SUS#2 #16: Il Turista

Altalena

Littlepoints…Altalena

“Tanti auguri, grande… No no, tanti auguri, maestro… Mmm no, ah sì! Tanti auguri, dall’allievo al maestro… Anzi no, non me ne frega un cazzo”.

L’altra sera il Commissario stava componendo il messaggio d’auguri per il caro Vanni Santoni quand’ecco che è suonato l’immancabile telefono in bachelite – salvato dallo sgombero del coworking di Pesaro e ora al sicuro sulla sua scrivania nella stanza in Via Gregorovius (nessuno crederà mai che esista una strada con questo nome). All’altro capo, un Luccone su di giri che strillava nel telefono: “Uè, siamo qui io, Magini, Rialti, Pascoletti, pensa te Pascoletti è ancora vivo chi cazzo lo sapeva?, e c’è pure Orso Tosco! Siamo qua a casa Bellucci a festeggiare il nostro caro Vanni! Che però ancora non si vede”.
“Ma lo avete invitato?”, chiede il Commissario con naturalezza.
“Azz… Dici che…?”
“Eh”.
“Ah”.
Com’è come non è, parte nottetempo una ricerca a tappeto per tutta Roma, perché il signor Santoni ha dimenticato il suo 3310 al Liceo Classico Goffredo Mameli – dove ha tenuto una lezione di storia sullo scouting letterario che ha fatto la fine delle mezze stagioni – ed è quindi irrintracciabile. Si teme per lui la stessa fine di Sergio Peter. Com’è come non è, salta fuori che in realtà il maestro Vanni era già alla festa in casa Bellucci e si era solo appisolato in un angolo, mimetizzato sotto l’intera collana Tunué. Com’è come non è, ci rendiamo conto che è ormai tardi per caricare il racconto del lunedì  il quale viene quindi spostato a oggi. Ma, ragazzi, è abbastanza chiaro: dovete “assuefarvi” all’idea che Verde d’ora in poi pubblicherà un po’ quando cazzo le pare.

Giada Santori è l’autrice più giovane mai apparsa su Verde. Il 7 giugno scorso ha vinto l’ultima serata di Scenicchia una Sega #2 alla pazzesca età di 17 anni e 10 mesi. Patronizziamo Giada e ci bulliamo con le parole totem filtro-palestra-scouting? No, ma iniziamo a riflettere seriamente sul ruolo delle riviste. Piccolissimo inciso serio e anticipazione di ciò che presto sarà: dentro Verde non si è mai fatta palestra di scrittura, immagine che rifiutiamo perché le palestre, pensateci un attimo seriamente, sono i luoghi della negazione del confronto e del combattimento,  sacrificati sul desco della cura estetica, esteriore e individuale, praticamente il modello di rivista egemonico che noi rifiutiamo, così come rifiutiamo il concetto di scouting, soprattutto se subordinato al prodotto editoriale medio e mainstream. La verità è che è   stata Giada a scovare Verde, noi le abbiamo dato soltanto un piccolo spazio. A lei adesso allargarlo e renderlo funzionale alla sua prospettiva. Con la pubblicazione de Il Turista si conclude un ciclo di Verde. Se ne aprirà presto, s’è già aperto, un altro.

L’illustrazione è di Littlepoints… che ringraziamo per averci fatto compagnia a settembre.

Era notte; il Turista attraversava la stazione di Berlin Ostbahnhof per rientrare in albergo. Come al solito, oggi niente tempo per lavarsi. Zaffate oleose e ricciute di un mix di sostanze incastrate fra i suoi capelli colavano ricche di sfumature al suo naso, e facevano la cronaca di quattro giorni di astinenza dallo shampoo. Aveva: una stanchezza artritica alle ginocchia; ciabatte, portate per una questione di comodità e di ariosità; era: fiaccato dal tentativo di scavare, fra le sue pieghe cerebrali pesanti come un piumone, un posticino per un lungo inventario storico-artistico; stanco, soprattutto, stanco e puzzolente, stanco con aspetto pezzente, fustigato dallo zaino che rimbalzava sulla sua schiena con più ostinazione della notte e del fetore che lo teneva vigile. Berlino non gli piaceva. Voleva tornare a casa, dove le parole non sembrano pompate di rutti e il suo letto non era affiancato da nessun orologio né, tanto meno, da nessuna sveglia. Ma così era.
Il Turista con le ciabatte e l’albergo prenotato per altre due notti varcava la porta scorrevole della stazione, che rifletteva un uomo dalle fattezze orientali integralmente (pelle compresa) in nero e verde oliva. Il riflesso era appollaiato sulla sua spalla destra. Il (?) cinese fu traslato dalle porte; la notte non aveva riflessi o bus in circolo, luci larghe quanto lettere. La solita svolta a destra. La notte non aveva riflessi, ma le vetrate, che erano gli ultimi binari ideali della stazione, sì. Con gli stessi colori, meravigliosamente falsati, sovrimpressi ai cartelloni del McDonald’s, il cinese avanzava dietro a lui. Che non fosse un’allucinazione (almeno, non solo visiva) lo testimoniava anche il suono retrostante della scivolata stile mocho prodotto dalle sue infradito quasi sicuramente cinesi, che raccoglievano sporco di barboni e briciole e gocce di bibite take away e i suoi passi; si potenziava con ogni particella ingoiata, un rumore con le fauci. Il cinese era mingherlino, compresso dal caschetto nero, un po’ un bagaglio a mano; immergeva le mani nelle tasche fino a far dubitare dell’esistenza di estensioni brachiali dal gomito in giù.
Lo stava seguendo.
Almeno, questo fu il primo pensiero; poi il Turista si chiese se fosse plausibile che dal prosperoso insieme dei Turisti attivi certe rare esperienze selezionassero proprio lui, se quel sospetto non fosse solo megalomania razzista che bollava indiscriminatamente tutti i cinesi amanti delle infradito fabbricate in patria e delle stazioni, che dopotutto erano posti popolati e funzionanti in città popolate e funzionanti; e quindi doveva essere megalomane a credere che quel cinese si stesse avvicinando al suo zaino borbottante, ma al contempo esiste sempre una prima volta, un primo sperimentatore, un archetipo per centinaia di lamine di carta carbone, che può essere chiunque, anche un signor nessuno, perché quel che può succedere può succedere a tutti, un sorteggio fatale o un risveglio del fato; e forse ora o il fato o la fatalità bussavano alla sua schiena con il puntiglio di un esattore delle tasse, del suo zaino, di uno strisciante rumore di infradito che leccava la sua scia, sotto forma di un simil-uomo che non ci voleva nessun criminologo a identificare come possibile malfattore.
Così il Turista conobbe la differenza fra l’impossibilità e la scarsa possibilità, che crea le celebrità ed è spessa abbastanza per fungere da trampolino di lancio. Il trampolino era collocato a dieci metri di altezza, quindi il Turista (che ovviamente sapeva di non trovarsi in pericolo, non era razzista) decise di fermarsi vicino a un gruppo di fiduciose biciclette che si specchiavano nella sala del McDonald’s solo per controllare il cellulare e confermare alla sua famiglia il proprio stato di benessere e salubre convenzionalità, in quello che forse sarebbe stato il suo ultimo e tragico messaggio, e per questo avrebbe dovuto inviare un messaggio vocale, ma avrebbe rivelato troppo avventatamente di essere italiano. Non voleva as-so-lu-tamente controllare i movimenti del cinese, che come affermava la città sua ospite aveva l’umano diritto di circolare senza muri, però notò che le tracce auditive del suo passo netturbino erano scomparse sotto il silenzio notturno e lo vide, accanto a sé, leggere a una distanza presbite il cellulare oppure solo i palmi delle mani. Fermo a tre appezzamenti di biciclette. Ricordava quelle scimmiette che non sentono, non vedono, non parlano, a metà fra il non vedere e il non parlare. Non era improbabile che l’incredibile affetto e riconoscenza del Turista verso la sua famiglia avessero risvegliato nel cinese, dotato di facoltà telecinetiche, simili esigenze relazionali e bisogni comunicativi, e anche lui stesse inviando un messaggio ai parenti etc. etc., ma ogni ventoso momento spingeva il megalomane/sfortunato Turista sull’orlo del trampolino della sventura, alto molto più di tre appezzamenti di bicicletta. Ora, il cinese poteva non essere cinese, le sue intenzioni potevano essere non le intenzioni prefigurate, perché lui, Turista ignorante, non era così megalomane da illudersi di dover correre da un momento all’altro nel folto della notte con indumenti volanti e vento ululante, in una scena che una telecamera professionale avrebbe inquadrato in obliquo e ornato di frenetiche scie di luce azzurrognole; in ogni caso tornò dentro, per comprare una bottiglietta di acqua al McDonald’s, anche se lui tendeva a finanziare le realtà locali e boicottare organizzazioni capillari che prosciugavano la ricchezza soprattutto culturale di quel territorio e anche del suo, certo. Evviva il currywurst e abbasso il BigMac. Ma una bottiglia d’acqua è perdonabile, soprattutto se un cinese, presunto possessore di un taglierino o di una lama da rasoio (tenuti in tasca, perché altrimenti sarebbe stupido ad avvicinare così tanto le mani alla faccia), ha l’occasione di azzardare un inseguimento. Ma è parte dell’esperienza cittadina. Certi tipi trasversali di beneficenza, o richieste di beneficenza, sono aghi per spalancare forzatamente le palpebre e immergere nell’esperienza cittadina. Dopotutto il Turista avrebbe potuto, invece di scappare, versare un po’ di spiccioli in mano al cinese, o esserseli già finiti con donazioni ai suoi compagni di povertà, di diverse calzature e etnie, e così, non avere niente da perdere. Ma il Turista, che ha dovuto spremere i suoi novanta chili di riserve energetiche per violare i paradossi del movimento qua e là per Berlino, ha bisogno di acqua, bratwursten e kraften come parte dell’esperienza, ingressi ai musei, audioguide per dare un senso, e quindi ha bisogno di soldi. Tanti. Magari il cinese preferirebbe dormire, ma, dal momento che (il Turista scruta dall’interno del fast food) si è smaterializzato (immagina) con la stessa dissolvenza cerata dei vampiri, nessun incantesimo potrebbe chiedergli se ciò sia vero.
E il Turista deve studiare un piano per ritornare all’albergo senza imbattersi nel pericolo di altre lamette immaginarie o mani di velluto teoriche. Medita grattandosi quattro giorni di barba e infine, dai tunnel sempre esalanti della stazione, emergono due ragazze del suo albergo. Dopo una giornata probabilmente simile di peregrinazioni berlinesi, le due assomigliano a un alimento tenuto troppo tempo fuori dal frigo, mangiucchiato. I loro vestiti alle ginocchia sembrano un pretesto per svelare i dragoni protettivi tatuati rispettivamente sulla caviglia destra e sul polpaccio sinistro. Le ragazze riescono comunque a evocare magicamente l’apertura delle porte automatiche su cui cinque minuti prima si era specchiato, in prospettiva gerarchica, il cinese. Il Turista fa quasi esplodere la sua costosa bottiglietta d’acqua per agganciarsi a loro; sono il treno delle undici e trentasette nach l’albergo, individueranno eventuali rapinatori che attaccheranno loro prima di lui, oppure saranno fresca acqua nel caso qualcuno lo sospinga giù dal trampolino. Al nuovo e definitivo impatto con la notte il Turista calca il cappellino spielberghiano sulla fronte, e segue il loro segnale GPS. Le ragazze sono forse danesi, forse svedesi, sicuramente nordiche. Un calo di concentrazione, nella delega totale della funzione orientativa alle ragazze, causa anche un calo di energie, e adesso i piedi si scuciono appena da terra. Lo sguardo azzurro ghiaccio forse danese forse svedese sicuramente nordico di una delle due è oscurato dalla notte, ma la sua rotazione di testa è un riconoscibile movimento predatorio. Si trovano sempre al cospetto del McDonald’s. Lei estrae il cellulare dalla tasca e consulta le ultime notizie, personali o impersonali, vicino alle biciclette. L’altra accenna passi ritmici dal piede destro al sinistro e viceversa. Lui, che accetta guasti al treno solo a breve termine, fa tutte e due le cose a tre biciclette di distanza. L’orizzonte visivo della seconda ragazza nordica è un’orbita disegnata in modo tale che lui ricada nel percorso casualmente; lui, con la testa e la barba affondate fra le spalle, sperimenta ancora più direttamente i propri umori corporei. Le due si scambiano qualche parola nella loro lingua spirata e contorta come le fiamme che fuoriescono dalle nari dei due dragoni, come la fame che fuoriesce da uno stomaco nascosto in un bagno. Alla fine tornano indietro con una traiettoria sempre ariosamente orbitale e accettano il benvenuto stampato sulle porte della stazione, poi il benvenuto parziale del McDonald’s.
Ora, il Turista sa che cosa è successo, ma è stanco. Nonostante uno sconnesso astio per le ragazze misto a un esile senso di vergogna, decide di utilizzare la tattica dei lampioni (campata di luce dopo campata di luce, tana dopo tana) per rientrare, poi di dormire, perché è dolce dormire; e, anche se potrebbe averlo pensato in un passato recente, ora raffreddato da una bottiglia di acqua fresca e costosa, e da una doccia fredda metaforica, probabilmente non condividerà la sua esperienza su Facebook e non ne trarrà una sceneggiatura.

QUA tutti i racconti finalisti di SCENICCHIA UNA SEGA#2 – PRATICAMENTE UN CONCORSO LETTERARIO

Giada Santori

2 thoughts on “SUS#2 #16: Il Turista

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