Questo racconto di Stefano Felici venne pubblicato nel 2017 su di una rivista palestra alquanto famosa e tutti vissero Felici e contenti eh eh eh eh. E invece no.
La settimana scorsa Stefanino nostro stava a casetta con la radio a tutto volume sintonizzata su LifeGate che trasmetteva del sano folk balsamico, mentre con cura affettava il sedano da mettere a soffriggere. Già l’olietto sfrigolava in padella con quel giusto po’ di cipolla che faceva sollevare la testa ai passanti giù in strada e incuriosiva tutti i gatti randagi del quartiere, mmm, che profumino. Che pace.
Quand’ecco che il vetro della finestra esplode in mille pezzi! Stefano chiede subito alla santa vergine Maria cosa diamine succede. Qualcosa avvolto nella carta, poco più grosso di un pugno, ha spaccato il vetro. Stefano lo raccoglie, è pesante, apre l’involto, contiene un mattone che il Nostro – grazie alla sua passione per i siti di costruzione e i ponteggi – identifica subito come di tipo doppio semipieno, ma niente di che. Sono tuttavia i fogli accartocciati a catturare la sua attenzione: sorpresa! Si tratta di quel bel raccontiello pubblicato anni fa sulla famosa rivista palestra gestita da persone per bene. Che succede? Qualcuno vuole forse male a Stefanino? Forse non avevano altro modo di contattarlo? Forse si tratta di una ripicca oppure, dio non voglia, di una minaccia?
Domande che non troveranno mai una risposta. Nel dubbio, noi daremo una nuova casa a questo piccolo raccontiello sbandato. Ecco a voi Il Minimo di Stefano Felici.
Primi di settembre del 2008. Appena tornato da una vacanza in Grecia. La sera sono a tavola con mia madre e mia sorella. Non parlano. Il che è strano: di solito non se ne stanno un minuto zitte. Il silenzio comincia a insospettirmi. Chiedo cos’è successo. Non rispondono. Allora guardo mia madre, e finalmente lei mette quella sua solita smorfia tragica, e mi fa: «Stefano.» E io: «Eh.» E lei, straziante: «Non ci sono più soldi!», e in quell’istante mia sorella si irrigidisce, serra le mandibole e sbarra gli occhi, rimane immobile, elabora qualcosa mentalmente, poi, di scatto, si alza, esce dalla camera. Silenzio. Si sente sbattere la porta d’ingresso e il lampadario di finto cristallo, sopra la tavola, comincia a ondeggiare facendo scendere piccoli granelli di polvere.
Così, per farla breve, nel settembre 2008, dopo trentun anni da fiero mantenuto, mi è toccato cominciare a lavorare. Qualche giorno dopo la scenata di mia madre, vado al bar e incontro Wang, che gestisce il ristorante cinese all’angolo della via dove abito. Gli chiedo: «Wang, ti serve mica un cuoco?». Wang scuote la testa, quasi offeso: «No!». E io: «Wang, sei un cinese taccagno del cazzo, scherzavo», e Wang ancora lì a dire «No!, no!, italiani no!» scuotendo testa e braccia con tanta forza che sembra tarantolato. «Wang, dài, quale cuoco: mi accontento di qualsiasi cosa. Purché sia part-time. E va bene pure se mi paghi in nero». Due giorni dopo mi ritrovo nella piccola e oscura cucina di Wang a lavare posate, bicchieri, piatti, scodelle, padelle e pentole. Non faccio altro. Lavo e basta. È tutto grasso e scivoloso, i bicchieri incrostati di calcare. Appena finisco un carico, ne arriva subito un altro. Uso un sapone verde trasparente tenuto in un flacone bianco. Deve bastare per una settimana, dice Wang. Vivo immerso in una nebbia densa: è vapore d’olio fritto. In cucina siamo in quattro. Lo chef è un piccoletto che non arriva al metro e cinquanta, e non sta mai fermo. Il locale di Wang è minuscolo e i tavoli sempre occupati, e questo diavolo di un cuoco cinese sembra caricato a molla. Taglia, frigge, impiatta; gli altri pelano, sciacquano, risistemano. Io lavo. Ogni tanto esco a prendere aria. E quando esco, sul marciapiede, la gente si tappa il naso addirittura a una ventina di metri di distanza per quanto puzzo.
Intorno al venti di ottobre, un mio amico se ne va a Londra dalla fidanzata e io mi butto dentro il suo monolocale, in subaffitto. Ci accordiamo per quattro mesi. Me ne vado nell’ultra-periferia. La casa è orribile e ammobiliata da far schifo. Niente gas. Però acqua ed elettricità ci sono. Niente antenna. Trecentocinquanta euro al mese. Salutato Wang, mi ritrovo in un quartieraccio di asfalto e terra battuta ed erbacce, cabine telefoniche dismesse, un solo bar, un solo ristorante-pizzeria, una fermata del bus, ma pure un internet point gestito interamente da bengalesi. All’internet point ci vado regolarmente, per cercare lavoro. Dopo tre giorni, trovo un posto da operatore di call center per un gestore telefonico. Outbound: chiamo io la gente per rompergli il cazzo con le solite inutili offerte di cui non frega niente a nessuno. La sede del call center è verso il centro, a dieci chilometri da dove abito. Non ho intenzione di fare l’abbonamento mensile, tantomeno il biglietto giornaliero: salto sull’autobus senza niente in tasca. Se sale anche il controllore, qualcosa mi invento.
Arrivo. È un grosso appartamento al terzo piano di un palazzone signorile. Il primo giorno mi dicono le condizioni: guadagni a provvigione, cinque giorni la settimana, cinque ore al giorno, niente fisso, una settimana di prova senza firmare niente. Il giorno dopo e quello dopo ancora, un’oretta in una stanza insieme a cinque-sei ragazzini a imparare a memoria il testo base della telefonata, Salve, sono stocazzo, la chiamo per conto di questa granfava, e le volevo illustrare il nuovo piano tariffario studiato apposta per il gran coglione che sei – il primo giorno ce lo fanno leggere ad alta voce, prima uno alla volta, poi tutti insieme, perché «vi dovete abituare alla confusione, vi dovete allenare ad essere veloci ma chiari, e il tono deve essere colloquiale», ci dice una donna sui cinquantacinque, alta meno di un metro e cinquanta, bionda tinta, con una vociaccia acuta e perforante.
Ecco il primo giorno di lavoro. Mi metto seduto davanti a un pc vecchio e dallo schermo e la testiera lerci, infilo le cuffie, la signora con la vociaccia mi dà un quaderno con una lista di numeri scritti a penna, poi mi fa le ultime raccomandazioni. Faccio la prima chiamata. Mi esce una voce strana e in falsetto, non è la mia, penso, e invece è proprio la mia, e nel frattempo, all’altro capo del telefono, già mi si manda con garbo a fare in culo. Sono le nove e quaranta. Faccio un’altra telefonata: di nuovo la voce in falsetto, e stavolta mi mangio pure le parole. Il signore al telefono mi dice di non essere interessato, e riaggancia senza darmi il tempo di chiedergli che tariffa abbia. Alla terza telefonata mi metto a balbettare già dicendo il mio nome, così attacco, prendo un bel respiro, mi tolgo le cuffie, mi alzo, cerco con lo sguardo la signora e le dico, secco: «Me ne vado.» «Eh?» mi fa lei. «Me ne vado», ripeto, alzando il tono. «Ma non puoi», dice lei con la vociaccia stridula e perforante che si ritrova, tanto che uno dei ragazzi che le sta vicino si gira di scatto e si toglie le cuffie guardandola preoccupato. Io saluto con la mano tutti gli altri ed esco.
A questo punto mi ritrovo senza un euro e con affitto e cibo e tutto il resto a cui provvedere, ma come non lo so. Passano settimane e mesi. Con l’affitto rimango indietro. il mio amico che sta a Londra comincia a maledirmi ogni giorno che passa, vorrei mandarlo a fare in culo e dirgli che se non posso pagare non lo faccio mica apposta, ma mi tocca abbozzare. Nel frattempo, mia sorella s’è messa a lavorare a tempo pieno per un’impresa di pulizie: un po’ da lei, un po’ dalla pensione di reversibilità di mia madre – che quando mi vede le si gonfiano gli occhi di la lacrime, la trachea le si restringe fino a rantolare, ma mica piange, mica le prende un colpo: si esercita solo con le sue sceneggiate – riesco a mettere insieme qualche soldo per mangiare e lavarmi i vestiti.
Ho imparato a fare tutto al minimo: con un goccia di sapone per stoviglie del discount ci monto sei centimetri di schiuma – stessa cosa col sapone per il corpo; cibo, solo quello in offerta; frutta e verdura le prendo al mercatino, a quattro isolati da casa mia, in orario di chiusura, verso sette di sera. Per una settimana, visto che un pacco da un chilo era in offerta a 1,49 – ne ho presi cinque –, ho mangiato del riso bianco parboiled insaporito con brodo lungo di sedano, cipolla e carote – presa una cassetta intera una sera al mercatino, per un manciata di monetine di rame.
Ho tirato avanti fino a fine gennaio. Il debito col mio amico aveva superato i mille euro. Sono stato a tanto così da trovarmi un lavoro vero e a tempo pieno. Ho chiamato mia sorella, una giorno, chiedendole se fosse stato possibile affiancarla all’impresa di pulizie: mi ha detto: «Certo. Ma ti richiamo più tardi ché adesso ci ho un mal di schiena terribile».
Una mattina mi sono messo sul marciapiede opposto all’internet point dei bengalesi: non so cosa cazzo mi fosse saltato in testa, davvero – m’era venuto in mente di studiarmi la situazione per riuscire a fregargli l’incasso. Sul serio. Ma meno male che mi arriva una chiamata di mia sorella, che mi dice di aver girato il mio numero a un suo amico che fa e monta video di eventi, partite di calcio, matrimoni, concerti; «Vacci e basta», mi ha detto mia sorella, «ti paga a lavoro fatto», ha aggiunto come se l’impegno fosse stato ormai già preso da lei, «cominci dopodomani.» Mi è toccato presentarmi alle due del pomeriggio in una chiesetta dedicata a San Biagio, alla periferia nord – io stavo in quella sud: una traversata di un’ora e un quarto d’autobus.
Io e questo amico di mia sorella dovevamo fare le riprese di un concerto di non mi ricordo quale orchestra di vecchi sciamannati – un mare di teste bianche e pelate, in cui risaltava quella color rame della pianista settantenne. Chiedo all’amico di mia sorella: «Quando cominciamo?» E lui: «Tra due minuti. Partiamo nello stesso istante. Non stoppare mai la ripresa. Cerchiamo di stare sempre in zone diverse. Tieni l’inquadratura larga e fai pochi zoom.» Dopo un’ora di concerto, già non ce la faccio più. Comincio a fare riprese mosse e storte. A un certo punto ho un crampo: butto giù il braccio e l’obiettivo finisce a riprendere il pavimento per un quarto d’ora. Il concerto, alla fine, dura circa due ore e mezza. Appena finisce consegno la telecamera all’amico di mia sorella e gli chiedo i cinquanta euro pattuiti: «Te li do a lavoro finito, promesso. Appena consegno, ci pagano». Soldi mai visti. Il giorno dopo mi chiama e mi dice che giusto una zappa potrei tenere in mano; ma neanche; e forse, in mano, non dovrei tenere nemmeno l’uccello per farmici le seghe. Così dice.
Torno da mia madre e vado a lavare i cessi con mia sorella, ho pensato. Magari comincio dandole una mano: giusto un paio d’ore, a fine turno, mi sono detto. Solo che poi l’hanno sfrattata, a mia madre, e cioè a tutti noi, e che ora che il gioco si fa duro io c’ho meno voglia di prima. E dire che a me mi basterebbe il minimo, per stare bene.
Stefano Felici
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