“Oggi in Italia ci sono stati sei casi di riviste palestra diventate collane editoriali indipendenti.
Sono le 21:36 di domenica 8 marzo 2020.”
“Cioè vogliamo sfruttare questa cosa delle quarantene” (SIC), ci scrive un ex redattore e lettore assiduo su Facebook.
Sni, come dicono quelli, ma caro amico, tu manchi il punto: prima o poi noi si doveva tornare, perché lo si era promesso dopo i noti fatti degli ultimi tempi. E a fare che, ci chiederai allora. A raccontare, si capisce: a provarci.
Che cosa? Un’apocalisse italiana, 28 giorni dopo l’ombra dello scorpione nel day after a, il tentativo itinerante di raccontare il tempo attorno a noi che rallenta, le domeniche da sempre passate così, la paura e il cibo, il virus, il dubbio di essere rimasti incastrati nelle bacheche social di Matteo Meschiari e Tony Vena, soltanto una mattina come tante altre, la situazione è seria e non c’è niente da ridere. Che c’è di nuovo, ci chiede Twitter. Praticamente tutto, Jack. Non è successo niente.
Eppure le riunioni di redazione degli ultimi giorni sono strane.
Andrea è il primo a staccare, dal 5 marzo è in call con quelli del Team CampuStore per portare la G-Suite nell’istituto tecnico dove di giorno insegna italiano e di sera smanetta da animatore digitale. Francesco non può uscire di casa, la settimana scorsa gli hanno chiuso il ristorante, adesso l’intera città, Orzinuovi fantasma, a causa di un torneo di bocce devastante (qualcunu ha detto In fuga dalla Bocciofila?) e altre cose divertenti che per il momento non faremo più. Luca ha dovuto rinunciare a “Laboratorio Racconto”, il corso di scrittura creativa che ogni anno tiene in un importante e deprivato istituto comprensivo della periferia sud-est di Roma: adesso sta traducendo per Ibba i cinque volumi di The Familiar. Simone, ultimo arrivato (benarrivato!), è ancora immerso nello studio degli sterminati archivi di Verde (faldoni annata 2018).
È tornata La Nuova Verde, semplicemente, con una nuova redazione e un nuovo logo pazzesco creato dalla nostra artista in residenza Claudia D’Angelo.
Abbiamo passato gli ultimi mesi a pensare e a studiare una nuova storia da scrivere e raccontare, non abbiamo mai avuto le idee così poco chiare, ma la direzione c’è. E il tempo a quanto pare non mancherà. Le parole in esergo sono di Pierluca D’Antuono: gli avevamo chiesto due righe per questo editoriale redazionale di ripartenza, il primo senza di lui, lui vi saluta da lontano e ci benedice così.
Il collage è di Claudia D’Angelo, la nostra artista in residenza (lo avevamo già detto?).
Dico la verità, non ci sto capendo niente. È da domenica ventitré febbraio che mi sembra di vivere tra le pagine de L’Ombra dello Scorpione, abbandonato in un dormiveglia acido, un compost di pixel, vocal ironici, rituali ossessivi, news (alcune fake, altre no, ma ogni cosa si confonde e nessuna cosa è luminosa), schermi, dati, numeri, percentuali, statistiche. È una melma nella quale sono invischiato e lo sarò ancora per molto, temo. C’è chi ha paura, c’è chi prende in giro quelli che hanno paura, ci sono i sarcastici, i cinici e ci sono i meme, quelli sempre per forza; c’è ancora Insinna sulla Rai, la sera, e il GF VIP anche. Signorini è entrato nella casa per raccontare del virus ai “vipponi”, e al GF VIP quest’anno c’è anche Antonio Zequila.
La paura e il cibo. Il virus. Il virus, il cibo e la paura. Il supermercato stracolmo, le persone agglutinate a comprare cibo, carrelli e carrelli di roba da mangiare. Dalla crema di cioccolato alle uova, dalla maionese alle bevande zuccherine, dalla pasta per la pizza ai tramezzini surgelati. I carrelli tracimano di prodotti alimentari. La paura di non averne mai abbastanza, di cibo, perché questa storia non si sa quanto possa durare. La paura e il cibo: la pasta, la carne, le patatine, i volti cianotici, gli sguardi bovini, il salame, il formaggio, i bancali svuotati come il centro della città. Sylvia Browne aveva preconizzato un inverno di paura in un libro di profezie uscito in Italia quasi dieci anni fa. Ma devo crederle? Sono arrivato a questo punto? Strane storie, particolari istantanee mi baluginano davanti agli occhi mentre corro a mezzogiorno, faccio tre volte il giro dell’isolato sotto un cielo impataccato e carico di interrogativi. Nessuna cosa è luminosa. Correggo verifiche. Preparo lezioni che non so, effettivamente, quando e come svolgerò. Le gite a scuola sono state annullate. Provo a staccare con qualche serie online: mi fanno schifo tutte. Due sere fa ho sentito la mia ragazza dopo quasi due mesi di silenzio. Lei è in Olanda per lavoro, lei mi ha detto non ce la faccio più. Segue un progetto grosso, lavora nella comunicazione, nel marketing. Dice che sono i giorni, potrebbero essere i giorni più importanti della sua carriera lavorativa. Poi si mette a piangere. Mi parla di alcuni meeting insostenibili. Orari di lavoro impossibili. Dorme due ore a notte. Mi dice che nel suo team c’è un comasco che le rompe continuamente i coglioni, si veste male e non mangia mai: si nutre di Coca-Cola e sigarette. Ha una forma a pera, è pelato. Non crede nel progetto, è pessimista, ha una pancia ingombrante e orrenda, porta il dolcevita e gli occhiali da sole anche se è sera. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto. Non crede nel progetto Non crede nel progetto. Non crede nel progetto.
Spengo la luce e mi addormento. Sogno. La voce della persona seduta dietro di me, sul treno, è il rumore o gemito più fastidioso che abbia mai sentito in tutta la mia vita, mi trapana le orecchie. È il timbro di voce di chi si è appena svegliato ed è ancora assonnato, quindi risponde a monosillabi strascicati come se lo stessero disturbando, è una voce tutta nasale, con questo piglio nobile e snob, è la voce di un ricco, che comincia tutte le frasi con un noooo cantilenante concludendole con sìsì certo, e ogni cinque secondi sbadiglia e nella caverna dello sbadiglio parte il nuovo borborigmo, un altro mugolio, e poi ha un tono troppo basso, indecentemente basso, sembra quasi non voler farsi capire dal suo interlocutore, ogni tre o quattro mezze frasi ci mette la risatina finta da borghese tediato, uno sbadiglio ancora, mi rendo conto ora che sta parlando di tessuti, di sciarpe, precisamente, e in testa mi balena l’immagine orrenda della sua lingua, fatta di lana e nei morbidi toni del beige, che esce e entra dalla sua bocca, l’antro nella quale vive la sua lingua fatta di sciarpa, di lana, ed ecco il perché della sua voce lanosa, morbida ma di una morbidezza sfiancante per chi l’ascolta, le parole smozzicate non si distinguono tra di loro, sono mugugni rivestiti in pile, e ancora il colpo di tosse innaturale, studiato a puntino per dare l’impressione del malaticcio, del ricco malaticcio stanchissimo, per il lavoro, per le troppe chiamate, per i troppi appuntamenti, per l’ennesima call triangolare per gli eventi, le cene a cui bisogna presenziare, i pranzi con i competitor, i vernissage, questa voce che si fa sempre più flebile, a tratti roca, forse per le sigarette o per altro, sono esattamente dietro di lui ma già me lo vedo che comincia a vomitare lana, gli vengono i conati di lana, gli escono metri di sciarpa di lana dalla bocca, parla con la voce della lana che gli sale su dallo stomaco e gli arriva in gola, cachemire vomitato sì, ma in modo elegante, lane pregiate, tessuti costosi.
Questa voce, trasformatasi in lana pregiata, in tessuto prezioso, da metri si è estesa in chilometri e si sta espandendo in tutto il treno, è un fenomeno incredibile! Chilometri e chilometri di sciarpa pregiatissima, costosissima, esclusivissima ai limiti della irreperibilità più totale che come una melma di stoffa toffolosa si arrampica, si inerpica, immobilizza i passeggeri seduti e inermi, narcotizzati dal tessuto che mette sonno e tranquillità, un valium di flanella pesante che riscalda i piedi e le gambe dei passeggeri, per poi andar su ad avvolgere pance e braccia, il collo, la testa, la faccia, come un piumone vivente che ingloba l’astante paralizzato nel sonno indotto dall’uomo seduto dietro di me dalla cui bocca ha cominciato a uscire un’autostrada di morbidezza e mugolii, una trapunta calda che fodera il treno e i suoi passeggeri. La sciarpa bislunga entra nelle bocche, si introduce in tutte le cavità che trova, entrando nei corpi delle persone che si gonfiano a profusione per i chili di tessuto, la quantità invereconda di ovatta, e l’uomo delle stoffe continua a emettere suoni che sono larve, larve di tessuto lanoso che gli escono dalla bocca, i conati di stoffa pregiata, lane caprine, lane della Mongolia.
È soltanto una mattina come tante altre. Di nuovo. Potrebbe essere qualsiasi ora del giorno o della notte, tanto il cielo ha sempre questa colorazione qui, irritante!
Il supermercato oggi ha un’altra aria però. Più pacata, ragionevole. Non sono nemmeno le otto del mattino, le cassiere conversano, un anziano tasta un pompelmo, una donna giovane fa la spesa con due bambini piccoli che non sono suoi, lei è bionda mentre i bambini sono scuri di carnagione e hanno i capelli neri, quindi credo proprio che non siano suoi. Uno si chiama Lutero, l’altro Lotar. Almeno, immagino che le cose stiano così.
CONTINUA
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