Trash Vague #2: Nostra signora dell’ISIS (Umberto Morello)

Torna Trash Vague: la rubrica che guarda il genere trash con gli occhi di un* amante disillus*; che cerca di catalogare le sue manifestazioni nella pop culture; che tenta di definirne i contorni. Non racconti trash, bensì racconti sul trash. (qui l’introduzione completa).

Oggi ospitiamo il buon Umberto Morello con il suo Nostra Signora dell’ISIS e ne approfittiamo per ringraziare il grande lavoro svolto dalla tv di servizio pubblico nello spingerci sempre più vicini al suicidio durante queste ore di quarantena. Che questo racconto di Umberto sia una sorta di premonizione?

Il collage è di Claudia D’Angelo.

«Il canone è come l’amore. Uno paga, e non sa i demoni che sta invitando in casa. Non se lo immagina; ed è un bene, che altrimenti non ci sarebbe più la Rai, e neppure l’amore».
Su questo meditava il nuovo amministratore, intanto che l’inchiostro arrossava le chart del nuovo palinsesto.
«Se una cosa la fa Mediaset è trasgressiva, se la facciamo noi è una maledetta tombolata da refettorio» gridò Pigna, direttore Canali e Generi TV, senza chiudere la porta a vetri. La moquette esalava uno stanco fiato anni ’70, e alcuni dipendenti scrutavano le due sagome intrappolate nel gabbiotto trasparente della sala riunioni.
«Quindi?», domandò l’amministratore.
«Quindi, dobbiamo fare peggio di loro, dobbiamo…». Pigna notò la porta aperta e la accostò con la punta sfiorita del suo mocassino. I piedi gli sudavano come animali in cattività.
«Il loro gioco è portare l’emozioni in scena, farne un’americanata, un cinepanettone». Afferrò la bottiglia dell’acqua, la scoperchiò e ne scolò una rapida sorsata. Un gesto piuttosto efferato per un dirigente Rai.
«Sono figli ingrati del carosello, e neppure se ne rendo conto, questa manica di, di… italiani!». Poche volte aveva perso così il controllo. Anzi forse una. Quando alla ACR un simpatico prete in odore di santità gli aveva adagiato tra le scapole il suo inconfondibile batacchio, e lui era scattato su a molla, minacciando di nascondergli le ostie.
«E quindi?» riprese l’amministratore impaziente.
«Cambieremo le regole del gioco. Porteremo un reality stile Mediaset su Rai 1», accennò sbriciolando le ultime sillabe.
L’amministratore ridacchiò di gusto.
«Ma non lo abbiamo già fatto con l’Isola dei Famosi?»
«Questa volta sarà diverso. Lo spacceremo per documentario. Terremo la nostra audience sul filo del rasoio, fino all’ultimo non capiranno e…», Pigna si congratulò con sé stesso per l’anglismo. L’amministratore era molto divertito, gli sembrava di non essere neppure alla Rai.
«E non faremo comunicati, interventi, dichiarazioni. Nulla, fino alla fine. Lo spariamo dopo Fazio e basta».
«Cosa “spareremo” esattamente?».
Pigna si abbandonò sulla sedia e sorseggiò l’acqua oligominerale come fosse un pastoso old-fashion.
«La paura», disse spingendo piano le lettere con l’ugola.
«Loro portano tutte le più sgargianti sfumature dell’emotività? Eh beh, noi portiamo la paura! Un docu-reality sulla paura: il sentimento che cancella gli altri». Il direttore lasciò cadere la penna e gli corse incontro abbracciando Pigna con un entusiasmo al limite del paterno.
«Ricordati soltanto che i palinsesti non sono bestie docili», lo ammonì.
«Neppure gli italiani», rispose solenne Pigna.

1.

Il concorrente si impuntò contro il sole, dondolando come un pendolo stanco, o un iPhone nelle mani di un bambino. Sotto l’altipiano impazzivano una ventina di bandiere nere che nella folla avevano subito suscitato un entusiasmo ipnotico, e ora ravvivavano l’aria come sberle prive di enfasi. Non c’era ironia né sadismo. Soltanto un rigidissimo trash. E suoni, voci divorate dal vento, rumori che nelle vite normali non esistono. I produttori sbiancarono.
«Bentornati a Nostra Signora dell’Isis! Un viaggio nella nostra cellula terroristica preferita» disse il conduttore, mentre i concorrenti sfilavano nella consueta tuta arancione. Per quattro volte aveva sfiorato la laurea triennale in filosofia, e al quinto fallimento aveva investito il patrimonio di famiglia nella creazione di un canale YouTube sulla divulgazione. Canale che il pubblico aveva schifato e Pigna amato; e che quindi, nonostante tutto, lo aveva portato a condurre il programma.
«Alcuni nascono con la penna in mano, altri con il mitra», guardò dritto in camera. «Chi ha la stoffa del terrorista? Votate!»

I produttori – come si diceva – stavano sbiancando: pare che spesso succeda alle persone quando investono in qualcosa di apparentemente innocuo e redditizio e poi l’investimento si ribella, direzionandosi fra gluteo e gluteo dell’imprenditore, là dove non c’è margine di lucro ma soltanto passività. Ed infatti qualcosa nel programma era andato molto male. L’impostazione doveva essere quella canonica da reality: confronti, discussioni, laconica intimità e qualche inciucio qui e là. A questa linea si affiancava quella del documentario: i concorrenti dovevano essere avvicinati ai fondamenti della jihad e reagire di conseguenza, con sdegno, luoghi comuni e tutto uno stock di emozioni più o meno preventivati. Avrebbero dovuto.

Il primo a sentire la chiamata per la guerra santa era stato proprio Davide, il conduttore, che a un certo punto si sarebbe pure fatto chiamare Yannis, colomba di pace. Barbetta brizzolata, viso smunto, occhi neri sottili e sopracciglia riassunte in una pennellata rapida di nero indeciso. La fisionomia sfigata del fumettista, unita ad un vago savoir faire faziano. Non certo la prima persona che ti viene in mente per questo genere di cose. Eppure, a lui ‘sta storia della Jihad sapeva di esotico e persino di riscatto. Un po’ come la seconda trilogia di Star Wars. Girava per il “campo” (così era stata chiamata la zona adibita alle attività quotidiane dei concorrenti) con una magliettina bianca infarinata di sporcizia varia, e un paio di pantaloni militari anni ‘90, integralmente stropicciati. Tra manica e manica della t-shirt, un logo glitterato intriso di retorica defilippiana: “gli occhi sono lo specchio dei fraintendimenti dell’anima”.

Dopo il casting i selezionati non erano stati richiamati, bensì rapiti. Sembrerà estremo ma il contratto parlava chiaro: il candidato aveva come preavviso minimo una chiamata minatoria, poi nell’arco di 48 ore, veniva bendato, malmenato e trasportato in aereo a “Mosul”. Il tutto sotto l’occhio attento e sconcertato dei cameramen che, dopo anni di Che tempo che fa e I fatti vostri, non erano del tutto preparati a quei modi bruschi e così poco “da Rai”.

2.

Il fatto è che comunque il budget per andare davvero a Mosul: pagare tangenti qui e là, militarizzare gli stand, proteggere la regia, e soprattutto far capire ai Peshmerga – che contro i gabibbi del califfato ci morivano davvero – le ragioni e irragioni di quella carnevalata; insomma per tutto questo non c’erano abbastanza soldi, né scaltrezza.
Così si era optato per l’entro terra sardo. Era bastato piazzare delle recinzioni e allestire una piccola scenografia: qualche calcinaccio, una o due palazzine molto basse e colate male nel cemento, qualche scritta in arabo qua e là e un po’ di atmosfera. Sembrava semplice. Solo che tutta la parte di preparazione era stata affidata alla troupe di Montalbano, e la scena allestita assomigliava più a uno strano ibrido tra un bazar e un borghetto vetero-siculo, piuttosto che a una città irachena.

Una volta a “Mosul” i cappucci venivano rimossi, e i concorrenti potevano immergere le pupille in uno straziante bagno di sole.
Per ambientarli nel mood del programma seguiva poi una piccola sceneggiata. Davide arrivava all’alba, con un manipolo di attori barbuti in outfit da califfato. Fucili puntati, insulti, strattoni. Il tempo di stirare fra le guance uno sbadiglio, che tutti finivano ammaccati e impacchettati su un sedile di gomma dura. I concorrenti avevano soltanto il tempo di capire che stipati nel retro di una jeep dall’odore acido, e che c’era un problema. Le jeep erano due: una per gli attori e una per i concorrenti. Ne mancava una terza che la produzione s’era dimenticata di andare a ritirare ad Olbia, e che quindi s’impolverava solitaria nel parcheggio dell’aeroporto. Davide, conduttore sagace, sfoderò allora le sue doti di problem solving, con un’idea a tema. Prese Alberto, un concorrente dal viso simpatico e gli occhi svegli – uno di quelli che all’Eredità fa venire il crepacuore a tutte le nonne d’Italia – assieme a Virginia e Francesca, due sorelle arcigne del Friuli, e inscenò la loro esecuzione. D’altronde era una soluzione che costava poco e aveva il pregio di mettere tutti del giusto umore. Li schierò sotto una duna, e coccolando il fucile giocatolo fece alcuni cenni agli attori. Loro non capirono. Li richiamò attorno e bisbigliò: «non avevamo i soldi per caricarli a salve, però il suono dello sparo lo fanno lo stesso. Vi mettete dietro e appena parte il primo colpo, li tirate giù tutti con una pedata, come se gli aveste colpiti. Capito?». Con rapidi cenni i teatranti confusi fecero intendere che più o meno avevano capito. Sbendarono gli altri concorrenti di modo che dalle camionette assistettero alla scena.
«Shahslalal», gridò Davide, che all’esame di lingue comparate orientali se l’era cavata con un risicato 21. Poi un clic. Una lacrima di rugiada sui vetri del macchinone, e tre colpi secchi. Neanche il tempo di dire o pensare “sti cazzi” che le sagome si adagiarono sul calanco sardo. Ovviamente qualcosa non funzionò e il terzo concorrente rimase inginocchiato diversi secondi dopo lo sparo. L’attore che doveva fargli da giustiziere si era distratto.
«Il bello della diretta» sospirò Davide.

3.

Davide si avvicinò alle jeep con i suoi modi insipidi, quasi trascinasse a fatica ogni espressione del suo volto per dire: «Just a matter of space».
Quell’inglese storpiato era talmente posticcio che fu immediatamente smascherato. Alessandro, un’aspirante giornalista di Trento che da anni presidiava una redazione romana, riconobbe con nostalgia qualche inflessione del santo suolo natio. E senza rendersene conto, con un accenno di frustrazione gli rispose: «Basta che nun te ciapi el lechèt».
Davide aggrottò le labbra, le guance e gli zigomi, e gli altri assunsero una faccia da chewingum masticato.
«Basta che non prendo il vizio?» esitò. «Compatriota! Che ci fai qui in mezzo a questo casino?» gridò poi con più enfasi del necessario. E così tutti scoprirono che Davide era in effetti un mangia-crauti italiano. Cosa che fece piacere a tutti, perché nell’immaginario i trentini sono persone buone, adorabili, e giusto appena appena rincoglioniti da tutta quell’erbetta e dal welfare troppo efficiente.
«Non pensavo che nel califfato ci potessero essere dei trentini», disse Alessandro.
«Ci siamo, ci siamo. E neanche in pochi». Poi dondolò una sigaretta e con un colpo netto si girò completamente verso gli attori a dire “andiamo”.

Un grosso amplificatore Marshall nascosto a ridosso di un nuraghe soffiava dei rumori assordanti di spari. Era stata una trovata di un tecnico del suono di Radio 3: bisognava ricreare il complesso sonoro della guerriglia perenne. Smitragliata lunga, poi una breve, e una lunghissima, seguita da un piccolo jingle che per fortuna si sentiva poco, (solite disattenzioni da stagisti).
«Sono i Peshmerga» disse Davide ai concorrenti-prigionieri, intanto che la jeep saltellava come un capretto al pascolo su una strada di campagna, e sballottava tutti da una parte all’altra.
«Il fronte della morte. Un’accozzaglia di disperati che dopo anni sono stati riconosciuti come reparto ufficiale dell’esercito iracheno» aggiunse, con il fare arcigno di un Clint Eastwood nostrano. C’è da dire che però era piuttosto bravo a mantenere quell’aplomb, lì dove tanti altri si sarebbero strozzati con una risata.
«Dobbiamo dirottare la jeep», bisbigliò Raffaele, un cripto-milanese, (in realtà era di Como), dai modi bausciani.
«Sei scemo?» mormorò Amparo, una ragazzona mezza catalana di padre Abruzzese. Era laureata in storia con voti appena sufficienti, e da qualche anno lavorava alle risorse umane di un fast-food gourmet.
«Anche perché si sa, i bimbi del califfato devono sudarselo fino in fondo il paradiso. Devono rimanerci morti». La jeep impennò, inchiodò e poi riprese.
«Se dirottiamo la jeep quelli ci fanno saltare in aria con loro». Amparo si passò una mano nervosa sulle ciglia, e cercò di spremere dalle sue meningi affaticate un’idea qualsiasi.
«Pheega che situazione», sospirò Raffaele.

4.

All’arrivo, i sette concorrenti rimasti furono incappucciati e Davide si esibì in una serie di latrati che in teoria avrebbero dovuto essere un discorso motivazionale e invece erano diventati soltanto un’accozzaglia di suoni che gli suonavano bene e a tratti potevano assomigliare a qualcosa di arabo.
Il muco scavava tiepidi sentieri dalle narici fin sotto il mento di Raffaele. Non era più un bauscia, ma soltanto un milanese terrorizzato, come quando chiudono tutti i locali sul Naviglio Grande. Gli attori piegarono con un colpo secco le ginocchia dei concorrenti. Un tripudio di h e di suoni gutturali sgorgarono anche dalle loro bocche.
«Ora vi spiego le regole», disse Davide ammiccando in camera.

«Avete firmato un contratto con il Califfato». Assaporò quello che aveva appena detto. E i concorrenti pure.
«Ma non abbiamo firmato con la Rai?» mormorò Amparo stizzita.
Davide le volò davanti urlando qualcosa di incomprensibile in una specie di idioletto da poppante, che oscillava tra il trentino e il sardo per poi ritrovare qualche vaga inflessione orientaleggiante.
«La Rai è l’Isis» sbraitò alla fine. E sia gli attori che i cameramen persero per qualche attimo l’equilibrio.
Amparo rimase impassibile. E Alessandro gli rispose che: «Nessuno trentino, gente con le vallate nel cuore, può davvero essere un terrorista».
«E tantomeno la Rai» rincarò Amparo, con quell’arroganza che può avere soltanto un prigioniero. In tutta risposta Davide fece un segno al cameraman.
«Questa la tagliamo». La troupe fece segno col collo, che sì, anche loro erano d’accordo e forse era meglio.
Amparo rianimata saltò su in piedi. «Siamo concorrenti, mica prigionieri. Ricordatelo».
Davide sorrise, e avvicinandosi le sospirò in faccia: «Prima eravate concorrenti. Ora siete miei».

5.

La prima delle attività previste dal programma era l’ascolto. Per circa un’ora si veniva introdotti alla Shari’a per mano di un figurino esile munito di turbante, il quale gridava parole incomprensibili. Si trattava di vecchio casertano disoccupato che dopo anni in riva al mare aveva la pelle incrostata dal sole. Sia l’accento che la carnagione lo rendevano perfetto. Un arabo vero costava almeno 8 euro l’ora, mentre il campano era stato semplicemente contento di farsi invitare dal cugino tecnico di produzione a vivere a sbafo in Sardegna per qualche settimana. Raffaele, Amparo e Massimo lo guardavano costernati: erano gli unici a rendersi conto che quel mujaheddin era un cazzo di terrone?

Eppure, quei suoni palatali e indecifrabili sembravano trasmettere qualcosa, qualcosa che in loro sedimentava i primi germi di un’ideologia violenta e selvaggia…

Il carrello della macchina da presa seguì i passi di Davide.
«Bene adesso ci prepariamo per la prima prova!», guardò di sbieco in camera. I concorrenti lo fissarono con occhi vuoti e spauriti.
«La prima prova è collettiva: dovete mettervi insieme tutti e sette e celebrare il Califfato con un’opera d’arte», si schiarì la voce e scrutò paternalmente i concorrenti.
«Potete chiedere quello che volete: attrezzature, effetti, e anche uomini la partecipazione di qualcuno dei nostri uomini. Attenzione però: se la commissione troverà la rappresentazione offensiva, sarete tutti eliminati».
Poi montò su uno sguardo intenso e abbracciò la telecamera: «Tutto questo è Nostra Signora dell’Isis!»

6.

Isis: the musical

Sulle prime nessuno voleva crederci. Specialmente la fascia di telespettatori 35-50. La corsa al trash stava per concludersi, e a stappare un esoso spumante su un’orda affamata di contenuti ignobili, non sarebbe stata Mediaset, ma lei, la Rai.
Se lo spettatore si fosse collegato al momento giusto, avrebbe trovato nello schermo i cinque concorrenti rimasti con indosso un tutù arancione, circondati da altrettanti carnefici in tenuta militare; più un urlatore-porta bandiera vestito di nero.
I giustizieri stavano in piedi dietro alle vittime, dondolando il taglio di una lama di lunghezza media, curvi sulle proprie ginocchia al ritmo di una musichetta quasi gradevole. A quel punto iniziava.

Dall’alto – calato con un cavo rubato al Castorama di Cagliari, spesa totale 7,50€ – arrivava Abu Bakr Al-Baghdadi, a.k.a. il nostro Raffaele. Piombava giù munito di alucce da fata, con la sua divisa militare, e un AK-47 al collo. Voce melodiosa da bravo contralto. Accento secco meneghino e sguardo lombardo. Sui divani di tutta Italia la gente era confusa. In quel silenzio palpabile il buon Abu intonava, stringendo appena i denti, il fatidico main theme:
«Flames! Flames!!»
Dalla prima arcata si alzavano poderose fiammate nere che liberavano scintille dal contorno azzurrino. Cinque volte. Sempre con il refrain “Flames, Flames” in crescendo. I cantanti del coro di voci bianche alle sue spalle erano anch’essi armati fino ai talloni e vestiti di nero, come dei veri ballerini Daesh. Dissolvenza. Luci svolazzanti e finalmente eccolo…L’immancabile intro rap, cantato sempre dalla fatina Al-Baghdadi:

Let me introduce u to sharya,
oh Maria, let go your malinconia,
you know, everybody knows,
the flow goes,
Now God touch my private al-din.
This is not a scene.
(pausa)
-Cin, Cin-

“La televisione è morta” avrebbe commentato il Corriere.
“Rai is the new Mediaset?” si sarebbe chiesta Repubblica.
“Pare che pure gli arabi sono froci”; la soluzione in effetti, la dà sempre Libero.

7.

Amparo spiava il crepuscolo con il mento poggiato al calcio della mitragliatrice. Nella sua vita aveva fatto praticamente ogni tipo di lavoro: dalla venditrice piramidale, alla lavascale, per arrivare allo stage da HR nel fast-food gourmet, passando per il lancio di una propria start-up: un meraviglioso flop, di quelli che se poi diventi qualcuno lo ricordi con lirismo e nostalgia, e se invece no, come il momento più eclatante del tuo fallimento umano.
«E adesso faccio la terrorista?», scandì tra pensiero e pensiero.
In lontananza un pastore sardo intonava il vecchio canto della brigata Sassari. Amparo sorrise.
«Nonna diceva che almeno una volta in Sardegna bisogna tornarci da non turisti». Davide arrivò da dietro e le appoggiò una mano sulla spalla. Amparo la strinse.
«Chissà se così vale».
Dietro di loro, in un piccolo terrazzamento, camere, carrelli e microfoni si muovevano come sciami di mosche eccitati da una scarica elettrica.
«Sei pronta?» le chiese Davide, e anche lei se lo chiese. Visto che la risposta era meno automatica di quanto si aspettava, si mise a sedere di fianco a lei.
«Dobbiamo dare un segnale forte» ringhiò, «altrimenti ci riporteranno alle nostre vite e addio missione». Mentre parlava trascinava una mano impolverata sui suoi capelli aciduli e sporchi.
«L’occidente ti mastica e ti sputa, se non lo uccidi».
Amparo lo guardò come se la frase avesse attecchito in profondità dentro di lei, scatenando l’effetto sperato. Ma di fatto, incrociando il viso smunto di quel pupazzone inabile alla vita, si rese soltanto conto di amarlo.
«Va bene» disse e Davide sorrise allucinato. Ancora non si era abituato all’idea che i suoi discorsi potessero sortire davvero un qualche effetto sugli altri.
«Però preferirei continuare coi musical, senza uccidere nessuno».
Davide saltò su e si allontanò fischiando il refrain della sigla di Nostra Signora dell’Isis e in lontananza Raffaele prese a gridare come un’aquila ferita, o un milanese a cui abbiano chiuso l’Esselunga sotto il naso.

8.

Raffaele si impuntò contro il sole, dondolando come un pendolo stanco, o un iPhone nelle mani di un bambino. Sotto l’altipiano impazzivano una ventina di bandiere nere, che nella folla – composta da tecnici, cameraman, assistenti, runner e attori – avevano subito ricreato un certo tipo di entusiasmo ipnotico. Non c’era affatto ironia né sadismo. Soltanto un rigidissimo trash. E suoni, voci divorate dal vento, rumori che nelle vite normali non esistono. I produttori sbiancarono. E anche Pigna e l’amministratore. Ancora una volta, per distinguersi dalla Mediaset, avevano deciso di dotare la troupe del reality dell’apparecchiatura per lo streaming live e il risultato era che adesso la crittografia rendeva impossibile disconnetterli dalla diretta del canale. E pure da Rai Play, perché di quella applicazione nessuno aveva mai capito un cazzo, neppure gli ingegneri.
«Cari amici, bentornati a Nostra Signora dell’Isis!»
«Lo abbiamo detto spesso: alcuni nascono con la penna in mano, altri col mitra. Ma durante questo viaggio…», si asciugò una finta lacrima, dall’occhio destro e dall’anima.
«…abbiamo scoperto che c’è anche chi le armi le ha sempre covate nel cuore, e aspettava soltanto la chiamata giusta».
L’inquadratura ondeggiò verso Raffaele, che tra un sobbalzo e l’altro piangeva.
«Figa… figa… figa… che cazzo di giargianata».
Massimo impugnava una piccola pistola con il calcio gualcito. Si chiedeva quando avrebbe potuto smetterla di fingere, e se alla fine del programma qualcuno sarebbe davvero venuti a salvarli. Amparo catturò il suo sguardo, e gli mormorò che no, ormai erano soldati, e che dalla morte di Raffaele in poi sarebbero stati veri e propri terroristi. Poi lo aiutò ad appoggiare la pistola sulla nuca del finto-milanese.
In lontananza i pastori sardi intonavano un canto indecifrabile, il sole calava a picco e la Rai scopriva le terribili conseguenze del pop.

Umberto Morello

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