Questa sera alla libreria Todomodo presenteremo La vita moltiplicata (Miraggi Edizioni 2019, l’evento Facebook è qui), nell’ambito dell’operazione SIMONE GHELLI MIGLIOR RACCONTISTA D’ITALIA. Per leggere la raccolta telefonate allo 06 3107 9007 (Libreria Todomodo, Roma), allo 06 8865 9458 (Tomo Libreria Caffè, Roma), allo 081 18752142 (Wojtek Libreria, Pomigliano d’Arco), al 371 109 1099 (La Confraternita dell’Uva, Bologna), allo 055 239 9110 (Libreria Bistrò Todo Modo, Firenze) o a qualsiasi altra libreria indipendente che vi fregiate di salvaguardare nel giorno del Black Friday. Primo racconto da leggere: L’ultima vetrina. Lo sciopero di Nuova Edizione intanto continua, ne parla qua Matteo Scandolin di Inutile. Giovedì 5 dicembre 2019 SCENICCHIA UNA SEGA #4 PRATICAMENTE UN CARTACEO (l’evento è qui). E se vi state domandando perché di giovedì e non di venerdì o sabato la nostra risposta è: non ce ne frega un cazzo, chi non viene è un colluso con i fatti del 25 aprile 2019/6 novembre 2019.
Vera è un estratto pazzesco da La vita moltiplicata. Ci vediamo alle 18:30 in Via Bellegra 46, Centocelle, Roma (mappa). È abbastanza chiaro?
Vera si alzò, non era ancora l’alba, e al buio rovesciò i loro pensieri: un fracasso che non avrebbe voluto; ma anche se, alla fine li ruppe.
Coi capelli, poi, coperse il cielo. Livio non vide più niente, nemmeno il sorriso di una nuvola o il suo pianto.
«Vera, cos’è questo sussulto?»
Scrollò le spalle: un pianto muscolare da tremare tutta la stanza.
«Ridono di noi,» gli rispose.
Le grida delle cornacchie appollaiate sulle antenne precipitarono dentro, scrosciando come da un rubinetto improvvisamente aperto.
«A forza di stare lì, coltiveranno orribili visioni…»
La implorò: «Vera, vieni qua, o ti beccheranno gli occhi!»
Ma era già troppo tardi: una musichetta da varietà salì dalla strada, cinque piani più sotto, e una raffica di penne ridusse a un colabrodo la sua amata.
Tutti i pensieri rimasti, e i sentimenti, e le frasi ancora da dire; tutto questo e altro ancora si era riversato a terra: un minestrone in cui galleggiavano come zattere parole di tutte le dimensioni. Alcune erano in parte mangiate, e lasciavano scoperto il bianco delle ossa; altre erano molli e intrise di sangue come delle interiora.
Livio s’inginocchiò alla ricerca di un senso – il pavimento tremante e oscillando il palazzo in preda a convulsioni, scosso da passi pesanti lungo le scale.
La realtà s’inclinò di lato, i pensieri scivolarono verso il fondo e con loro gli avanzi di quell’orribile pasto.
Fuori, il mondo si era fatto improvvisamente nero e gli uccelli malvagi avevano indossato fusoliere di metallo e ordigni sotto le ali, che lanciarono a grappolo sull’orizzonte gravido di antenne. Stabile e inerme, aggrappato alle proprie macerie, Livio guardò le esplosioni di immagini che sbocciavano dai fuochi d’artificio lanciati in alto, il culmine dello spettacolo pirotecnico farsi blu elettrico. Nel cielo, popolato da immensi pianeti che si affacciavano minacciosi, gli sembrò di poter toccare la Luna e persino Giove dietro di lei; persino il profilo di Vera, i suoi capelli accarezzati dagli anelli di Saturno e con loro i satelliti, che sfilavano al suo cospetto.
Dalla rivoluzione orbitale si alzò un respiro che levò una fitta nebbia, i resti della città giacquero avvolti in una sconfinata ragnatela.
Del loro regno Livio non vedeva ormai che pochi minuti, gli scheletri di cemento abbandonati e le intelaiature delle finestre, come occhi vuoti dietro ai quali non si sporgeva nessuno.
Tutti gli altri se ne erano andati via, finalmente scomparsi nel groviglio di linee che non poteva più definire – forse avanzi di strade o tralicci della corrente andata.
Osservò infine ogni cosa disfarsi, carne passata in ombra e poi niente, fantasmi inghiottiti dal vaporoso orizzonte dove qualcosa sfarfallò. Una teoria di batteri stava accorciando le distanze, velocemente assediò il suo piccolo ed elevato avamposto, finché anche il tempo non gli crollò addosso catapultandolo all’indietro, dentro un vecchio album fotografico: in un pomeriggio in collina ritratto da mano malferma, dove avevano bevuto un vino bianco, fresco e frizzante, che si vedeva sulle guance rubiconde, sui lucidi nasi. Dietro s’intuiva la campagna e più lontano il mare, ma non fece in tempo a distinguerne la linea, a separarlo dal cielo, che già l’immagine di Vera lasciava spazio ai campi coltivati a vite e alle casupole sparse, tra le altre linee più nette, che erano d’asfalto. Livio allungò la mano per riprendersi quel corpo e sottrarlo al nulla, resuscitarlo da quel fondo di arbusti e sassi che sarebbero diventati capelli e occhi e poi anche orecchie, ma non erano rimaste che macchie, impressioni buone per perdersi in fantasticherie. Nell’inquadratura non era sopravvissuto che lui, tutta la felicità di prima trasformata nella disperazione di un ubriaco che si sforzava di ridere all’indirizzo dei passanti.
Andò ancora avanti e ancora, sperando chissà cosa, forse di battere il tempo e fermare almeno un giorno, l’immortalato momento. Non era forse così che si diceva? Le fotografie dovevano rendere presente il passato, donare vita eterna ai soggetti, a quel certo qual modo di essere in un secondo e non in un altro. Davanti a sé Vera stava diventando definitivamente fantasma, passava tutta intera dall’altra parte, lasciando Livio, solo, al destino di quella transizione perpetua, che non andava né avanti né indietro. Che senso aveva farsi fotografie da soli? Per testimoniare cosa?
Ed eccola invece fortunamente di nuovo, più avanti, che lo salutava in piedi, la mano alzata e aperta, i capelli al vento, mentre uno dei tanti battelli in gita sul Bosforo le passava dietro e subito ne prendeva il posto. A Istanbul aveva temuto di perderla una prima volta, schiacciata tra la folla del mercato delle spezie che spingeva in ogni direzione, tra tutte quelle teste coperte, il caldo opprimente, l’odore forte dei dolci zuccherati esposti ovunque, e intorno alambicchi di ogni tipo, in rame e in bronzo. Una vecchia aveva cercato di colpirla con la punta di un ombrello, che teneva alzato davanti a sé per farsi spazio. Per alcuni lunghi secondi avevano rischiato di morire soffocati, calpestati e lasciati lì, come due insetti inadeguati nel tumulto del formicaio. Smarriti, si erano infine guardati quando erano riusciti a passare oltre e avevano continuato a insistere, a inoltrarsi per una lunga strada stretta, uno spazio esiguo tra due file di bancarelle e poi ancora, in strade sempre più polverose, dove il silenzio si era fatto più minaccioso del caos, su verso Suleyman e poi sotto l’acquedotto romano. Non si erano certo risparmiati i piedi e ovunque fossero sentivano il richiamo del muezzin, persino la sera tardi, quel grido amplificato nella calca dei giovani tra Taksim e Galata, che suonava come l’allarme della contraerea. Avevano consumato i loro passi trascinandosi fino all’albergo, le orecchie bombardate da tutti quegli stimoli, e ogni notte si erano detti che magnifica città, ma anche che sarebbe stata troppo, troppo di tutto. La loro era una dimensione privata, non erano fatti per un simile crogiolo, per l’orda dei turisti che spingeva sul molo e ora anche là dietro, laddove Vera sola sorrideva e un secondo dopo non più, ingoiata dalla moltitudine.
In Terra Santa era andata anche peggio: si erano ritrovati in un gruppo di trenta persone e avevano dovuto sottostare al loro ritmo, al passo rallentato dei pensionati che camminavano con l’obiettivo spianato e pronti a collezionare immagini ricordo, a elargire il loro ignorante giudizio su una terra ricca di contrasti, di chiese e di muri, di pietre antiche di millenni. Più volte aveva cercato di sorprendere Vera, ma con lei c’era sempre un pezzo degli altri, una testa o una schiena o anche solo dei piedi, e così era successo a Nazareth e a Jaffa, persino sulle rive del Mar Morto, dove non facevano che asserragliarsi sotto l’ombra esigua di una palma circondati da gatti che assomigliavano a pipistrelli. Ovunque quel vento caldo, insistente, quella convivenza forzata che li esasperava. A Gerusalemme cercarono di confondersi tra la gente, di trovare pochi minuti per loro tra le bancarelle della città vecchia, mentre quegli altri arrancavano sull’acciottolato e parlavano, discutevano anche lì delle loro beghe quotidiane anziché ascoltare, immergersi in quel bailamme di popoli ai piedi della spianata. Nelle foto non rimanevano adesso che quei dettagli, quei frammenti di vite altrui che persistevano come oggetti estranei, loro ancora lì e lei che svaniva, che diventava nebbia e poi un’oasi, uno sfarfallare dell’aria sulla linea infuocata tra terra e cielo.