Alison Schenetti, Cos’altro c’è in Romagna, Lyz? Operazione Cadillac 20/C post 3 (qua tutto, qua i racconti, copertina di Antonio Ufarte) conclusa. Buon natale.
Un uomo era morto nel comprensorio dove era andata ad abitare. Aveva sentito un grido e pensato che fosse il contro canto al coro che nella sua testa risuonava da giorni, il loop della canzone che non aveva più ascoltato da allora. Dalla finestra poteva vedere due colombi appollaiati sul tetto di lamiera, a un braccio di distanza dal suo volto scheletrito dall’inverno; spiccavano il volo sulle grondaie arrugginite, verso i vetri opachi che come fotogrammi mostravano in verticale le porte identiche di un ascensore tagliate dalla stessa luce cava. Ogni appartamento sembrava abbandonato, sigillato da un azzurro gassoso che si incrinava nel fondo dei suoi occhi e sollevava una cortina di fosfeni minacciosi che aumentava la sua ansia e ribaltava su di sé ogni cosa. Era come vedersi, in lutto per Göttin, la dea che non era mai stata.
A Torino leggeva Kafka, a Firenze Luca Ricci, Lugo era una distesa lontana che minacciava di scomparire se solo si fosse arresa al ricordo sbiadito. Durante il trasloco aveva ritrovato una lettera mai affrancata indirizzata alla Lyz del 2017. Conteneva una lista di motivi per cui non aveva amato Twin Peaks. Il settimo punto le sembrava il più sbagliato: era la fotografia della posa falsa della propria vanità, o l’urgenza di ristoro che provava allora? Che tipo di falsificazione di sé sarebbe stato riscrivere quella frase, “è come se Tom Sawyer si fosse chiamato Zuckerman”, in modo meno perentorio e più paziente?
Tutto ciò che accade, si disse ripensando a Lo, accade senza che ce ne accorgiamo. Da bambini avevano passato molte notti da soli, avevano potuto concedersi serate intere di fantasie ininterrotte in virtù della mancanza di supervisione adulta. L’incantesimo fu interrotto quando i nonni si convinsero che il Midwest non si accordava più alla condizione di Claudia, e decisero che il tempo di ripetere alla rovescia il viaggio che dieci anni prima li aveva portati nel simpler, more agrarian, and often more virtuous place than whatever else fosse arrivato.
I ricordi dell’ultimo anno a Milwaukee non l’avevano mai abbandonata, e trent’anni dopo l’evocazione di quei giorni surreali era ancora la fonte più rorida di felicità nella sua vita.
Avevano vissuto nascosti in casa, senza poter andare a scuola, uscire e giocare, con la raccomandazione di non farsi sentire dai vicini. Claudia era convinta che se fossero stati scoperti sarebbero stati espulsi dall’unica terra dove avrebbero potuto ricominciare da zero e prosperare liberi dal passato. L’America non voleva i suoi figli e ogni mattina, prima di andare a dormire dopo una notte passata a fumare, ripeteva ai bambini: non ridete, non piangete, non fate rumore. E così, respirando con una consapevolezza oltre umana e con un sollievo che non avrebbero mai più provato, fingevano di trovarsi su una nave persa nel mare, o di essere dei reali in esilio, chiusi in un castello abbandonato di campagna. Erano in un rifugio antiatomico e il mondo era stato appena distrutto. Erano nella camera d’albergo di Dale Cooper con il sorriso di Bob impresso sui volti. Preparavano la colazione, lavavano i piatti, pulivano la casa senza dire una parola, finché Claudia non riemergeva dalla sua stanza avvolta nella nuvola di fumo che come un segnale avevano imparato a riconoscere.
Schizofrenia. Che parola complicata.
I medici che negli anni l’avevano accolta erano concordi nel ritenere che Lyz portasse in sé i segni di ferite mai rimarginate, ma non riuscirono a persuaderla che la sua infanzia fosse stata negata: crescendo aveva conservato l’amore per ogni genere di artefici e qualcosa di intenso nello sguardo, il presentimento di un accadimento che da sempre condivideva con Lo. La nostalgia era stata un volto spigoloso, le orecchie sporgenti, la pelle diafana, la certezza di una salvaguardia che avrebbe fatto andare ogni cosa al suo posto per sempre.
I ricordi minacciavano di morire, lei era la mnemone che aveva ricevuto l’ordine di tenerli in vita.
Tornati in Italia si separarono. Lyz andò a vivere a Lugo, dove conobbe il padre. Lo restò con i nonni a Torino. Continuarono a frequentarsi finché le persone attorno a loro iniziarono a morire.
Una volta all’anno si incontravano a Firenze, l’aria incerta e un po’ smarrita di chi è abituato ai muri alti e alle porte chiuse. Sentivano il desiderio di guardarsi come sentivano il sole caldo delle Cascine che modificava il colore della loro pelle. I tigli fioriti nella luce immobile delle stagioni diverse incolonnavano lo spazio dove amavano perdersi per il piacere di ritrovarsi. Lo si nascondeva dietro a un tronco, contava fino a dieci e poi urlava al cielo le stesse parole: «Cos’altro c’è in Romagna, Lyz?» Lyz pensava che in quell’immensità inafferrabile avrebbero potuto trasformarsi in una casa pronta a esplodere, annegare e poi dissolversi nel conforto di essere esistiti a sufficienza per fare tutto quello che avrebbero voluto.
«Le cicogne!» rispondeva lei, e andava a cercarlo senza correre per non trovarlo subito e rompere la finzione di un gioco che non avrebbe mai voluto concludere.
Allungava il passo, rallentava di nuovo, chiamava il suo nome. A volte lasciava che il buio scendesse e, esausta e disperata, un pianto la scuoteva incupendo ogni cosa intorno; altre volte lo aspettava dove sapeva che sarebbe tornato se si fossero persi sul serio, e il pensiero che nel mondo per lei c’era solo lui diventava la mancanza feroce della perdita di sé, e non di un fratello.
Una sera trovarono centinaia di denti ai piedi di un leccio. Rimasero a fissarli e provarono a contarli finché calò la notte. Alcuni erano gialli e lunghi come falangi, altri sembravano caduti dalla bocca di un bambino; si riempirono le tasche e mentre andavano via pensavano che avrebbero potuto lasciarli cadere alle loro spalle per ritrovare quel punto dove qualcosa che non potevano vedere doveva essere accaduto.
All’uscita del parco Lo vide un uomo dirigersi verso di loro e ne fu turbato: chiese a Lyz se non le sembrava che camminasse in modo innaturale, strisciando la gamba sinistra e con una spalla incassata sul punto di slogarsi, se fosse sicura che non lo conoscessero o se per caso non lo avessero già visto prima. Si fermarono sotto il cono di luce di un lampione portandosi le mani in tasca, finché l’uomo non li raggiunse e li superò senza badare a loro.
Più tardi quella notte Lyz sognò quell’uomo. Si era addormentata nella sua stanza sfogliando una rivista di judo, mentre ai piedi del letto l’uomo le sussurrava che sembrava davvero la bambina ritratta in copertina per avere appena ucciso un avversario con un colpo solo; nella fotografia la piccola aveva la cintura slacciata ancora sporca di sangue, le unghie spezzate, i capelli bagnati, le gengive scoperte, i denti piccoli e bianchi e lo stesso sorriso che aveva Lyz mentre dormiva. L’uomo si sfilò la cintura dai pantaloni, poggiò la fibbia sugli occhi della donna e la punta del cuoio sulle labbra in copertina, aprì la finestra e scivolò via lungo la grondaia.
La mattina dopo Lyz fu svegliata da un grido. Qualcuno era stato ammazzato nel comprensorio dove era andata ad abitare.
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