato da un semplice “per un’ora di piacere estremo chiamami e poi chiavami”. Pensai a una dominatrice, forse per assonanza fonetica mi venne in mente che Solange potesse essere specializzata in bondage. Invece quando si aprì la porta del suo appartamento mi trovai di fronte un ambiente a luci soffuse e un odore di zenzero e cannella e lei Solange, che mi disse essere nigeriana, in una tuta color rosso pompeiano slacciata all’altezza delle tette che fuoriuscivano imperiose e mostrando il roseo capezzolo che da lì a poco avrei succhiato avidamente. La pelle delle nere ha una consistenza più viscosa, penso sia il ph, odore di ruvido, cuori, chiodi di garofano misto a cuoio, mi scivola addosso con il suo odore che richiama la forma del mio cervello rettiliano verso sconosciuti universi di piacere. Come tutte le altre mi fece indossare il cappuccio e mi disse di stendermi sul letto di una cameretta che intuivo nella penombra avere alle pareti una miriade di maschere tribali, oltre a un poster di Bob Marley. Come in tutti gli altri casi saldai a inizio prestazione, Solange trafficò per un po’ con una scatola sul comodino e poi iniziò a leccarmi partendo dalla coscia per risalire fino ai miei capezzoli. Quando realizzò che ero duro al punto giusto me lo prese in bocca in posizione stantuffo. Io la scostai poco dopo e le chiesi di farmi leccare anche a me. Devo ammettere che le nere sono le più disponibili e meno convenzionali. Lei acconsentì. Prima mi diedi da fare sui suoi fantastici capezzoli, stavo quasi per venire. Scesi lentamente giù, fino al suo ricettacolo del piacere, scostai le grandi labbra e iniziai a titillare la mia lingua su e giù sulla sua fica perfettamente rasata in un modo che sono convinto nessuno gli aveva mai fatto. La sentivo ansimare e scuotersi sempre più e si lasciò scappare anche un nigeriano “siii…lecca…”. Udendo quegli ansiti mi galvanizzai e venni insieme a lei che si scosse in un fremito animale mentre io me lo strinsi fra le mani per non sporcare le lenzuola, che poi magari finiva tutta la poesia e si sarebbe pure incazzata. Invece mi osservò con il suo sguardo da pantera a riposo e mi diede un bacio a stampo sulle labbra. Ci intrattenemmo ancora un poco a parlare delle solite banalità…quanti anni hai…da dove vieni…quanto è che sei qua, per poi salutarci con io che feci anche una battuta sul mio essere venuto velocemente e averla fatta godere, e se queste cose mi dessero il diritto a un buono sconto per la prossima volta che le assicurai ci sarebbe stata molto presto. Lei sorrise e mi offrì un joint come compensazione. Io rifiutai dicendole che non volevo correre rischi visto che dovevo tornare a casa in scooter dall’altra parte della città.

Ne ricordo un’altra che mi disse provenire da Varna, la città rumena denominata la perla del Mar Nero, che mi si presentò alla porta vestita di niente in un modo molto confident come dicono gli anglosassoni. Anche con lei fu una bella esperienza, anche se un po’ stereotipata come al solito: presentazioni; frasi di circostanza; transazione economica; preliminari; rapporto, quella volta completo, congedo e battuta finale con io che la salutai chiamandola la mia perla del Mar Nero. Per quanto quelle esperienze fossero soddisfacenti l’incontro con Dora, cioè con il suo messaggio nel cesso della stazione, era la promessa assoluta della felicità. Passai alcuni giorni senza chiamarla e vagando come uno zombie per le strade della mia città, pensando che lei non poteva vivere nella Zona Demolizione Nord dove io andavo a puttane da anni, oramai senza speranza, alcune volte poco prima del tramonto, quando il sole radente colorava il cielo di celeste, poi indaco, ciliegia, arancio, viola, seppia, prugna secca, fino al trionfo della notte, tanti i colori che hanno le ore del tramonto come la mia giovinezza che se ne andava. Dora non poteva vivere lì. Non avrei dovuto attraversare tutte quelle strade e quegli svincoli per arrivare da lei, non avrei dovuto sorbirmi agli incroci di fronte ai discount tutti quegli zombies paranoici a testa china sui loro telefonini. Non la chiamai, avevo il suo numero al sicuro fra i miei contatti nel cellulare. Per quanto mi riguardava poteva anche continuare ad avanzare l’orda perbenista che sicuramente avrebbe presto deciso di cancellare le scritte sui muri dei cessi. Anzi mi venne in quei giorni l’atroce dubbio che quella scritta e quel numero fossero stati scritti da Dora molto tempo fa e che lei ora, conscia che il messaggio sarebbe presto stato tinteggiato sotto una mano di vernice bianco-ospedaliero, avesse cambiato sim al suo telefono, aperto un profilo Tinder o un blog dalle coordinate a me sconosciute dove raccontare di tutti quelli con cui andava dagli Scolopi e la volevano sempre servire in bocca, la sua bocca sterminata di forno. Cercai su Google il suo nome e trovai l’adattamento cinematografico di un live-action e le coloratissime vignette di Dora L’esploratrice; forse solo per suggestione mi sembrò di vedere veleggiare fra i pixel dei numeri di telefono e una bocca di donna slinguazzante, forse lei, la vera esploratrice dei buchi di culo.

Questo mio timor panico fece sì che in quei giorni non provai mai nemmeno una volta a comporre il numero di telefono di Dora. Avessi avuto almeno qualcuno con cui parlarne. Invece da quando mandai a cagare i Vecchio Stampo mi erano rimasti come amici solo alcuni di quelli sfigati con i quali facevamo la roulette russa agli incroci, gran parte di loro oramai vecchi tossici istituzionalizzati che fanno la fortuna del servizio sanitario nazionale. Sono ormai del tutto al di fuori della gang, anche se ce li ho pure io i miei bravi conoscenti nella gang. Vedi alla voce Casafossa, ed è pure mio vicino di casa. Mi sono sempre trovato bene con lui, mi ha invitato anche al matrimonio tamarro di sua cugina, posso contare su di lui. Certo, per alcune cose è un po’ vecchio e imbolsito, e uso un eufemismo, ma già esiste una seconda e una terza generazione di Casafossa, prestanti, arrembanti, decisi, vengono su bene. Sono i pesci piccoli, i più voraci, vogliono arrivare al piano superiore, sono la manovalanza del crimine, spacciano in tutto il mondo la loro merce contraffatta. Ma non potevo certamente parlare a loro delle mie paturnie sessual-amorose e della voce nasale di QUELLA STRACCIACAZZI di Dora che non ho mai udito. Continuai infatti a delirarla e basta, a occhi aperti e a occhi chiusi, nei miei sogni, come quando al risveglio da una notte soffocante mi ricordai che ero entrato nel suo appartamento dove ero uso fare sesso con lei.

Era tutto luce soffusa e morbidi puff distesi ovunque, nella sala e nelle camere. Lei mi aspettava, non sapevo come definire quel rapporto, io volevo sesso spinto e sporco, niente di più, oltre i limiti e le convenzioni. Invece apparvero da una porta a soffietto che erano in tre e di Dora non c’era l’ombra. Lo scherzo della serata fu che mi presero da dietro senza che me ne accorgessi nemmeno e mi penetrarono progressivamente, quasi senza sorpresa e al piacere subentrò il dolore senza soluzione di continuità e fu tutto un lento scivolare come in un sogno o in un dormiveglia narcotizzante. La mia coscienza si rifiutò di realizzare che avevo 25 cm duri di carne dentro il mio culo, fino a che non mi svegliai terrorizzato. Nei dormiveglia invece mi siedo, mi distendo, i pensieri smettono di pensare, pace che scende sulle mie palpebre, le idee si addensano come pulviscolo, fremono oltremodo e prendono forma e allora mi appare Dora, una macchina speciale dedicata al mio piacere fisico e genitale, e che opera gesti meccanici, lenti e morbidi su di me, solo per soddisfare virgulti organi e parti del mio corpo. Nonostante la mia foia le vorrei dire che le carezze fra le gambe di una donna non sono le carezze fra le gambe di una donna, è una cosa ancora più dolce, più cieca e non è nemmeno più una donna quella come “Non è fuoco la fiamma che aleggia sulle candele, vero fuoco è la vampa che intera consuma la vita di falena”. In quei momenti penso che vorrei dedicarle una canzone alla radio, come si faceva una volta, quella canzone sarebbe Bang Bang di Dalida. Quello che canta sarei io, quel catorcio d’uomo che soffre riascoltando quella canzone che facevano loro da bambini, perché l’ha scritta lui per lei. Altre volte ho delle vere e proprie visioni, mi sento come se stessi per essere gettato in una fornace ardente, poi uno spirito mi alza e mi porta verso gli esuli, in visione, nello spirito di Dio. Cerco di scacciare via queste cose con la razionalità, ma non posso fare a meno di farmi delle domande alle quali io stesso rispondo: se al posto mio ci fosse stata un’altra persona le domanderei dopo la prima volta che avremo scopato, per te, le chiederei, per te sarebbe stata la stessa cosa? No, mi risponderebbe Dora. Ma ancora non mi decido a comporre il numero di telefono, troppa paura, anche solo quella del lasciarmi scappare una richiesta di anilingus, con lei che mi riattacca immediatamente e mi mette fra i suoi innumerevoli numeri nella lista nera del suo telefono.

Razionalmente programmo di crearmi un sistema, mangerò a ora stabilite, mangerò il mio cibo in una forma di sfoglia d’orzo e lo cuocerò su escrementi umani, e quando avrò sfogato così la mia gelosia, in loro troverò soddisfazione. Supplicherò anche Dio con il digiuno, con il sacco e con la cenere. Chiederò anche all’Altissimo di risparmiarmi un sifiloma lungo come l’autostrada del sole sul mio corpo per il troppo amore. Invocherò anche divinità pagane in mio soccorso, un dio dalle corna di toro che mi porti da Dora, dal suo nome, dalla sua pioggia dorata nella quale vorrei annegare. Mi rivolgerò a Dioniso, adulandolo, come il demone divino che guida le Baccanti, che almeno lui mi guidi da Dora, presso il suo nome che è l’anagramma di ARDO, che è quello che sento io e non come con Anna, una delle mie ragazze avute da giovane, la mia fidanzatina tutta per bene, la mia ragazza dal nome e dall’essenza di palindromo, comunque la prendevi, da qualsiasi parte la guardavi, nome compreso, lei era sempre uguale, non come DORA. Dovrò continuare a cercarla, anche se il numero dovesse essere irraggiungibile. Non posso continuare, continuerò, sono io l’Innominabile e lei è Dora, Dora che fa i pompini.

Simone Bachechi

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...